Don Chisciotte primo romanzo moderno di Dario Puccini

LETTURE critiche

Don Chisciotte primo romanzo moderno

di Dario Puccini

Il Don Chisciotte di Cervantes si presenta come una parodia dei libri di cavalleria, ma questo è soltanto il primo livello di lettura. L’opera, infatti, diventa ben presto una creazione autonoma e originale. L’ispanista Dario Puccini (1921-1997) si chiede quale sia la posizione dell’autore rispetto alla figura del protagonista. Lo scrittore, di fatto, tende a nascondersi attraverso un fitto gioco di specchi, a partire dall’espediente (che avrà in seguito grande fortuna) del manoscritto ritrovato. Ciò gli consente di presentare nel testo una pluralità di punti di vista: tratto compositivo e stilistico che da qui in poi diventerà tipico del romanzo europeo moderno, al pari del carattere articolato e composito dell’ordito linguistico.

Com’è sin troppo noto, e come è scritto in tutte lettere nel Prologo, il Don Chisciotte «non mira ad altro che ad abbattere l’autorità e il favore che hanno nel pubblico di tutto il mondo i libri di cavalleria». Questo è l’esplicito e più volte esplicitato proposito dell’opera. (Tanto spesso esplicitato da sembrare una «verità sospetta», o almeno fortemente sospettabile). A tale intento, comunque, ben si adatta l’inusitata individualità del protagonista: un anziano signore di provincia che, avendo trascorso anni ed anni a divorare libri di cavalleria, ha perduto il senno e il contatto con la realtà di tutti i giorni, fino a credere perfettamente alle vicende improbabili e remote ivi narrate anziché alle cose e alle persone che lo circondano. Poi, una volta uscito all’avventura e travolto dalla sua impetuosa immaginazione, il bizzarro signore è naturalmente portato a immergere le cose e le persone in cui s’imbatte nella atmosfera letteraria della cavalleria errante. Com’è anche noto, il contrappunto realtà-immaginazione viene assicurato e a ogni passo garantito, per quasi tutto il libro, dalla presenza di Sancio Panza, un contadino un po’ sempliciotto, che si lascia attrarre dalle promesse di ricchezza e di potenza di don Chisciotte, divenendo il suo scudiero e il suo inutile suggeritore di concretezza e di buon senso.

Parodia, dunque, dei libri di cavalleria, dato che essi hanno il potere di stravolgere il cervello d’un buono e onesto cavaliere: questo il significato primo del libro (e il suo primo livello dichiarato di lettura). Ma già nell’enunciare siffatto pattern1 se ne avverte l’insufficienza, poiché si dovrebbe abbassare il punto di vista dell’autore al piano di quei due benpensanti paesani, che sono il curato e il barbiere, anche se il primo ha almeno le qualità sommarie del corretto intellettuale conformista. Meglio allora spostarlo verso i dintorni della sede mentale di Sancio, il quale asseconda la follia di don Chisciotte, tentando di correggerla con l’osservazione minuta delle «cose che si vedono», e con proverbi e sentenze popolari. Ma, anche a prescindere dalla posizione culturale decentrata d’un simile personaggio plebeo, si nota subito che le sue sentenze e i suoi proverbi hanno grandissimi limiti, giacché ripetono una immobile, inalterata e in fondo improduttiva saggezza. Non rimarrebbe, in questa graduatoria ascendente, che il mondo esaltato ed esaltante (e contagioso) del protagonista, immerso in una pazzia così prolungata, compatta e sistematica da sembrare pura, infrangibile come un ideale. Tuttavia, per quanto risulti notevole l’adesione di chi scrive alle sorti tenero-grottesche, tragicomiche e patetiche di don Chisciotte, sarebbe errore dimenticare che dentro il libro sta sempre in agguato un occhio duramente critico sia verso l’ethos2 cavalleresco, sia verso l’ethos borghese, quale già si stava affermando in Europa e cercava di affermarsi anche in Spagna: un ethos borghese che trapela nella cruda concezione «positiva» e «pragmatica» di alcuni personaggi, come, ad esempio, l’ecclesiastico invitato alla mensa dei Duchi (II, cap. xxxi). E infine, alla lunga, non si può dimenticare che «sotto le spoglie chimeriche dell’eroe, don Chisciotte nutre un destino di sconfitta e di smentita…» (Battaglia).

