3 - La visione politica

3 La visione politica

Eletto ad assemblee e magistrature, ambasciatore presso molte città e infine, nel 1300, priore, massima carica comunale: l’impegno politico vissuto in prima persona fa di Dante uno dei protagonisti della vita civile di Firenze negli ultimi anni del Duecento. In questo periodo egli difende l’autonomia della città dalle ingerenze della Chiesa, militando tra i guelfi, nella fazione moderata dei bianchi. Come abbiamo visto nella biografia, la presa del potere da parte dei neri e i conseguenti processi sommari a carico degli avversari politici lo portano lontano dalla patria, in un esilio che segnerà il resto dei suoi giorni.

Pur escluso dalla vita attiva di Firenze, senza prospettive di tornaconto personale, costretto a peregrinare di corte in corte, Dante non rinuncia a coltivare il proprio pensiero politico, che si indirizza sempre più verso il rifiuto della frammentazione causata dall’esperienza dei Comuni e l’affermazione di un modello universalistico. Tale orientamento è ben visibile al tempo dell’elezione imperiale di Arrigo VII e del viaggio da lui intrapreso nel 1310 in Italia per riaffermare i suoi diritti: in quest’occasione il poeta scrive tre Epistole in lingua latina in cui esorta i principi e i popoli d’Italia a sottomettersi e l’imperatore a punire i ribelli.

Forse – pensa – è l’occasione perché si realizzi concretamente quanto egli auspica sulla base del proprio pensiero politico: «L’ineffabile Provvidenza ha posto dunque innanzi all’uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, […] e la felicità della vita eterna» (De monarchia, III, 15, 7-13,  T4, p. 274).

Infatti all’annunciata discesa di Arrigo, volta a restaurare il decaduto potere imperiale in Italia, Dante reagisce con un rinnovato interesse per la vita politica e con nuove speranze nella rifioritura del potere dell’imperatore. La rinata attenzione di quest’ultimo nei confronti dell’Italia, «il giardino dell’Impero», è voluta, secondo Dante, direttamente da Dio, che ha dotato l’umanità di due guide: una che conduca l’uomo verso la felicità oltremondana (il papa) e un’altra (l’imperatore, appunto) che mostri la strada per raggiungere la felicità terrena.

Secondo la concezione dantesca, infatti, la restaurazione del potere imperiale farà sì che anche il Papato, impoverito spiritualmente a causa del suo potere mondano, possa ritrovare il proprio ruolo di guida spirituale, laddove invece gli ultimi pontefici (soprattutto Bonifacio VIII) avevano abusato del loro ruolo temporale. Dante auspica, dunque, un ritrovato equilibrio tra i «due soli», in grado di riportare la penisola italiana allo splendore dell’Impero romano.

Così egli matura la visione della Storia secondo cui la Chiesa, dopo avere usurpato (dopo la Donazione di Costantino e per la cupidigia dei suoi pastori) il potere che l’Impero aveva ricevuto da Dio, aveva distrutto la pace degli uomini, impedendo loro di realizzare il fine provvidenziale a cui erano chiamati.

Solo una monarchia universale avrebbe potuto ristabilire le condizioni perdute. Questa concezione non viene meno quando la morte di Arrigo VII (1313) pone fine alle speranze che l’imperatore aveva suscitato: Dante continuerà a meditarla a Verona, dove soggiornerà, dal 1313 al 1318-1320, alla corte di Cangrande della Scala.

È a questo punto che il pensiero politico di Dante prende la sua forma definitiva e assume una sistemazione organica nel De monarchia. Egli si chiede la ragione dei malanni d’Italia e la individua nelle discordie tra le diverse entità statali in cui è divisa la penisola; scorge la causa di queste nella mancanza di un potere civile unico, cioè dell’Impero, essendo gli imperatori distratti dagli eventi politici dell’area tedesca, e nella parallela usurpazione delle loro prerogative da parte della Chiesa. Dante, insomma, da guelfo moderato diventa quasi un ghibellino.

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Al centro del pensiero di Dante c’è dunque la concezione di un doppio dovere per l’uomo: verso sé stesso e gli altri uomini, ma anche verso Dio. Fine dell’uomo è la conquista della duplice felicità: perciò Dio stesso gli ha dato due guide, l’imperatore e il pontefice, che devono, agendo in modo reciprocamente indipendente, condurlo al raggiungimento del bene.

