L’opera

Divina Commedia

Siamo certi che in Italia non esista persona, per quanto incolta e lontana dall’universo dei libri, che ignori il nome di Dante e il titolo della sua opera maggiore, la Divina Commedia. Il poema di Dante è il primo fondamento non solo della civiltà letteraria italiana, ma anche della nostra identità nazionale.

Tuttavia la fama di questo testo si estende a tutto il mondo. Lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), già molto anziano e quasi cieco, lamentava un grande rimpianto: quello di essere riuscito a leggere “solo” alcune volte nella sua vita la Commedia di Dante, a causa delle difficoltà linguistiche che gli avevano impedito una lettura più veloce. È un esempio dell’imprescindibilità di quest’opera per tutta la letteratura successiva.

Un modello per la letteratura occidentale

L’ammirazione di Borges non stupisce, perché la Divina Commedia costituisce uno dei pilastri del canone europeo e occidentale, con la Bibbia, i poemi omerici, l’Eneide, il teatro di Shake­speare, il Don Chisciotte di Cervantes, il Faust di Goethe, Alla ricerca del tempo perduto di Proust.

È difficile immaginare un testo più ricco e più vario della Commedia. Non c’è moto dell’anima e dell’intelligenza umana, nel male e nel bene, e non c’è aspetto della vita che Dante non rappresenti: l’infinitamente piccolo e sfuggente e l’infinitamente grande ed eterno. Eppure, in tutta questa materia immensamente varia, si avverte l’unità dello spirito che la crea: uno spirito limpido e potente.

Inoltre, il poema di Dante costituisce una di quelle opere rare e preziose alle quali l’altezza dell’ispirazione e l’eccezionale complessità (linguistica, letteraria e strutturale) non hanno impedito di diventare oggetto di un vero e proprio culto popolare, realizzando il miracolo, per così dire, di un’arte insieme sublime e per molti aspetti difficile, ma anche conosciuta e amata da tutti.

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C’è infine un’interpretazione che forse più di ogni altra evidenzia l’importanza e l’attualità del poema dantesco per l’uomo contemporaneo. Nel 1910 il poeta statunitense Ezra Pound (1885-1972) scriveva che la Commedia è «il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o l’intelletto di Dante, può significare “Ognuno”, cioè “Umanità”, per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuori dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia»; e scrive oggi il critico Carlo Ossola: «Così dunque, in questa quotidiana coralità di Everyman [Ognuno], è da proporre al XXI secolo la Divina Commedia, bene comune non dell’Italia soltanto, ma dell’umanità intera».

Le parole della Divina Commedia

Terzina

Strofa composta da 3 versi endecasillabi, di cui il 1° rima con il 3°, mentre il 2° dà la rima al 1° e al 3° della terzina seguente; la serie si chiude con un verso che rima con il 2° dell’ultima terzina (ABA BCB … YZY Z).

Rima incatenata

Schema rimico della terzina (ABA BCB CDC…); in tal modo ogni rima torna 3 volte (eccetto quelle del 1°, 3°, terzultimo e ultimo verso di ogni canto).

Canto

In generale, ciascuna delle parti in cui è suddiviso un poema o una cantica; nel caso della Commedia ogni canto comprende un numero variabile tra i 115 e i 160 endecasillabi, sempre raggruppati in terzine, tranne l’ultimo verso di ogni canto che sta a sé.

Cantica

Insieme di canti: 34 (Inferno) o 33 (Purgatorio e Paradiso).

Una nuova opera per Beatrice

Oltre l’ambito municipale

Come abbiamo anticipato trattando della Vita nuova, secondo molti critici il più antico annuncio della Commedia da parte di Dante si trova alla fine di quell’opera, laddove l’autore afferma: «apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei» ( T17, p. 321).

È come se Dante si fosse reso conto che un’opera quale la Vita nuova, improntata ai canoni dello Stilnovo, non era in grado di collocare né la figura di Beatrice né tantomeno la concezione dell’amore all’interno di un adeguato contesto di riferimento. Egli immaginava tale nuovo contesto come ben più ampio di quello municipale in cui si poneva la Vita nuova. Di qui la volontà e il progetto di cantare la lode di Beatrice in un universo senza confini, quello dei tre regni oltremondani.

Secondo questa interpretazione, ormai ampiamente condivisa, l’Inferno e quasi tutto il Purgatorio sono una lunga pausa densa di attesa, che tende verso la visione, nel Paradiso, di una Beatrice ormai beata e assunta nella «candida rosa», la sede eterna di tutti i santi.

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Dante comincia la composizione dell’opera nei primi anni dell’esilio (forse a partire dal 1306-1307) e vi lavora per tutto il resto della vita. Avrà il tempo di portare a termine e divulgare l’Inferno (probabilmente intorno al 1312), il Purgatorio (circa nel 1318), ma non il Paradiso, che però al momento della sua morte (1321) risulterà comunque completo.

