T5 - Lo scopo del libro

T5

Lo scopo del libro

Decameron, I, Proemio

Il Decameron è un’opera dall’organizzazione estremamente complessa, in cui si intreccia una straordinaria pluralità di voci e di forme di racconto. L’architettura del libro prevede un Proemio nel quale l’autore espone le proprie intenzioni, preoccupato da subito di dare uniformità concettuale e ideologica a un libro che raccoglie cento novelle e che quindi, a prima vista, potrebbe sembrare frammentario. Parlando in prima persona, Boccaccio racconta la propria esperienza e da questa trae spunto per spiegare l’obiettivo della sua opera: contribuire ad alleviare le sofferenze di chi è prigioniero della passione amorosa.

COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE
GALEOTTO,1 NEL QUALE SI CONTENGONO CENTO NOVELLE IN DIECE2
DETTE DA SETTE DONNE E DA TRE GIOVANI UOMINI.

Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea

5       bene,3 a coloro è massimamente richesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere4

e hannol trovato in alcuni; fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu
caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che,5 dalla mia prima
giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e
nobile amore6 forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, 

10    si richiedesse,7 quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia
pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato,8 nondimeno mi fu egli di
grandissima fatica a sofferire,9 certo non per crudeltà della donna amata, ma per
soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito:10 il quale, per
ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava contento stare,11 più di noia che 

15    bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea.12 Nella qual noia tanto rifrigerio13
già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni,
che io porto fermissima opinione per quelle essere avenuto che io non sia
morto. Ma sì come a Colui14 piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge
incommutabile15 a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn’altro 

20    fervente16 e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente,
o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per
se medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa,17 che sol di sé nella mente
m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non
si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando;18 per che, dove faticoso esser solea, 

25    ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.19

Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benifici
già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata
erano gravi le mie fatiche;20 né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E
per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da 

30    commendare21 e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso
proposto22 di volere, in quel poco che per me23 si può, in cambio di ciò che io ricevetti,
ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono,24 alli quali
per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli
almeno a’ quali fa luogo,25 alcuno alleggiamento prestare.26 E quantunque il mio 

35    sostentamento,27 o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai
poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce
maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi fia caro avuto.28

E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne
che agli uomini convenirsi donare?29 Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, 

40    tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian
che le palesi30 coloro il31 sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette32 da’ voleri,
da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il
più del tempo nel piccolo circuito33 delle loro camere racchiuse dimorano e quasi
oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora,34 seco rivolgendo 

45    diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli35
alcuna malinconia, mossa da focoso disio,36 sopraviene nelle lor menti, in quelle
conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa:37
senza che38 elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere;39 il che degli
innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, 

50    se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare
o da passar40 quello, per ciò che41 a loro, volendo essi, non manca l’andare a
torno,42 udire e veder molte cose, uccellare,43 cacciare, pescare, cavalcare, giucare44
o mercatare:45 de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo
a sé e dal noioso46 pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, 

55    appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la
noia minore.

Adunque, acciò che in parte per me47 s’amendi il peccato della fortuna,48 la
quale dove meno era di forza,49 sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi
più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che 

60    all’altre è assai50 l’ago e ’l fuso e l’arcolaio, intendo51 di raccontare cento novelle, o
favole o parabole o istorie che dire le vogliamo,52 raccontate in diece giorni da una
onesta brigata53 di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata
mortalità fatta,54 e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto.
Nelle quali novelle piacevoli e aspri55 casi d’amore e altri fortunati56 avvenimenti 

65    si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già
dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli57 cose in
quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere
quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare:58 le quali cose senza
passamento di noia non credo che possano intervenire.59 Il che se avviene, che 

70    voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi
legami m’ha conceduto il potere attendere60 a’ lor piaceri.

 >> pagina 579 
Riscrittura in italiano moderno di Aldo Busi

Comincia il libro. 

Nome: Decamerone. 

Cognome: Principe Galeotto. 

Qui ci sono cento storie in dieci giornate dette da sette ragazze e da tre giovanotti.