Dove sta allora l’autore? Quale il suo punto di vista? Sebbene ciò possa sembrare ovvio, l’autore, l’essere narrante, sta già lì, alla prima riga del racconto, cioè nel primo verbo (tempo presente, prima persona singolare) che s’incontra: «En un lugar de la Mancha, de cuyo nombre no quiero acordarme…»3 (È significativo, peraltro, che sia subito un verbo in forma negativa). Ma la questione, nel corso del libro, si complica sempre più. Con un procedimento che avrà numerose imitazioni, Cervantes si nasconde dietro un autore fittizio, «che dovrà narrare questa storia vera» e che poi sarà identificato nello «storico arabo» Cide Hamete Benengeli, il quale avrebbe lasciato il suo scartafaccio in un bazar, e lo scartafaccio, a sua volta, sarebbe stato tradotto in spagnolo da un «morisco», un moro ispanizzato. Il gioco di specchi continua ancora, e il punto di vista di chi scrive finisce per confondersi con quello di chi legge (chiamato a complicità in molte occasioni), dato che la storia si viene dipanando al presente e sempre al suo cospetto – quindi, non ha nulla dietro di sé – e dato che gli stessi personaggi, nella seconda parte, parlano della prima parte e si riconoscono in essa.

Come risulta da questi sintetici accenni – e da altri elementi che si potrebbero addurre, quale il sottile filo che lega pazzia e saggezza, e molte altre tracce d’ironia e di polisenso – il problema del punto di vista si risolve in una pluralità di prospettive, anzi in una netta reversibilità di prospettive. Pluralità e reversibilità assicurate per l’appunto «da ambiti immaginativi diversi e in principio inconciliabili» (Ayala).

Ma un’altra importante fonte di doviziosa ambiguità – ove il punto di vista si frange in minutissimi frammenti – si può scoprire nell’ordito linguistico del romanzo. Dentro una narrazione tanto piana e pausata quanto arguta e pastosa, che la lingua italiana ha conosciuto solo in Boccaccio e quella francese in Rabelais,4 Cervantes ha insinuato una varietà grande di ambivalenze e polivalenze lessicali e un sottilissimo scambio tra significati e significanti, nonché una ironica deviazione «dialogica» dall’uso linguistico più consunto, sino a provocare qua e là inconsueti scarti e libere e persino «arbitrarie» associazioni. (Parrà curioso l’accostamento, ma io trovo nello smodato gusto narrativo di Buñuel,5 in certi inserimenti di racconto nel racconto, e in certi suoi bizzarri salti di logica fabulativa, una eco non casuale dell’impasto narrativo – e linguistico – di Cervantes.) Sebbene già siano stati scritti alcuni dotti studi sul linguaggio di Cervantes, l’esplorazione di questo aspetto dell’arte cervantina ancora attende una analisi in qualche modo adeguata e soddisfacente. Sono queste le qualità fondamentali che hanno dato a Miguel de Cervantes la possibilità e la gloria di scoprire la «quarta dimensione» della scrittura narrativa e quindi d’inaugurare, col Don Chisciotte, la lunga e frastagliata èra del romanzo moderno.


Dario Puccini, Introduzione, in Miguel De Cervantes Saavedra, Don Chisciotte della Mancia, trad. di Letizia Falzone, Garzanti, Milano 2014

Comprendere il pensiero critico

1 Dove si nasconde l’autore del Don Chisciotte secondo Puccini? Il lettore entra a far parte di questo gioco di specchi?


2 Come si risolve il problema del punto di vista nel Don Chisciotte?


3 Quali sono gli elementi che scompaginano la narrazione piana e pausata dell’opera, portandola a inaugurare l’era del romanzo moderno?

Vola alta parola - volume 3
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Il Seicento e il Settecento