Purtroppo oggi non possediamo autografi danteschi (della Commedia come delle altre sue opere), ma soltanto manoscritti realizzati successivamente da altri: di fatto non è sopravvissuto alcun documento vergato dalla mano del poeta.

Il titolo: da Comedìa a «poema sacro»

Quanto al titolo, è da osservare che nel Medioevo si era persa la nozione di tragedia e commedia come rappresentazioni sceniche; questi termini, quindi, indicavano semplicemente componimenti narrativi, che si distinguevano tra loro per diversità di contenuto (tragedia: finale doloroso, personaggi socialmente e culturalmente elevati; commedia: finale lieto, personaggi borghesi o popolari) e per la lingua e lo stile (alti nella tragedia, bassi nella commedia).

La presenza nella Divina Commedia di toni e argomenti quotidiani, anche se accostati ad altri elevati ed elevatissimi, porta Dante a scegliere di intitolare Comedìa (dal latino comoedia) il suo poema, in opposizione alla tragedìa di Virgilio: «e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro» (Inferno, XVI, 127-128); «e così ’l canta / l’alta mia tragedìa in alcun loco» (Inferno, XX, 112-113); «Così di ponte in ponte, altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura» (Inferno, XXI, 1-2). L’aggettivo divina, usato per primo da Giovanni Boccaccio, diventerà parte integrante del titolo dopo la sua apparizione sul frontespizio dell’edizione veneziana del 1555 curata da Lodovico Dolce.

La scelta del titolo Commedia sembra però alludere anche al suo contenuto: nel suo inizio, l’Inferno, orribile e disgustoso, e nella sua conclusione il Paradiso, piacevole e pacificato. Scrive Dante, nell’epistola a Cangrande della Scala, a proposito del genere classico (greco e latino) della commedia (in contrapposizione a quello della tragedia): «La commedia inizia dalla narrazione di situazioni difficili, ma la sua materia finisce bene». Infatti – prosegue l’autore a proposito del suo poema – «se guardiamo alla materia, all’inizio essa è paurosa e fetida perché tratta dell’Inferno, ma ha una fine buona, desiderabile e gradita, perché tratta del Paradiso».

Probabilmente nel titolo Commedia è presente però anche un riferimento alla scelta del volgare, e cioè di una lingua familiare (a differenza del latino), in grado perciò di essere compresa anche da coloro che non hanno alle spalle studi approfonditi: «Per quanto riguarda il linguaggio, questo è dimesso e umile, perché si tratta della parlata volgare che usano anche le donnette» (dall’epistola a Cangrande della Scala).

Tuttavia nel corso degli anni, giunto alla terza cantica, Dante avvertirà l’inadeguatezza di quel titolo ormai diffuso, e cercherà una definizione dell’opera più adatta alle sue ambizioni; userà allora quella di «poema sacro», cioè ispirato direttamente da Dio: «’l poe­ma sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Paradiso, XXV, 1-2).

Va detto però che il motivo per cui Dante aveva chiamato il suo poema Comedìa risultò ostico ai contemporanei che, avendo in mente la teoria classica e medievale dei generi, non ne capivano la ragione.

Diversi studiosi oggi sostengono che comedìa per Dante costituisse un’indicazione di genere del poema, non il suo titolo, così come tragedìa non è il titolo dell’Eneide.

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La trama

La Divina Commedia è un poema di 14.233 endecasillabi diviso in 3 cantiche, che descrivono i tre regni ultraterreni cui sono destinate le anime degli uomini: l’Inferno ospita i dannati per tutta l’eternità; il Purgatorio è un luogo di passaggio in cui le anime degne di redenzione scontano i peccati commessi nella vita terrena, fino a raggiungere quella purificazione che le rende pronte ad ascendere al Paradiso, cui hanno invece accesso diretto le anime di coloro che sono morti in grazia di Dio. Qui si gode per sempre di una beatitudine che consiste nella contemplazione di Dio e nell’essere parte di una realtà armoniosa che si uniforma completamente alla volontà divina.

Il poeta sente di essere stato prescelto per vivere un’esperienza totalizzante, da trasmettere al mondo attraverso la scrittura; accetta un compito per il quale si considera (o, meglio, finge di considerarsi) inadeguato, confortato dalla presenza di due guide che lo condurranno e soprattutto lo sosterranno.

Dante, uscito dalla «selva oscura» del peccato, viene guidato nell’Inferno e in gran parte del Purgatorio dal poeta latino Virgilio, e nel Paradiso da Beatrice, la donna del suo amore giovanile. Il viaggio dura circa una settimana e ha inizio – così ci narra l’autore – nella notte del Venerdì Santo del 1300. Nel regno dei dannati, situato sotto Gerusalemme e immaginato in forma di imbuto rovesciato, egli fa esperienza del male: incontra le anime dei peccatori e conosce la natura dei diversi peccati, dai meno gravi ai più gravi, distribuiti in nove cerchi.