Umana cosa è l’avere compassione degli afflitti, e se ciò vale per ciascuno di noi, figuriamoci per quelli che, bisognosi di conforto, l’hanno trovato: vorrà dire che a loro volta si prodigheranno senza risparmiarsi quando gli verrà richiesto; e se mai c’è stato uno che avendone bisogno l’ha poi ricevuto, quello sono proprio io. Perché dalla mia adolescenza a ora sono stato in balìa di un amore tale che, se lo narrassi, apparirebbe forse ben più nobile di quanto la mia infima persona non lascerebbe pensare. Sebbene chi ne venne a conoscenza mi lodasse per la mia forza d’animo e accrescesse la sua stima per me, tuttavia tollerarlo fu una fatica improba. Intendiamoci, mica per crudeltà della donna che amavo, ma per il troppo fuoco appiccato nella mente da una voglia scatenata che, non contentandosi mai di stare al di qua dei limiti imposti dalle convenienze, mi faceva fare indigestione di dolore. In quello stato di abbattimento esaltato, qualche amico mi procurò non poco sollievo con i suoi discorsi caritatevoli per sdrammatizzare e consolarmi, tanto che sono fermamente convinto di non essere morto proprio grazie a una classica pacca sulla spalla. Ma siccome Egli, essendo infinito, ha ritenuto opportuno sottoporre le cose terrene alla legge immutabile che decreta una fine per tutto, anche il mio amore, intrepido quanto altri mai, che né forza di volontà né buon senso – né l’evidente vergogna, visto il pericolo a cui avrebbe potuto espormi – aveva potuto rompere o piegare, questo mio immenso amore è venuto meno, da solo, per mero susseguirsi dei giorni e delle notti. Però, al presente, mi ha lasciato quel piacere che di solito è pronto a offrire a coloro che non s’imbarcano nelle acque più cupe senza tenere un occhio al timone e, mentre prima era un vero tormento, portatosi via ogni affanno, è rimasto in me con la sua aura più carezzevole. Ma anche se la pena è finita, non per questo ho perso memoria dei benefici ricevuti da coloro che per benevolenza hanno fatto propria la mia soma, memoria che solo la morte potrà cancellare.

Sono convinto che, fra le altre virtù, la gratitudine meriti un encomio particolare e il suo opposto un biasimo non inferiore e, per non fare brutta figura, adesso che mi sono liberato intendo ricambiare, per quel po’ che posso, quanto ho ricevuto. E se non proprio a sollievo di quanti mi diedero una mano – i quali, vuoi per puro caso, vuoi perché hanno la testa sulle spalle, vuoi perché per fortuna non ne hanno bisogno – almeno a sollievo di quelli che la testa non sanno dove sbatterla. E per quanto il mio sostegno, o conforto che dir si voglia, certamente sia ben poca cosa per i veri bisognosi, mi sembra tuttavia che esso debba accorrere soprattutto là dove se ne ha più bisogno, anche perché, vada come vada, un giorno gli sforzi di una mano tesa saranno un bel ricordo garantito. E chi oserà negare che convenga fare questo dono più alle lettrici, leggiadre, che ai maschi tout court? Le lettrici, dentro i petti, delicati, fra timori e rossori, reprimono le fiamme che l’amore dispiega per erompere e trascinare via con sé – lo sapete ben voi che lo avete provato e che lo state provando, no? E se ciò non bastasse, le donne, subordinate ai voleri, ai piaceri, agli ordini di padri, madri, fratelli e mariti, devono far passare il tempo rinchiuse nell’angusta cella dei loro tinelli, e stando sedute con le mani in mano, volendo e non volendo, richiamano fra sé e sé i più disparati pensieri, certo non sempre allegri. E se a forza di rimuginare sopravviene quella certa malinconia provocata da un desiderio incontenibile, meglio che se ne resti chiusa dov’è a costo dell’avvilimento che comporta sino a che... non verrà rimossa da una nuova tela di Penelope della mente. Le donne, senza una qualche tela così, sarebbero molto meno equipaggiate dei maschi a far fronte alle calamità del cuore, come tutti possiamo facilmente constatare. I maschi, se sono afflitti da pensieri malinconici o tormentosi, hanno tanti di quei modi in più per buttarseli dietro le spalle, dato che possono sentirne e vederne a piacere di tutti i colori, andare a zonzo, a uccelli, a cinghiali, a pesci e a cavallo, giocare d’azzardo e trafficare, hobby grazie ai quali chiunque può, in parte o del tutto, ritrovare la trebisonda e distrarsi da ogni chiodo fisso almeno per un po’ – dopo di che, di riffe o di raffe, l’uomo ci metterà una pietra sopra o il chiodo finirà per spuntarsi in una delle tante noie della vita e amen. Perciò, affinché da parte mia almeno parzialmente si faccia ammenda all’ingiustizia della sorte che sottrae le sue stampelle proprio là dove viene meno la forza – come possiamo ben vedere nelle signore, così vulnerabili –, io intendo raccontare, a sostegno e rifugio di quelle che amano a vuoto (e non tanto di quelle tutte ago, filo e tamburello), cento storie o favole o parabole che dir si voglia, raccontate in dieci giorni da una scelta brigata di sette ragazze e di tre giovanotti costituitasi durante l’appena passata epidemia di peste. In questi racconti ci imbatteremo in casi d’amore un po’ piacevoli un po’ no e in numerosi e burrascosi fatti di cronaca d’attualità e non, e le signore che li leggeranno ci piglieranno sia la pazza gioia per le cose dell’altro mondo che succedono, sia l’utilità di un saggio consiglio, e sapranno distinguere ciò che va rifuggito da ciò che va perseguito, illuminazioni che non possono abbagliarci, sia detto per inciso, se prima non si sconfigge quella pena. Se ciò avverrà, e voglia Iddio che sia così, c’è da dire grazie solo all’Amore, donne, che liberandomi dalle sue catene m’ha concesso di profittare dei piaceri che invece riesce a darci.