Tuttavia Dante concepisce la felicità terrena come una meta indicata da Dio stesso, cioè non come un’aspirazione egoistica o un diritto, bensì, piuttosto, come un dovere morale e religioso. È significativa in tal senso la similitudine con cui si chiude il De monarchia, in un passo in cui lo scrittore invita l’imperatore a nutrire rispetto filiale verso il pontefice: «Cesare pertanto usi verso Pietro di quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre, affinché, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa illuminare con maggior efficacia la terra, al cui governo è stato preposto solo da Colui che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali» (III, 15, 18).

In altre parole, al di là della chiara distinzione dei ruoli e degli ambiti tra papa e imperatore, il pontefice continua a rivestire, agli occhi di Dante, un primato di ordine religioso, in quanto vicario di Cristo sulla Terra.

Per approfondire La Donazione di Costantino

La Donazione di Costantino è un documento, redatto probabilmente nel periodo 750-850 a Roma o a Saint-Denis (non lontano da Parigi), che pretende di essere l’atto diplomatico con il quale l’imperatore Costantino avrebbe donato nel 314 a papa Silvestro I la giurisdizione civile su Roma, sull’Italia e sull’intero Occidente. Tale documento esprimeva inoltre la volontà che il vescovo di Roma avesse il principatum (cioè il primato) sui patriarchi orientali e, di fatto, su tutte le Chiese del mondo.

Canonisti e civilisti

Ai tempi di Dante nessuno riteneva falsa la Donazione, ma era viva una secolare polemica tra canonisti (i giuristi favorevoli al Papato) e civilisti (quelli tendenti a limitare il potere del pontefice a vantaggio delle magistrature laiche).

Questi ultimi cercavano di indebolire il valore giuridico del documento con argomenti che avevano il loro sostegno nelle leggi romane, le quali indicavano nell’imperatore l’administrator (un semplice “amministratore”, non il “proprietario”) dello Stato, quale vicario e procuratore del popolo romano. I civilisti sostenevano pertanto che la Donazione di Costantino non avesse valore giuridico, in quanto aveva provocato una diminuzione dell’Impero, violando le prescrizioni della legge imperiale. In altre parole, Costantino non avrebbe avuto il diritto di fare ciò che aveva fatto: donare quelle regioni al papa.

La posizione dantesca

Anche Dante nega ogni valore giuridico alla Donazione e utilizza gli argomenti dei civilisti, dimostrando che all’imperatore non è lecito recare danno all’Impero determinandone, con un suo atto, una diminuzione territoriale: Costantino, provocando una scissione nell’Impero, non avrebbe ottemperato al proprio dovere, che era quello di tenere l’intero genere umano soggetto alla propria volontà.

D’altra parte – osserva Dante – se l’imperatore non aveva la facoltà di alienare una parte dell’Impero, la Chiesa non aveva la capacità di ricevere tale dono, come dimostra il Vangelo (Matteo, 10, 9-10), dove Cristo fa esplicita proibizione ai suoi discepoli (che rappresentano il nucleo originario della Chiesa) di possedere beni materiali.

La dimostrazione della falsità del documento

Di fatto la presunta donazione non era mai avvenuta. Sarà l’umanista italiano Lorenzo Valla a dimostrare, nel Quattrocento, che il documento era stato scritto molto tempo dopo la morte di Costantino, avvenuta nel 337, e quindi che la Chiesa non aveva ricevuto in dono alcun territorio. Analizzando attentamente la Donazione di Costantino e applicando gli strumenti della filologia, Valla si accorge che il latino utilizzato è molto più tardo di quello che si usava nel IV secolo, smascherando così i “falsari”.

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T3

La discesa in Italia di Arrigo VII

Da Epistole, VII

Petrarca scrive questa lettera tra il 1346 e il 1356 a Giovanni dell’Incisa, maestro di teologia e Mentre si trova esule nell’Italia settentrionale, Dante assiste con rinnovata speranza al tentativo di Arrigo VII di Lussemburgo di ripristinare l’autorità imperiale in Italia. Intrapresa nell’ottobre 1310, la sua discesa non produce però gli effetti sperati: il giovane imperatore si attarda a sedare le rivolte nelle città settentrionali invece di puntare a Firenze, cuore della ribellione guelfa. È a questo punto, nell’aprile del 1311, che Dante decide di scrivergli in prima persona una lettera, di cui riportiamo la conclusione, in cui lo esorta a non temporeggiare più e a stroncare una volta per tutte la resistenza di Firenze.