Risalendo attraverso il corpo mostruoso di Lucifero dal centro della Terra agli antipodi di Gerusalemme, Dante esplora poi il Purgatorio, concepito come un monte circondato dalle acque e sormontato dal Paradiso terrestre. Lì incontra gli spiriti ormai salvi, obbligati a purificarsi dalle loro tendenze peccaminose, per essere, dopo un tempo adeguato, finalmente accolti tra i beati.

Contrariamente ai dannati, per lo più astiosamente preoccupati di celare a Dante la propria identità, le anime del Purgatorio si fanno riconoscere volentieri, supplicando il poe­ta affinché le ricordi nel mondo alle persone care, così da ottenerne le preghiere necessarie per abbreviare i tempi della loro penitenza.

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Il solo ardore di carità spinge invece i beati, nel Paradiso, ad accoglierlo gioiosamente e a renderlo partecipe della gloria eterna. Giunto con Beatrice al centro della «candida rosa» celeste in cui sono disposte le anime dei beati, il poeta trova san Bernardo, che sostitui­sce Beatrice come guida per i tre canti conclusivi. Nell’ultimo di essi il poeta ha la visione di Dio, che lo rassicura definitivamente sulle verità di fede, irrobustendo la sua determinazione a proseguire sulla via del bene.

Le diverse interpretazioni

La lettura allegorica

Quella che abbiamo riportato è la trama letterale dell’opera, che però può, anzi deve essere intesa anche in modo allegorico. Scopo dichiarato del poema è infatti quello di riportare gli uomini sulla via della rettitudine e della verità, mediante la rappresentazione delle pene e dei premi che attendono rispettivamente i peccatori e i giusti nella vita eterna: per Dante, la sua è una vera e propria missione.

Innanzitutto è possibile interpretare il contenuto della Divina Commedia sotto l’aspetto morale. L’umanità si trova smarrita nel peccato (la «selva oscura»), da cui non è semplice uscire, poiché tre vizi sono particolarmente radicati negli uomini: la lussuria, la superbia e l’avarizia; una lonza (la lussuria), un leone (la superbia) e una lupa (l’avarizia) sono infatti i tre animali che nel primo canto vorrebbero ricacciare Dante nella «selva oscura».

L’umanità deve fare allora appello alla ragione (Virgilio) e con il suo aiuto condurre un accurato esame di coscienza (l’attraversamento dell’Inferno) e quindi pentirsi, espiando le proprie tendenze peccaminose (il passaggio attraverso il Purgatorio).

Tuttavia l’umanità, pur essendosi ricondotta alla bontà nelle quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza), non potrà essere ancora salva se, accanto alla ragione, non sopravverrà la grazia divina (Beatrice), la sola capace di innalzare l’animo e la mente sino a Dio attraverso il pieno possesso delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità).

Risulta poi possibile una lettura dell’opera anche sul piano politico. L’umanità è smarrita nel disordine civile e non riesce a uscirne a causa di tre particolari mali: l’eccessiva divisione in fazioni e particolarismi (la lonza, che nell’immagine dantesca ha il manto maculato); la forza della casa di Francia (simboleggiata dal leone), che impedisce, per la sua esistenza stessa, il ritorno di tutte le nazioni sotto un comune Impero; l’ingordigia della Chiesa (la lupa), che gareggia con l’imperatore per il potere temporale.

Per salvarsi, l’umanità ha dunque bisogno di due guide: quella pratica (come la guida di Virgilio) di un imperatore che la conduca al Paradiso terrestre (cioè alla felicità in questo mondo) e quella spirituale (come la guida di Beatrice) del papa, che, senza alcuna interferenza con il potere imperiale, la conduca a Dio (cioè alla felicità ultraterrena).

La lettura figurale

Queste ultime due proposte di lettura sono, come abbiamo detto, di tipo allegorico. Tuttavia il genere di “sovrasenso” (cioè il significato secondo, dopo il primo, che è quello letterale) che dobbiamo applicare all’interpretazione della Divina Commedia è, più propriamente, quello figurale.

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Si tratta di un aspetto studiato da molti critici, ma in particolare dal filologo tedesco Erich Auerbach (1892-1957), secondo il quale «“figura” è qualche cosa di reale, di storico, che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa reale e storica».

Potremmo intendere la figura come un tipo particolare di allegoria: l’allegoria in senso stretto è qualcosa di più astratto, la figura di più concreto; la figura infatti presuppone la verità storica dell’elemento (fatto o persona) che viene utilizzato per rimandare a qualcos’altro, mentre nell’allegoria il primo elemento è impiegato solo al fine di richiamare il secondo.

Facciamo qualche esempio. Virgilio – abbiamo detto – è allegoria della ragione umana. Ma per Dante egli non cessa di essere anche il poeta latino del I secolo a.C. autore dell’Eneide. Dunque nella Commedia Virgilio simboleggia la ragione, senza però perdere la propria specificità di personaggio storico.