 >> pagina 580 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

La rubrica con la quale si apre il Decameron anticipa da subito, e in modo allusivo, la natura, il carattere e la struttura dell’opera: l’incipit, infatti, le attribuisce un titolo e un sottotitolo che denunciano il rapporto intertestuale con un sistema letterario noto e consolidato. Il nome Decameron, coniato sul modello greco, riprende quello di un famoso trattato del IV secolo, l’Hexaemeron di sant’Ambrogio: ai sei giorni della creazione del mondo che sono l’oggetto di questo libro corrisponderanno i dieci giorni nei quali dieci giovani ri-creeranno, grazie al semplice piacere del racconto, il mondo corrotto dalla peste.

Tale richiamo sacro viene però subito stemperato dal legame trasparente che il sottotitolo intreccia con il quinto canto dell’Inferno dantesco, quello in cui troviamo la vicenda amorosa di Paolo e Francesca, favorita dal libro “Galeotto” (così chiamato per metonimia dal nome del personaggio della Tavola Rotonda che, nel romanzo cortese, incoraggia l’amore di Lancillotto e Ginevra). Quest’ambito mondano evoca, in apertura, il mondo della cavalleria e le suggestioni legate al sentimento e alla passione: quello di Boccaccio sarà, appunto, il libro “galeotto”, da leggere con diletto come un complice segreto o una sorta di sorridente intermediario dell’amore.

 >> pagina 581 

Alle indicazioni liminari di titolo e sottotitolo si lega il contenuto del Proemio vero e proprio, nel quale l’autore identifica il proprio pubblico nelle oziose donne innamorate e afferma la finalità consolatoria ed edonistica dell’opera. Si tratta quasi di un obbligo morale (Umana cosa è l’avere compassione degli afflitti, r. 4), specie per chi come lui ha ricevuto in passato solidarietà nelle pene vissute a causa della passione amorosa e sente quindi il dovere di restituirla con parole e gesti di conforto.

Destinatarie della sua compassione saranno inevitabilmente soprattutto le donne, dipinte come vittime privilegiate dell’amore. Mentre gli uomini hanno maggiori possibilità per allontanare la malinconia o gravezza di pensieri (r. 50), esse infatti sono condannate a soffrire maggiormente dal pudore, dalle convenzioni sociali e dalla loro esistenza più riservata. Per questa ragione, l’autore si prefissa l’obiettivo di portare giovamento alla loro condizione, aiutandole a svagarsi e a liberarsi dalla noia e dalla ripetitività di una vita casalinga, trascorsa il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse (rr. 42-43). Le cento novelle che comporranno il libro avranno proprio il compito di rimediare al peccato della fortuna (r. 57), che sembra accanirsi sulle creature più vulnerabili psicologicamente. Esse dovranno consolare e insegnare, arrecando al tempo stesso diletto (r. 63) ed utile consiglio (r. 67).