         Tu resti a Milano passandovi dopo l’inverno la primavera,1 e credi di uccidere l’idra 

         pestifera con l’amputarle le teste?2 Che se ricordassi le grandi imprese del glorioso Alcide,3 capiresti di sbagliare come lui, contro il quale la bestia pestifera, rinascendo
le molte teste, per i colpi cresceva, finché quel magnanimo impetuosamente non 

5      attaccò la radice stessa della vita. Per estirpare alberi, infatti, non vale il taglio dei
rami, che anzi di nuovo ramificano vigorosamente più numerosi, fin quando siano
rimaste indenni le radici che forniscano nutrimento. Che cosa, o unico Signore del
mondo, credi di aver compiuto quando avrai piegato il collo di Cremona ribelle?4 
Forse che allora non si gonfierà inaspettata la rabbia o di Brescia o di Pavia? Anzi, 

10    quando questa rabbia anche flagellata sarà abbattuta, subito l’altra di Vercelli o di
Bergamo o altrove scoppierà di nuovo, finché non si elimini alla radice la causa di
questo tumore purulento e, strappata la radice di così grave errore, i rami pungenti
insieme col tronco inaridiscano.
O forse ignori, eccellentissimo fra i principi, e non scorgi dalla specola della 

15    somma altezza5 dove si rintani la piccola volpe di codesto fetore, noncurante dei 
cacciatori? Certo la scellerata non si abbevera alle acque precipiti del Po,6 né al
tuo Tevere,
7 ma le sue8 fauci infettano ancora la corrente dell’Arno impetuoso, e si
chiama Firenze, forse non sai?, questo crudele flagello. Questa è la vipera avventatasi
contro le viscere della madre; questa è la pecora malata che infetta col suo 

20    contagio il gregge del suo pastore; questa la scellerata ed empia Mirra che arde per
gli amplessi del padre Cinira;
9 questa è quella Amata furiosa che, rifiutate le nozze
fatali, non ebbe paura di prendersi per genero colui che i fati vietavano, anzi lo eccitò
furibonda alla guerra e infine, pagando il fio delle audacie malvagie, si impiccò.
10 
Invero cerca di dilaniare la madre sua
11 con viperina12 ferocia quando aguzza 

25    le corna della ribellione contro Roma, che la fece a immagine e somiglianza sua.
Invero, evaporando l’umore corrotto esala fumi pestilenziali
13 e i greggi vicini,14 
ignari, ne sono contagiati, quando seducendoli con false blandizie e menzogne
si associa i confinanti e associatili li dissenna. Invero arde per gli amplessi paterni
quando con malvagia procacità tenta di far violenza al consenso nei tuoi riguardi 

30    del sommo pontefice, che padre è dei padri.15 Invero resiste al comandamento di
Dio col venerare l’idolo della propria volontà, quando disprezzando il re legittimo
non arrossisce la folle di patteggiare con un re non suo
16 diritti non suoi per aver
facoltà di far male. Ma badi alla corda con cui si lega, la forsennata donna.
17 Ché
spesso, uno si consegna al reprobo senno per fare, così consegnato, le cose che 

35    non dovrebbe fare; e sebbene siano azioni ingiuste, giusti tuttavia i castighi sono
riconosciuti.
Su dunque, rompi gli indugi, nuova prole di Iesse,18 trai la tua fede dagli occhi
del Signore Dio degli eserciti, al cui cospetto tu operi e abbatti questo Golia con 
la fionda della tua saggezza e con il sasso della tua forza; poiché con la sua caduta 

40    la notte e l’ombra della paura coprirà il campo dei Filistei;19  fuggiranno i Filistei
e sarà liberato Israele. Allora la nostra eredità, che, a noi tolta, incessantemente
piangiamo, ci sarà restituita per intero; e come ora, memori della sacrosanta Gerusalemme,
esuli gemiamo in Babilonia,
20 così allora cittadini e respirando nella pace ricorderemo nella
gioia le miserie della confusione.