Lo stesso riguarda altri personaggi come Beatrice (la Grazia divina o la fede) o Catone l’Uticense. Quest’ultimo, posto come guardiano del Purgatorio, è un protagonista della storia romana: difensore della causa repubblicana, preferì darsi la morte piuttosto che vivere sotto il dominio di Cesare. Pur mantenendo la propria identità storica, nella Divina Commedia Catone assurge a simbolo della libertà interiore.

Questo è il procedimento che Dante sviluppa in tutta la Commedia. Lo vediamo, in particolare, a proposito degli eventi storici. Nella visione dantesca della Storia ogni accadimento può essere figura di un accadimento successivo: quest’ultimo sarà, perciò, adempimento del primo. Così troviamo, nel suo poema, un nesso molto stretto – per usare ancora le parole di Auerbach – tra «fatti storici» e «realtà contemplata nella visione».

L’epistola a Cangrande della Scala: come leggere la Commedia

In realtà, l’interpretazione figurale di Auerbach non fa che sviluppare quanto lo stesso Dante afferma in un testo di capitale importanza per comprendere come leggere il suo poema.

Si tratta di una lettera (la numero 13 delle Epistole) che abbiamo già occasionalmente citato. In passato si è a lungo discusso in merito alla sua autenticità, che però oggi appare provata. In essa, redatta tra il 1312 e il 1320 (probabilmente intorno al 1316) e destinata a Cangrande della Scala, il signore di Verona protettore del poeta, Dante annuncia l’intenzione di dedicare a quest’ultimo il Paradiso, di cui ha da poco iniziato la stesura, e offre alcune chiavi di lettura del poema.

Innanzitutto Dante autorizza, o meglio promuove un’interpretazione della Commedia che vada al di là di quella puramente letterale: «Il significato di quest’opera non è uno solo, anzi può essere definito polisemico, cioè contenente più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da ciò che viene significato dalla lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo, invece, allegorico o morale o anagogico».

In riferimento alla propria opera scrive: «È dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale […]. Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e i demeriti acquisiti con il libero arbitrio, ottiene premi o punizioni da parte della giustizia divina».

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Nel Convivio Dante distingueva tra l’allegoria dei poeti, nella quale il livello letterale del discorso è finto, e l’allegoria dei teologi, nella quale il livello letterale è vero. Ora, scrivendo a Cangrande, afferma che il tipo di allegoria da applicare alla lettura della sua opera è l’allegoria dei teologi.

Sostiene cioè che, nel caso del suo poema, anche il livello letterale è veritiero. Dante ci dice così che il viaggio nell’oltretomba che egli racconta nella Divina Commedia è stato un viaggio reale, un’esperienza accaduta davvero. Proprio per questo la lettura verso cui ci indirizza Dante è quella figurale e non quella semplicemente allegorica.

Un altro punto importante della lettera a Cangrande è quello inerente alla finalità dell’opera. Dante dichiara di averla scritta con un intento, per così dire, missionario: riscattare il genere umano dalla sua condizione di degenerazione e corruzione morale, per guidarlo verso la salvezza eterna.

L’architettura dell’aldilà

L’universo secondo Dante

La descrizione della struttura dell’universo sviluppata da Dante riflette le sue conoscenze astronomiche e cosmologiche, fondate sul sistema aristotelico-tolemaico e sulla tradizione araba. Secondo queste concezioni, la natura divina è condivisa in misura differente dai vari gradi dell’essere: la bontà di Dio si trasmette infatti diversamente alle varie creature, dagli angeli all’anima umana fino agli animali.

Tale disuguale diffusione è spiegata attraverso la metafora della luce, che simboleggia, con la maggiore o minore intensità, la maggiore o minore presenza divina: per questo l’Inferno viene descritto da Dante come il luogo della massima oscurità, mentre il Paradiso è visto come il luogo della massima luminosità.

L’aldilà è rappresentato dal poeta secondo un preciso schema architettonico. L’oltretomba si dispone intorno a un asse ideale che parte dal centro di Gerusalemme e, attraverso la voragine infernale che si apre sotto la città, giunge al centro della Terra. Da qui, prolungato sino all’altro emisfero, diventa l’asse di un tronco di cono, il Purgatorio, un monte che si erge dalle acque dell’emisfero australe, andando a terminare al centro di un piano, il Paradiso terrestre, collocato sulla sommità dello stesso monte del Purgatorio, che è quindi diametralmente opposto a Gerusalemme. Prolungandosi ancora, l’asse ideale sale, di cielo in cielo, sino al centro della rosa dei beati, cioè dell’Empireo.

Dalla lettura continuata della Divina Commedia il lettore trae un’impressione apparentemente contraddittoria: quella di un mondo spirituale e fisico infinitamente vario e complesso, e insieme quella di una salda, lineare e quasi elementare unità.