Questa duplice funzione di intrattenimento e ammaestramento è possibile grazie alla pluralità di soluzioni con le quali si articola il racconto, che può presentarsi con argomenti diversi, ma anche con differenti funzioni e strutture. Non a caso, accanto alla dichiarazione di intenti, Boccaccio propone in queste pagine proemiali una meditata riflessione sulla natura della narrazione e sulle sue specifiche denominazioni.

Egli distingue infatti tra favole, parabole e istorie (r. 61), ossia, rispettivamente, tra creazioni fittizie e fantasiose, narrazioni dall’evidente contenuto morale o allegorico e novelle basate su eventi effettivamente accaduti, collocati entro uno sfondo storico realistico. In questa codificazione teoretica si coglie la molteplicità delle tradizioni con le quali il Decameron fa i conti: gli exempla della predicazione cristiana, le narrazioni brevi dei trovatori provenzali (si pensi alle vidas e alle razos), i fabliaux francesi dal contenuto spesso e volentieri licenzioso, la varia aneddotica medievale ecc. Fonti e materiali sterminati che Boccaccio, grazie a una complessa commistione di modelli, rielabora e trasforma per descrivere – nel suo libro infinito – l’infinita realtà dell’esistenza umana.

Le scelte stilistiche

Basta leggere i primi periodi del Proemio per capire che rivolgersi a un pubblico di non specialisti (per quanto socialmente e culturalmente elevato) non significa per Boccaccio adottare soluzioni formali popolaresche. Come prevedevano le regole della retorica, l’apertura è solenne, si sviluppa in una forma sentenziosa e proverbiale, a mo’ di esergo (Umana cosa è aver compassione degli afflitti, r. 4) e, benché non presenti la classica invocazione alla divinità per ricevere aiuto e ispirazione, come invece accadeva nei poemi greci e romani, l’autore non evita di chiamare in causa Dio e la sua infinità (r. 70) per spiegare la caducità di ogni passione terrena (compresa la propria).

D’altro canto, anche da un punto di vista sintattico il testo si presenta da subito con una struttura particolarmente elaborata: Boccaccio vuole argomentare le finalità del proprio lavoro e per questo utilizza un periodare ipotattico di imitazione latina, con amplissime volute e con grande abbondanza di subordinate (come si vede nel primo periodo del brano, in cui ricorrono concessive, relative, ipotetiche).

 >> pagina 582 

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Quali sono stati gli effetti dell’amore sperimentati dall’autore nella sua giovinezza?


2 Perché Boccaccio sceglie di rivolgersi alle donne?


3 Che cosa permette agli uomini di soffrire meno per le conseguenze del sentimento amoroso?

Analizzare

4 Fai l’analisi del periodo delle rr. 4-7 (da Umana cosa a uno di quegli).


5 Per descrivere le insidie dell’amore, Boccaccio usa una metafora marinaresca assai frequente nella letteratura classica. Individuala e spiegala.


6 Anche un autore incline a elogiare la natura delle donne come Boccaccio non sa esimersi dal sottolineare la loro presunta natura volubile. In quale punto del testo?

Interpretare

7 Boccaccio confessa di aver goduto del conforto quando ne aveva bisogno e ora intende ricambiare il favore. Si delinea così il significato autentico della parola compassione, che non a caso l’autore usa alla riga 4. Cerca l’etimologia del termine e spiega il significato che esso acquisisce in questo brano.


8 La fortuna è uno dei concetti-chiave del Decameron. In questo brano che cosa intende Boccaccio per peccato della fortuna (r. 57)?

Produrre

9 Scrivere per argomentare. Nell’analisi è stata evidenziata l’allusione al celebre passo dantesco di Paolo e Francesca, personaggi che troviamo nell’Inferno in quanto rappresentanti del peccato d’amore. Ti sembra che questo omaggio al sommo poeta presupponga anche la stessa concezione dell’amore? Spiega il tuo punto di vista in un testo di circa 15 righe.


10 Scrivere per argomentare. Queste pagine documentano una concezione dell’amore diversa da quella tipica della sensibilità cortese e stilnovista. Ragiona su questo aspetto in un testo argomentativo di circa 20 righe.


11 Scrivere per relazionare. La lettura del Proemio autorizza anche qualche riflessione sulla condizione femminile del Trecento. Sulla base di quanto afferma Boccaccio, scrivi una breve relazione sull’argomento.

Vola alta parola - volume 1
Vola alta parola - volume 1
Dalle origini al Trecento