5 - La questione della lingua

5 La questione della lingua

Dante merita pienamente il titolo di padre della lingua italiana: in primo luogo perché nell’intera sua opera, ma soprattutto nella Divina Commedia, ha talmente potenziato la giovane lingua italiana da lasciare in eredità agli scrittori che verranno dopo di lui uno strumento adeguato alla trattazione di qualsiasi argomento; mentre, nella forma in cui l’aveva ricevuta dai suoi predecessori, essa aveva un campo di applicazione limitato.

È stato calcolato che il novanta per cento del lessico fondamentale dell’italiano in uso oggi (costituito da circa duemila parole) è già presente nella Divina Commedia. Ma, oltre al lessico fondamentale, Dante ha “conquistato” alla lingua italiana moltissimi termini specialistici, dalla filosofia all’astronomia alla morale, gettando così le basi del lessico intellettuale. E ha talmente strutturato e irrobustito la sintassi, rendendola capace di argomentazioni anche assai complesse, da porre le premesse perché un giorno l’italiano potesse sostituire il latino come lingua di cultura.

Ma Dante è il padre della lingua italiana anche nel senso che, dopo di lui, la lingua italiana, la lingua letteraria di tutti gli italiani, poteva essere solo il fiorentino. È stato lui, con la Commedia, a comporre un’opera talmente superiore a quanto era stato scritto fino ad allora in un qualunque volgare italiano da determinare una volta per tutte il futuro della nostra lingua letteraria.

Il suo influsso sulla lingua letteraria posteriore, dal Trecento a oggi, è stato enorme, a cominciare da quello esercitato su Francesco Petrarca, cioè sull’altro padre fondatore della letteratura italiana, che un famoso saggio di Gianfranco Contini (pubblicato nel 1970) pone come iniziatore di una linea linguistico-letteraria alternativa a Dante.

L’una e l’altra linea perdureranno fino al Novecento: Dante iniziatore della linea realistica, ▶ plurilinguistica, sperimentale, espressionistica; Petrarca iniziatore della linea antirealistica, ▶ monolinguistica, retorica, classicistica.

Tuttavia Dante non sarà mai veramente imitato, perché è stato autore di un’opera assolutamente atipica, inclassificabile e per questo inimitabile (uno stuolo di imitatori riprodurrà invece infinitamente il Canzoniere di Petrarca).

Infine, Dante è stato il primo a sviluppare una riflessione teorica sulla lingua volgare con una lucidità senza pari nella cultura italiana o in altre. Lo ha fatto, oltre che nel primo libro del Convivio, nel De vulgari eloquentia, che è stato definito dallo storico della lingua Claudio Marazzini «il maggior trattato di linguistica dell’Europa medievale».

Con questa sua operazione sul volgare il poeta dà inizio alla cosiddetta “questione della lingua”, un dibattito, relativo a quale lingua utilizzare per la produzione letteraria (stante la varietà delle diverse parlate e tradizioni lessicali regionali presenti in Italia), che si protrarrà fino al XX secolo.

È indubbio che la sua proposta risulti per molti versi astratta e puramente teorica. Dante afferma la necessità, per la poesia più alta, di una lingua illustre, cioè attentamente scelta e selezionata, e afferma che tale lingua non corrisponde a quella che comunemente si parla in qualsiasi luogo d’Italia, ma è una lingua al di fuori delle contingenze pratiche, che ciascun autore conquista mediante lo studio dei migliori poeti che lo hanno preceduto.

Tuttavia, al di là del limite costituito dall’astrattezza della sua proposta, la lucidità di Dante è testimoniata dall’analisi che egli conduce dei dialetti italiani. L’autore è consapevole della mancanza, in Italia, di una sola «curia», di una corte centrale che funga da catalizzatore culturale e linguistico; perciò prende in esame i dialetti, ipotizzando che proprio gli uomini di cultura saranno i soli in grado di elaborare, tra gli idiomi italiani, il «volgare illustre» che egli sta cercando.