È facile rendersi conto di questa simultanea varietà e semplicità se si osserva il mondo fisico rappresentato nel poema. Il lettore scende nel buio ventre della Terra, risale all’aperto su una montagna alta e aperta alla luce, sola nell’oceano sconfinato, penetra infine nella densa e pur non corporea luce del Paradiso.

Nella Commedia troviamo bufere, fetide piogge, brulicare di serpenti, guizzare di fiamme parlanti, livide paludi, cimiteri, fiumi di sangue, boschi allucinanti, deserti, paesaggi polari, ma anche visioni del vasto cielo stellato, valli fiorite, leggiadre foreste, infinite feste di luci: mille aperture sui più vari orizzonti, nelle comparazioni, nelle rievocazioni dei personaggi e degli eventi.

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L’architettura dell’aldilà

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L’Inferno

La discesa nell’Inferno mette Dante nella condizione di vedere quale sia il destino dei peccatori, che egli incontra suddivisi in nove cerchi concentrici, sempre più piccoli: l’Inferno si presenta, infatti, come un cono rovesciato, formato dalla Terra stessa per evitare il contatto con Lucifero, un tempo il più caro a Dio tra gli angeli, il quale, macchiatosi del peccato di superbia, fu scaraventato nel centro del pianeta, dove rimase conficcato all’altezza della vita.

I cerchi dell’Inferno sono popolati dalle anime dei peccatori, che scontano una pena comminata sulla base della legge del ▶ contrappasso, per la quale esse subiscono un tormento che – per antitesi o per analogia – richiama il peccato compiuto.

Tuttavia le pene infernali non sono di tipo soltanto materiale, bensì anche morale: privati della grazia del pentimento, i dannati persistono nelle passioni malvagie che in vita li hanno corrotti e che, eternamente insoddisfatte, diventano a loro volta fonte di rabbia e angoscia. La gravità dei peccati aumenta a mano a mano che ci si avvicina al centro della Terra, e ci si allontana, quindi, dal cielo.

La visita dei gironi infernali colpisce nel profondo Dante, che si trova spesso nella condizione di excessus mentis (cioè del venir meno della coscienza, per esempio attraverso gli svenimenti): da una parte perché l’esperienza vissuta dal personaggio è davvero sconvolgente, dall’altra perché l’autore ha talvolta bisogno di una sorta di effetto speciale di tipo narrativo per passare da un cerchio all’altro.

Dopo una zona chiamata comunemente dai commentatori “vestibolo” o Antinferno, dove sono puniti gli ignavi (vale a dire i pusillanimi, condannati a correre incessantemente dietro a uno stendardo e a essere martoriati da vespe e mosconi), troviamo il fiume Acheronte, presso le cui sponde si raccolgono tutte le anime dannate che poi il demonio Caronte (il nocchiero infernale) trasporta su una barca da una riva all’altra.

Il primo cerchio è costituito dal Limbo, dove sono le anime dei bambini morti prima di avere ricevuto il battesimo e di coloro che, virtuosi, vissero prima della venuta di Cristo (eccetto gli antichi del “popolo eletto” che credettero nella venuta del Messia, liberati dal Limbo da Gesù dopo la sua resurrezione con la discesa agli Inferi). Una particolare categoria di abitanti del Limbo è costituita dai grandi dell’antichità (scrittori, filosofi ed eroi), ospitati in un castello sfolgorante di luce: da qui proviene Virgilio, la guida di Dante. La pena del Limbo non è di tipo materiale, ma puramente morale: il desiderio (senza speranza di realizzazione) di vedere Dio.

Dopo il Limbo ha inizio l’Inferno vero e proprio, diviso in due parti. Nella prima (cerchi 2-5), detta alto Inferno, sono puniti i peccati di incontinenza cioè l’incapacità di dominare le passioni (meno gravi); nella seconda (cerchi 6-9), detta basso Infernosono puniti i peccati di malizia, cioè di malvagità (più gravi). L’alto e il basso Inferno sono separati dalle mura della città di Dite.

Nel secondo cerchio, guardato da Minosse (che esamina e giudica le colpe di tutti i peccatori), sono condannati i lussuriosi, battuti e travolti da una tremenda bufera.

Nel terzo cerchio, sotto una lurida pioggia mista di acqua e fango, sono puniti i golosi, sorvegliati e straziati da Cerbero, mostro dalle tre teste.

Nel quarto cerchio, guardato da Plutone (il dio pagano della ricchezza, qui un demone), stanno gli avari e i prodighi, costretti a spingere con il petto enormi massi e a insultarsi continuamente a vicenda.

Il quinto cerchio è costituito dalla palude Stigia, dove gli iracondi e gli accidiosi, immersi nel fango, si straziano crudelmente tra di loro, gorgogliando parole di dolore che fanno ribollire l’acqua in superficie. Il traghettatore Flegias vigila dall’alto della sua navicella.