45    Scritto in Toscana alla sorgente dell’Arno, il 17 aprile [1311], l’anno primo della
faustissima venuta in Italia del divo Enrico.

 >> pagina 272 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Condannato all’esilio, Dante non cessa mai di sperare che un imperatore possa ristabilire l’autorità e la pace nell’Italia devastata dalle divisioni e dalle guerre civili. Nel I canto dell’Inferno aveva profetizzato l’arrivo di un “veltro”, un cane da caccia che allude allegoricamente a un uomo inviato dalla Provvidenza a sconfiggere l’avidità e gli altri mali che affliggono il mondo. Nell’autunno del 1310 un evento imprevisto ma a lungo auspicato accende la speranza nell’animo del poeta: Arrigo VII di Lussemburgo, incoronato ad Aquisgrana nel gennaio dell’anno precedente, decide di scendere in Italia con un esercito per ribadire la sua autorità. Anche il papa Clemente V pare favorevole, tanto che nella bolla Exultet in gloria proclama Arrigo rex iustus et pacificus (re portatore di giustizia e di pace) invitando tutte le città della Penisola ad accoglierlo con onore.

 >> pagina 273 

Gli auspici di Dante si scontrano però ben presto con la realtà. Molti centri italiani infatti si ribellano: a guidarli è proprio Firenze, dove i guelfi neri intimano al papa, intanto trasferitosi ad Avignone, di schierarsi contro l’imperatore. Il poeta reagisce con una violentissima epistola scritta nel marzo 1311 indirizzata Agli scelleratissimi Fiorentini che vivono tra le mura di Firenze, nella quale annuncia loro con tono apocalittico l’imminente castigo divino. Risale invece al mese successivo l’epistola di cui abbiamo proposto la parte conclusiva: Dante si rivolge direttamente ad Arrigo VII, gli ribadisce fiducia e devozione, ma al tempo stesso lo incoraggia a rompere gli indugi e a marciare contro il covo della ribellione, ossia Firenze, definita la causa di questo tumore purulento (r. 12).

In effetti, qualche mese dopo, esattamente a settembre, l’imperatore cingerà d’assedio Firenze, ma con mezzi insufficienti, senza ottenere risultati apprezzabili. Per Dante, intanto escluso da un’amnistia generale che favorisce molti altri fuoriusciti guelfi, sarà l’ennesima delusione politica: il sogno imperiale che lo aveva sorretto negli anni dell’esilio svanirà definitivamente poco dopo, quando – nell’agosto del 1313 – Arrigo VII morirà per un attacco di malaria a Buonconvento, presso Siena.

Le scelte stilistiche

La lettera costituisce un esempio assai significativo di che cosa rappresenta per Dante la politica: una passione bruciante da vivere con l’intensità del militante. Vibra infatti nel testo l’indignazione accesa e vendicativa tipica delle invettive: con un tono elevato, il poeta inanella una serie di similitudini mitologiche, naturalistiche e bibliche che investe l’oggetto del suo astioso risentimento, Firenze. La città natale è prima paragonata a un’idra pestifera (rr. 1-2) dalle molte teste, che richiama il mostro sconfitto da Ercole, e poi viene definita come una piccola volpe (r. 15) che si abbevera all’Arno e – con un’immagine evangelica – come una pecora malata (r. 19) che diffonde il contagio infettando l’intero gregge. La stessa eloquenza vigorosa e polemica sostiene le altre rappresentazioni di Firenze, ora accostata alle scellerate Mirra e Amata (colpevole la prima di incesto, la seconda di essersi opposta al fato e alle nozze di Enea e Lavinia), ora assimilata a una vipera che tenta di mordere la propria madre, cioè Roma.

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Quali accuse muove l’autore al suo destinatario e quale invito gli rivolge?

Analizzare

2 Aiutandoti con la nota, spiega che cosa intenda dire Dante con la metafora dell’idra di Lerno.

Interpretare

3 Per quale motivo in tutta la lettera Dante ricorre con tanta insistenza alla personificazione di Firenze?


4 Perché l’autore fa riferimento anche all’episodio del gigante Golia?

Produrre

5 Scrivere per argomentare. Prova a rovesciare il punto di vista di Dante e omaggia la tua città con un testo celebrativo di circa 20 righe.

Vola alta parola - volume 1
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Dalle origini al Trecento