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T7

Caratteristiche del «volgare illustre»

De vulgari eloquentia, I, 17-18

Dopo avere svolto nei primi dieci capitoli del primo libro del trattato una storia del linguaggio umano da Adamo ai suoi tempi, Dante analizza, nei capitoli 11-15, le quattordici varietà dialettali italiane (ne considera sette sul versante orientale e altrettante su quello occidentale degli Appennini), senza ravvisare in alcuna di queste le caratteristiche del suo ideale «volgare illustre». Tale idioma viene definito, nel capitolo 16, una «pantera», cioè un essere misterioso, la cui presenza viene avvertita, ma che non si riesce a catturare. Nei due capitoli successivi, che qui presentiamo in traduzione, l’autore precisa le qualità che questo «volgare illustre» deve possedere.

        17. Dobbiamo ora esporre perché definiamo il volgare da noi trovato con l’aggiunta
di «illustre, cardinale, regale, curiale»: renderemo con ciò più chiaro ed evidente
che cos’è questo volgare.
Spieghiamo dunque anzitutto che cosa intendiamo con l’aggiunta di «illustre» 

5       e per quale ragione usiamo il termine «illustre». Con questo termine intendiamo
qualcosa che illumina e che, una volta illuminato, risplende. In questo senso definiamo
illustri certi uomini; essi infatti o ricevono luce dal potere e illuminano gli
altri con la giustizia e la carità, o hanno ricevuto una dottrina eccelsa e impartiscono
un’eccelsa dottrina: così fecero Seneca
1 e Numa Pompilio.2 Ora, il volgare di cui 

10    parliamo è reso sublime dalla dottrina e dal potere e rende sublimi i suoi cultori
con l’onore e la gloria.
Che sia reso sublime dalla dottrina, è evidente: infatti da tanti rozzi vocaboli
degli italiani, da tanti costrutti intricati, da tante forme errate, da tanti accenti campagnoli
noi vediamo scaturire un volgare così eccellente, così sciolto, così perfetto, 

15    così urbano3 come quello che ci mostrano le canzoni di Cino da Pistoia e del suo
 amico.
4
Che poi esista un potere che lo eleva, si vede chiaramente. Qual maggiore potere
infatti della possibilità di cambiare il cuore umano e di far volere chi non vuole
e disvolere chi vuole, come ha fatto e fa questo volgare?
5

20    Che esso poi renda sublimi conferendo onore, è palese. Forse che i suoi ministri
non vincono per fama qualsiasi re, marchese, conte o signore? Non c’è proprio biso
gno
di dimostrarlo. Noi stessi del resto sappiamo quanto esso renda gloriosi i suoi
amici, perché la dolcezza di questa gloria ci spinge a dimenticare il nostro esilio.
6
Pertanto dobbiamo a buon diritto dichiararlo «illustre».

25   18. Non è senza ragione che onoriamo questo volgare con l’aggiunta del secondo
aggettivo,
7 cioè chiamandolo «cardinale». Infatti, come l’intero uscio segue il
cardine e gira esso stesso muovendosi in dentro o in fuori nel senso in cui gira il
cardine, così l’intero gregge dei volgari municipali si gira e si rigira, si muove e si
ferma secondo quanto fa questo volgare che appare come il vero padrone di casa. 

30    Forse che non estirpa ogni giorno dalla selva italiana8 i cespugli spinosi? Forse
che ogni giorno non innesta germogli e trapianta pianticelle? Di che si occupano i
suoi contadini,
9 se non, come si è detto, di togliere e mettere piante? Merita quindi
davvero l’onore di un nome così alto.
La ragione per cui lo definiamo «aulico» sta nel fatto che, se noi italiani avessimo 

35    una reggia, esso sarebbe la lingua di palazzo. Infatti, se la reggia rappresenta la
casa comune di tutto il regno e l’augusta
10 governante di tutte le sue parti, è conveniente
che vi si trovi e abiti tutto ciò che risulta tale da essere comune a tutti, senza
essere proprio di nessuno: non vi è anzi dimora più degna di un abitante così nobile.
E questo sembra appunto il caso del volgare di cui parliamo. Da questo fatto 

40    deriva che tutti coloro che si trovano nelle regge si esprimono sempre in un volgare
illustre, e, come ulteriore conseguenza, che il nostro volgare illustre, mancando la
reggia, va peregrinando come straniero e trova ospitalità in umili ricoveri.
È giusto chiamarlo anche «curiale». La curialità infatti non è altro che la norma
e misura di ciò che si deve fare: e poiché la bilancia per tale misura suole esistere 