Nel sesto cerchio (e siamo così nel basso Inferno), dentro le mura della città di Dite sorvegliate dalle Furie, sono puniti gli eretici, posti in tombe infuocate.

Nel settimo cerchio, guardati dal Minotauro, stanno i violenti, distribuiti in tre gironi: 1) violenti contro il prossimo e le sue sostanze (tiranni, omicidi, predoni), immersi nel sangue bollente del Flegetonte e colpiti con saette dai centauri; 2) violenti contro sé stessi e le proprie sostanze (suicidi e scialacquatori), i primi trasformati nelle piante di una selva, i secondi costretti a correre attraverso di essa inseguiti da cagne fameliche; 3) violenti contro Dio (bestemmiatori), natura (sodomiti) e arte (usurai), condannati a un deserto su cui si riversa una pioggia di fuoco.

Nell’ottavo cerchio (Malebolge), diviso in dieci bolge, con a guardia il mostro Gerione, simbolo dell’inganno, sono condannate dieci specie di fraudolenti: 1) ruffiani e seduttori: sferzati da demoni; 2) adulatori: tuffati nel letame; 3) simoniaci (coloro che hanno fatto commercio delle cose sacre): conficcati a terra con la testa all’ingiù e con le piante dei piedi bruciate da fiamme; 4) indovini: con il volto girato dalla parte della schiena; 5) barattieri (coloro che si sono arricchiti illecitamente in virtù degli incarichi pubblici ricoperti): immersi nella pece bollente e uncinati da diavoli; 6) ipocriti: gravati da pesantissime cappe di piombo dorate e costretti a camminare lentissimamente; 7) ladri: continuamente trasformati in serpenti e altri esseri mostruosi; 8) consiglieri fraudolenti: avvolti da fiamme; 9) seminatori di scandali e scismi: straziati da un demonio a colpi di spada; 10) falsari: lebbrosi, rabbiosi, idropici (malati di idropisia), febbricitanti.

Nel nono e ultimo cerchio, formato da un lago (il Cocito) ghiacciato dal vento freddo prodotto dall’agitarsi delle ali di Lucifero, sono puniti i traditori, divisi in quattro zone concentriche che prendono il nome da personaggi dell’antichità tristemente famosi: 1) Caina (da Caino, assassino del fratello Abele): traditori dei parenti; 2) Antenora (da Antenore, l’eroe troiano che, secondo una leggenda medievale, avrebbe consegnato ai greci il Palladio, la statua di Atena che garantiva protezione alla città): traditori della patria; 3) Tolomea (da Tolomeo di Gerico, personaggio biblico che uccise alcuni parenti durante un banchetto; secondo altri, da Tolomeo re d’Egitto, che fece assassinare Pompeo, rifugiatosi presso di lui per sfuggire a Cesare): traditori degli ospiti; 4) Giudecca (da Giuda, il traditore di Cristo): traditori dei benefattori.

Confitto al centro è Lucifero, con tre facce; ognuna delle sue orribili bocche stritola e maciulla con i denti un traditore: Giuda (traditore di Cristo), Bruto e Cassio (traditori di Cesare, simbolo dell’autorità imperiale).

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Il Purgatorio

Dopo la visione terribile di Lucifero, Dante e Virgilio passano attraverso il centro della Terra per approdare alla base della montagna del Purgatorio, formata dall’accumulo della terra ritiratasi per evitare il contatto con Lucifero; sulla vetta, piatta, è la sede dell’Eden (o Paradiso terrestre).

L’isola è sorvegliata da Catone l’Uticense: Dante lo assume, sebbene suicida, quale simbolo della libertà interiore (perché ha preferito la morte al vivere in uno Stato privo di libertà), che rimanda alla libertà dal peccato, obiettivo perseguito dalle anime purganti. Anche nel Purgatorio le anime espiano le loro colpe sulla base della legge del contrappasso, mediante atti di penitenza opposti ai peccati commessi.

Le anime passano in tutte le cornici (disposte, specularmente all’Inferno, dal peccato più grave al meno grave), ma si soffermano solo in quelle in cui devono scontare i peccati compiuti in vita. Tutte quante gioiscono ogniqualvolta una di loro è pronta a salire in Paradiso: tale evento è segnalato da una sorta di terremoto che scuote la montagna del Purgatorio.

Il Purgatorio, unico dei tre regni, ha caratteristiche “umane”: vi scorre il tempo, vi è condivisione delle esperienze, vi sono paesaggi realistici. Qui, in almeno due occasioni, Dante partecipa in modo molto sentito alle pene scontate dalle anime purganti, camminando e pregando con loro: nella cornice dei superbi e in quella dei lussuriosi, rispettivamente la prima e l’ultima, quasi a voler sottolineare la chiara consapevolezza della propria fragilità umana.

