TEMI nel TEMPO - Il racconto della peste

TEMI nel TEMPO

Il racconto della peste

La descrizione della peste da parte degli scrittori configura un autentico topos letterario, cioè un motivo ricorrente in diverse opere dall’antichità a oggi.

La narrazione degli antichi

Sul racconto di una pestilenza si apre un testo fondativo della tradizione occidentale come l’Iliade (ca 750 a.C.). All’inizio del primo libro del poema, Omero narra gli effetti devastanti del terribile morbo, rappresentando l’azione di Apollo, che scaglia le frecce della malattia per vendicare l’oltraggio subito dal suo sacerdote Crise da parte dell’arrogante Agamennone, capo della spedizione greca: «I muli colpiva in principio e i cani veloci, / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte» (I, vv. 50-52; trad. di Rosa Calzecchi Onesti).

La descrizione omerica è succinta, come sarà anche quella del tragediografo greco Sofocle (V secolo a.C.) nell’Edipo re: «La dea della febbre, la peste maligna, è piombata sulla città e la tormenta. Si svuotano le case dei Tebani e il nero Ade si fa ricco di pianti e singhiozzi» (trad. di Franco Ferrari). Anche in questo caso, all’origine dell’epidemia c’è un sacrilegio, quello di Edipo, che, senza saperlo, ha ucciso suo padre e sposato sua madre. Emerge qui la concezione classica della malattia come punizione inviata dagli dèi agli uomini.

Si limita invece a un racconto dei fatti lo storico greco Tucidide (V secolo a.C.), che nel secondo libro della sua opera La guerra del Peloponneso (cronaca del conflitto tra Atene e Sparta che va dal 431 al 404 a.C.) racconta dell’epidemia che si diffuse ad Atene all’inizio del secondo anno di guerra, con una descrizione ampia e articolata destinata a diventare, nei secoli successivi, modello di riferimento per gli altri scrittori (compreso Boccaccio, che però non aveva letto il testo originale, ma probabilmente un sunto in latino in qualche epitome medievale): «I medici erano disarmati di fronte a questa malattia a loro sconosciuta, che si trovavano a curare per la prima volta. Ed erano essi, i medici, i più numerosi a morire, in quanto erano maggiormente a contatto con i malati. […] Non si trovò nessun farmaco di effetto sicuro: quello stesso che in un caso si rivelava efficace, in un altro era nocivo. […] Giacevano alla rinfusa morti e moribondi. Uomini semivivi si trascinavano per le strade e ovunque fossero fontane, divorati dalla sete. […]» (trad. di Piero Sgroi).

La stessa peste di Atene rappresentata da Tucidide sarà ripresa dal poeta latino Lucrezio (I secolo a.C.) nel finale del suo poema De rerum natura (La natura delle cose). Si tratta di un’opera filosofica in cui l’autore vuole trasmettere gli insegnamenti del filosofo greco Epicuro (IV-III secolo a.C.), fondati su una visione materialistica della realtà che escludeva la presenza della volontà divina nelle vicende degli uomini. Obiettivo di Lucrezio è mostrare che la peste non è opera di una divinità punitrice, bensì effetto di cause naturali: la scienza così, spiegando i fenomeni, può liberare gli esseri umani dalle paure derivanti da convinzioni infondate.

A Lucrezio segue Virgilio, che nella parte finale del terzo libro delle Georgiche descrive la peste che aveva colpito gli animali nel Norico (una regione corrispondente alle Alpi Giulie). È una triste raffigurazione di morte, da cui l’autore muove per chiedersi il perché di tanta sofferenza innocente, non provocata da eventuali colpe degli uomini: «A niente giova il lavoro ben fatto? Niente / fu rivoltare le zolle dure col vòmere?» (trad. di Ezio Cetrangolo).

La peste in epoca medievale e moderna

Passando per Paolo Diacono (VIII secolo d.C.), autore di una Historia Langobardorum (Storia dei Longobardi), che pure narra un’epidemia di peste, si giunge a Boccaccio che descrive gli effetti della “peste nera” del 1348-1350. E dall’autore del Decameron si arriva, nel Settecento, al narratore inglese Daniel Defoe (1660-1731), che nel suo romanzo Moll Flanders (1722) si sofferma sulla celebre peste di Londra del 1665, che causò circa centomila morti.

Nell’Ottocento incontriamo Alessandro Manzoni, che nei Promessi sposi colloca la peste di Milano (1629-1630) quale momento risolutivo per l’evoluzione della trama (capp. 31-33). Le false credenze sull’epidemia (l’idea, per esempio, che dipendesse da una congiunzione astrale negativa o, peggio ancora, da untori che la propagavano tramite misteriosi unguenti e polveri contagiose) e l’assurdità dei rimedi assunti diventano per l’autore l’emblema di un secolo, il Seicento, sciocco e superstizioso. Un secolo – scrive Manzoni – dove «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune» (cap. 32). Manzoni torna poi sul tema dei processi agli untori con un’opera storiografica (pubblicata in appendice all’edizione del romanzo del 1840-1842, la cosiddetta “quarantana”), intitolata Storia della colonna infame, in cui mostra come si trattò di una vera e propria isteria collettiva, una sorta di “caccia alle streghe” dettata da colpevole ignoranza.

La peste come malattia del mondo

A partire dalla cronaca di un’immaginaria epidemia di peste a Orano (in Algeria), lo scrittore francese Albert Camus (1913-1960), nel romanzo La peste (1947) elenca – proprio come aveva fatto Boccaccio nell’Introduzione alla Prima giornata del Decameron – le diverse reazioni degli uomini a questa situazione imprevista ed eccezionale. Ma non tutto è perduto: a ciascuno rimane la possibilità di lottare contro questo dolore immotivato e assurdo, mettendo in campo le risorse di un senso di solidarietà che rende la vita degna di essere vissuta. Se da un lato la peste immaginata da Camus rimanda simbolicamente all’occupazione nazista della Francia, dall’altro essa è metafora di tutti i possibili mali che gravano sulla condizione umana. Da qui il monito del dottor Rieux (voce narrante del romanzo) dopo che l’epidemia è cessata: «Questa cronaca non poteva essere la cronaca di una vittoria definitiva. […] Il bacillo della peste non muore né scompare mai».

Vola alta parola - volume 1
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Dalle origini al Trecento