45    soltanto nelle eccellentissime «curie»,11 ne deriva che tutto ciò che nei nostri atti
è ben misurato viene chiamato curiale. Ora, questo volgare riceve la sua misura nell’eccellentissima curia degli italiani e merita pertanto il nome di curiale.
Parlare tuttavia di misure effettuate nella curia degli italiani pare uno scherzo,
perché non abbiamo curia. Ma a questo si risponde facilmente: infatti, benché in 

50    Italia non esista una curia, intesa nella sua unità (come la curia del re di Germania),
non mancano tuttavia le membra che la sostituiscono; e come le membra
della curia di Germania ricevono unità da un unico principe, così le membra della
nostra sono unite dal lume di grazia della ragione.
12 Sarebbe pertanto falso dire
che gli italiani mancano di una curia, benché siano privi di un principe: abbiamo 

55    infatti una curia, anche se fisicamente dispersa.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

«Chiamiamo con gli attributi di illustre, cardinale, aulico e curiale questo volgare che abbiamo trovato» (De vulgari eloquentia, I, 16, 6). Nel passo che abbiamo riportato Dante dà la definizione argomentata del volgare illustre (cioè che illumina i volgari inferiori), cardinale (cioè che guida i volgari di livello inferiore come il cardine guida il movimento della porta), aulico (cioè proprio del palazzo dell’imperatore) e curiale (cioè proprio dell’insieme di persone e funzioni che incarnano il governo intorno all’imperatore). Si parla, insomma, di un codice adatto all’uso letterario alto, a quelli che nella retorica classica e medievale erano considerati i generi nobili.

Le scelte stilistiche

Dante sta parlando, paradossalmente, non di qualcosa che esiste, ma di qualcosa che vorrebbe che esistesse: una lingua comune per gli italiani colti. Per delinearne le caratteristiche in modo comprensibile ai suoi lettori si serve di alcune metafore particolarmente espressive, come quella del gregge, per indicare l’insieme dei volgari municipali: un gregge che si gira e si rigira, si muove e si ferma secondo quanto fa questo volgare che appare come il vero padrone di casa (rr. 28-29).

Subito dopo l’autore introduce un’altra metafora, sempre in riferimento al coacervo di parlate locali che caratterizza l’Italia del suo tempo: una selva piena di cespugli spinosi (r. 30). Più avanti l’immagine della bilancia (r. 44) indica la norma e misura di ciò che si deve fare (rr. 43-44), cioè la curialità, altra caratteristica del suo volgare illustre.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi brevemente il contenuto del brano.


2 Se noi italiani avessimo una reggia (rr. 34-35): in che senso gli italiani ai tempi di Dante non avevano una reggia?


3 Che cosa intende l’autore con il vocabolo curialità (r. 43)?

Analizzare

4 Come l’intero uscio segue il cardine e gira esso stesso muovendosi in dentro o in fuori nel senso in cui gira il cardine, così l’intero gregge dei volgari municipali si gira e si rigira (rr. 26-28). Sulla base di quale figura retorica è costruito questo periodo?

interpretare

5 Perché Dante definisce la curia italiana fisicamente dispersa (r. 55)?

Produrre

6 Scrivere per argomentare. Ritieni che oggi gli italiani abbiano raggiunto l’obiettivo indicato da Dante, cioè il possesso di una lingua comune? Spiegalo con un testo argomentativo di circa 30 righe.

La confusione delle lingue

Secondo quanto è raccontato nella Genesi, gli uomini decisero di costruire una torre la cui cima toccasse il cielo, e così Dio, offeso da tanta arroganza, mise fine al loro progetto confondendo le lingue. Nel famoso dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, La torre di Babele (1563), nella sua architettura favolosa e gigantesca, richiama il Colosseo, che il pittore aveva visto nel corso di un viaggio a Roma: simile a una montagna, soprattutto in confronto alla città ai suoi piedi, si erge a spirale fino a oltrepassare le nuvole, e brulica di minuscoli operai, come un cantiere in continua costruzione, architettura impossibile che mai potrà essere finita.

Vola alta parola - volume 1
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Dalle origini al Trecento