Dopo che i due hanno visitato le sette cornici in cui è suddivisa la montagna, Virgilio deve lasciare Dante perché, non avendo ricevuto il battesimo, non può salire oltre. Sulla sommità del monte il poeta incontra finalmente Beatrice, che lo condurrà in Paradiso, non prima però che egli abbia compiuto un rito di purificazione che si svolge nel Paradiso terrestre, una tappa comune a tutte le anime pronte alla salita in Cielo.

Le sette cornici del Purgatorio, a ciascuna delle quali è preposto un angelo che rappresenta la virtù opposta al peccato punito, sono precedute da un Antipurgatorio e sovrastate dal Paradiso terrestre.

Nell’Antipurgatorio sono relegati quattro gruppi di peccatori negligenti a pentirsi, cioè riconciliatisi con Dio soltanto negli ultimi momenti della loro vita: i morti scomunicati, i pigri, i morti di morte violenta, i principi negligenti. Essi rimangono nell’Antipurgatorio tanti anni quanti hanno vissuto, tranne i morti scomunicati, che vi debbono rimanere trenta volte gli anni in cui hanno vissuto sotto scomunica.

Le sette cornici possono essere raggruppate in tre specifici gruppi relativi alle caratteristiche (origine e qualità) delle colpe che vi si espiano: peccati commessi rispettivamente per amore rivolto al male (cornici 1-3), scarso amore del bene (cornice 4), smodato amore dei beni terreni (cornici 5-7).

Nella prima cornice, tutta istoriata sulle pareti e sul pavimento con esempi di umiltà premiata e di superbia punita, espiano la loro colpa i superbi, costretti a camminare ricurvi sotto pesanti macigni. Vi si trova l’Angelo dell’umiltà.

Nella seconda cornice sono puniti gli invidiosi, addossati gli uni agli altri, ricoperti di un vile cilicio e con le palpebre cucite con filo di ferro. In alto risuonano voci misteriose di amore e di carità verso il prossimo e si ricordano esempi di invidia punita. Vi si trova l’Angelo della misericordia.

Nella terza cornice, in cui appaiono visioni di mansuetudine e di ira punita, espiano la loro colpa gli iracondi, costretti ad aggirarsi in mezzo a un fumo denso che li acceca e li affanna. Vi si trova l’Angelo della pace.

Nella quarta cornice sono gli accidiosi, cioè coloro i quali ebbero scarso amore verso le cose divine, che corrono incessantemente e ascoltano esempi di sollecitudine e di accidia punita, recitati da alcuni di loro. Vi si trova l’Angelo della sollecitudine.

Nella quinta cornice troviamo gli avari e i prodighi, che giacciono bocconi con mani e piedi legati, ascoltando esempi di liberalità e di avarizia punita, gridati da alcuni di loro. Vi si trova l’Angelo della giustizia.

Nella sesta cornice stanno i golosi, pallidi, magrissimi, tormentati da lungo digiuno. Da due alberi carichi di frutti profumati escono voci che gridano in un caso esempi di astinenza, nell’altro di intemperanza. Vi si trova l’Angelo della temperanza.

Nella settima cornice, l’ultima, in mezzo a fiamme ardenti, proclamano esempi di castità i lussuriosi. Vi si trova l’Angelo della castità.

Dalla settima cornice si passa al Paradiso terrestre, una selva verdeggiante e fiorita, luogo di ogni delizia, attraversato da due limpidi fiumi, il Lete e l’Eunoè, dove si immergono e bevono le anime, dopo aver espiato le loro colpe, prima di salire al Paradiso celeste. Il Lete cancella il ricordo del male, l’Eunoè ravviva quello del bene.

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Il Paradiso

Di tutt’altro tenore è l’esperienza vissuta da Dante in Paradiso, dove una luce progressivamente più forte lo accompagna, con la guida di Beatrice, a una finale e rapidissima visione di Dio, che l’autore confesserà di non avere gli strumenti per descrivere in modo adeguato. È proprio la potenza dello sguardo di Beatrice a consentirgli di essere trasportato di cielo in cielo sino all’Empireo: il cielo incorporeo, immobile, infinito, sede del Paradiso celeste.

Gli altri cieli, tra loro concentrici, sono invece corporei, mobili e finiti; girano su sé stessi tanto più velocemente quanto più sono vicini all’Empireo e quindi a Dio. A ciascun cielo è preposto un coro angelico.

Le anime dei beati si mostrano a Dante nei diversi cieli dove egli di volta in volta si trova (ciascuna nel cielo che rappresenta la sua specifica e peculiare virtù morale), ma hanno tutte la loro sede nell’Empireo. Esse appaiono sempre in forma di luci, tanto più splendenti quanto più si avvicinano a Dio.

L’atmosfera del Paradiso – regno eterno, nel quale, come nell’Inferno, è assente lo scorrere del tempo – è molto più rarefatta e astratta; assai meno numerose sono le anime incontrate da Dante; più complessi, sia linguisticamente sia per quanto riguarda i contenuti, i dialoghi con i beati; più lunga e meditata la sosta nei vari cieli.

La salita attraverso i cieli avviene senza che il poeta-pellegrino ne abbia alcuna percezione fisica, sebbene egli compia tutto il viaggio con il suo corpo mortale, particolare costantemente ricordato ai lettori.

Nel primo cielo, quello della Luna (mosso dalla gerarchia celeste degli angeli), appaiono, sotto forma di immagini riflesse, le anime di coloro che vennero meno involontariamente ai voti religiosi.

Nel secondo cielo, quello di Mercurio (mosso dalla gerarchia angelica degli arcangeli), si mostrano gli spiriti di coloro che operarono virtuosamente per amore di fama e di onore nel mondo.

Nel terzo cielo, quello di Venere (mosso dalla gerarchia angelica dei principati), si trovano le luci degli spiriti amanti.

Nel quarto cielo, quello del Sole (mosso dalla gerarchia angelica delle podestà), emettono il loro splendore gli spiriti sapienti (dottori in filosofia e in teologia).

Nel quinto cielo, quello di Marte (mosso dalla gerarchia angelica delle virtù), fiammeggiano gli spiriti dei guerrieri che combatterono per la fede in Cristo.

Nel sesto cielo, quello di Giove (mosso dalla gerarchia angelica delle dominazioni), sprigionano la loro luminosità gli spiriti giusti, che, per parlare a Dante, si dispongono in forma di aquila (simbolo della giustizia e dell’Impero).

Nel settimo cielo, quello di Saturno (mosso dalla gerarchia dei troni), appaiono, disposte lungo una scala altissima di cui non si vede la fine, le luci degli spiriti contemplanti.

Nell’ottavo cielo, quello delle stelle fisse (mosso dalla gerarchia angelica dei cherubini), Dante contempla il trionfo di Cristo e di Maria. Da san Pietro, san Giacomo e san Giovanni Evangelista viene esaminato sulle virtù teologali.

Nel nono cielo, detto cristallino o Primo Mobile (mosso dalla gerarchia angelica dei serafini), il poeta vede i nove cori angelici che ruotano con rapidità e splendore intorno a un punto luminosissimo che è Dio.

Nell’Empireo, dove può abbracciare con lo sguardo tutto il Paradiso «in forma […] di candida rosa», Dante ha finalmente la visione suprema di Dio e del mistero della Trinità.

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Le simmetrie e la numerologia

Quando si percorre la Divina Commedia dall’inizio alla fine, ci si rende conto della straordinaria e complessa coerenza del suo organismo compositivo.

Dante ha immaginato un mondo ultraterreno ordinato e coerente, in cui tutte le parti si rispondono a vicenda: tale armonia è lo specchio di quell’ordine cosmico di cui Dio stesso è garante.

Quest’ordine intrinseco alla creazione divina è reso dal poeta, sul piano letterario, attraverso una serie di artifici narrativi, spesso giocati sulla simmetria. Per esempio il Purgatorio rappresenta un simmetrico rovesciamento dell’Inferno: la forma (conica) e le dimensioni sono le stesse; entrambi presentano una selva (la «selva oscura» dell’inizio dell’Inferno e il Paradiso terrestre alla sommità del Purgatorio).

Anche nella struttura della Commedia esistono precisi rimandi tra l’Inferno e il Paradiso: in entrambe le cantiche i primi personaggi con cui Dante parla sono donne, Francesca nell’Inferno e Piccarda Donati nel Paradiso.

Altri legami ancora uniscono le tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso si concludono con la parola «stelle»; tutti i canti sesti sono dedicati a tematiche politiche, in base a un progressivo allargarsi della visuale (nel canto VI dell’Inferno si parla di Firenze, nel VI del Purgatorio dell’Italia e nel VI del Paradiso dell’Impero).

È importante notare anche la fitta simbologia numerologica. I numeri fondamentali del poema sono l’1 e il 3: sono i numeri di Dio, che in base alla teologia cristiana è uno e trino. Altri numeri significativi sono il 9 e il 10: 9 è 3 al quadrato; 10 è 9+1 (cioè la completezza).

Tali numeri vengono chiaramente ripresi nella struttura dell’opera: come abbiamo visto, il metro è la terzina (una strofa di 3 versi); le cantiche sono 3; i canti di ogni cantica 33, più uno di introduzione generale al poema (così 100 sono i canti in totale: 10 al quadrato).

Anche sul piano della costruzione fisico-morale dei 3 regni torna la stessa numerologia. Ogni regno è infatti suddiviso in 10 zone: nell’Inferno abbiamo l’Antinferno più 9 cerchi; nel Purgatorio le 3 zone dell’Antipurgatorio (poiché la prima delle 4 zone dell’Antipurgatorio è in realtà una spiaggia ai piedi del monte) più le 7 cornici (7, peraltro, sono i peccati capitali e le virtù, 4 cardinali e 3 teologali); nel Paradiso 9 cieli più l’Empireo.

Vola alta parola - volume 1
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Dalle origini al Trecento