Le opere

Le opere

Vita nuova

La prima opera dantesca di un certo rilievo è la Vita nuova (1292-1293 o 1294), nella quale il poeta raccoglie le rime composte per Beatrice, accompagnandole con il racconto in prosa delle diverse circostanze che le avevano ispirate. Rinviamo la trattazione alla seconda parte dell’Unità ( p. 299).

Convivio

Fra il 1303 e il 1304-1307 Dante scrive due trattati, lasciando entrambi incompiuti nel momento in cui comincia a dedicarsi alla composizione della Divina Commedia: il primo in volgare (Convivio), il secondo in latino sulla lingua volgare (De vulgari eloquentia).

Il Convivio è un’opera enciclopedica e dottrinale che, secondo il progetto dell’autore, doveva comprendere 15 trattati (cioè capitoli tematici), il primo di introduzione agli altri, destinati a commentare 14 canzoni. L’opera però non viene condotta a termine, rimanendo interrotta al quarto trattato. In un certo senso, si tratta di un ampliamento della modalità compositiva già precedentemente sperimentata nella Vita nuova, dove Dante aveva inserito testi lirici introdotti e commentati da brani in prosa, in una struttura divisa in capitoli.

Nel Convivio, però, muta radicalmente la motivazione dell’opera: mentre nella Vita nuova l’intento dell’autore era quello di celebrare Beatrice, qui si tratta di celebrare la conoscenza. Già il titolo, infatti, allude a un banchetto di sapienti ai piedi del quale Dante si colloca per appropriarsi delle briciole del loro sapere e renderle, attraverso la sua opera, fruibili a un maggior numero di lettori colti e meno colti, comunque amanti della conoscenza.

Nel primo trattato, introduttivo, l’autore dichiara lo scopo dell’opera: fornire le basi della conoscenza a tutti coloro ai quali siano stati impediti gli studi da occupazioni civili e familiari. Proprio con tale motivazione l’autore giustifica la scelta di scrivere in volgare, esaltando le possibilità espressive della nuova lingua. L’opera si propone dunque un compito educativo e formativo nei confronti di quella classe dirigente ideale che Dante immagina per la città della sua epoca.

I successivi tre trattati sono contraddistinti da una lettura allegorica dei testi lirici presentati. Tale modalità di lettura e interpretazione è precisamente teorizzata nel secondo trattato, dove, a partire dalla canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, si parla della struttura dell’universo, dei cieli, delle gerarchie angeliche, dell’immortalità dell’anima e si tratta, tra l’altro, dei diversi modi (o «sensi») con cui si possono interpretare le Sacre Scritture. Dante analizza inoltre il passaggio dall’amore per Beatrice all’amore per la filosofia, simboleggiata dalla figura della «donna gentile», già presente nella Vita nuova, dove appariva al poeta dopo la morte dell’amata.

Nel terzo trattato, introdotto dalla canzone Amor che ne la mente mi ragiona, si trova una sorta di inno alla sapienza, vista come la massima aspirazione dell’uomo. Nell’appagamento del desiderio di conoscenza l’essere umano trova infatti una porzione della beatitudine riservata a Dio e agli angeli, nonché un anticipo, già sulla Terra, di quella che sarà la felicità del paradiso.

Infine, nel quarto trattato, si affronta, nel commento alla canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, una problematica di grande attualità all’epoca di Dante, già sollevata da Guido Guinizzelli e trattata nello Stilnovo: la vera natura della nobiltà, che per lo scrittore è legata alle qualità intellettuali e morali, e che può esistere anche in assenza di nobili natali. Sempre nel quarto trattato è presente una lunga digressione sulla necessità dell’impero universale al fine di garantire all’umanità ordine e pace duraturi, argomento poi sviluppato più ampiamente in un’opera successiva, il De monarchia.

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Accanto alla finalità divulgativa del trattato, scopo di Dante, nel Convivio, è anche quello di difendere sé stesso dalle accuse infamanti seguite alla condanna e all’esilio. Di qui la scelta di una materia di alto impegno filosofico, che mira a smentire i nemici di Dante, il quale vuole dimostrare, attraverso quest’opera, il proprio valore e quanto ingiustamente i fiorentini lo abbiano condannato.

Ha scritto il filologo Michele Barbi: «Opere più dotte se ne hanno in gran numero nel Medioevo, ma non opere in cui vibri tanto sentimento e riluca un così alto ideale umano. Accanto quindi alle parti puramente dottrinali, anch’esse notevoli per chiarezza e vigore di trattazione, si hanno pagine vive, calde, colorite; e non occorre ricordare le pagine in cui si discorre dell’esilio, quelle in difesa del volgare, e quelle in cui vien rappresentata la nobiltà della vita umana nelle sue varie età».

Il Convivio, del resto, si distingue dalle affini opere enciclopediche medievali per il fatto che qui il «banchetto di sapienza» è imbandito da un poeta. Il sapere, in quest’opera, è investito dalla fantasia e dal sentimento di Dante, che è, appunto, prima di tutto un poeta. Così, l’indagine dottrinale si fonde continuamente con l’indagine del cuore umano e con l’estro dell’immaginazione letteraria. E infatti non poche immagini e considerazioni passeranno in seguito dal Convivio alla Divina Commedia.

De vulgari eloquentia

Il De vulgari eloquentia (Sull’eloquenza volgare) è un trattato in latino, progettato in 4 libri, di cui Dante scrive soltanto il primo e parte del secondo.

Nel primo libro l’autore descrive il proprio ideale linguistico, trattando innanzitutto dell’origine del linguaggio, dalla creazione di Adamo alla distruzione della torre di Babele, e soffermandosi poi a considerare gli idiomi derivati in particolare dal latino: soprattutto il provenzale (lingua d’oc), il francese (lingua d’oïl) e l’italiano (lingua del ).

All’interno di quest’ultimo Dante distingue, con un’analisi glottologica per quei tempi pionieristica, i quattordici dialetti che allora erano parlati in Italia, ma giunge alla conclusione che nessuno di essi possieda le qualità proprie di quel volgare che egli chiama «illustre». Occorre a suo giudizio che tale «volgare illustre» sia davvero la lingua comune della penisola, in grado perciò di superare i particolarismi locali, alla luce di un ideale nazionale (almeno sul piano linguistico).

Bisogna però sgombrare il campo da un possibile equivoco: Dante non parla di una lingua per la comunicazione quotidiana, ma della lingua della produzione letteraria. In sintesi, il «volgare illustre» da lui immaginato dev’essere «cardinale» (poiché esso deve rappresentare il cardine, vale a dire il punto di riferimento, degli altri volgari), «aulico» (perché degno di essere parlato nell’“aula”, cioè nel palazzo dell’imperatore) e «curiale» (in quanto adatto alla corte dell’imperatore) ( T7, p. 285).

In particolare, nel secondo libro Dante indica i modi in cui il «volgare illustre» va utilizzato in poesia. Poiché per gli antichi (e anche per gli uomini del Medioevo) ogni particolare tipologia di contenuto tematico presupponeva un suo specifico stile, fatto di determinate scelte lessicali e retoriche, egli sviluppa una precisa distinzione: stile tragico o alto (per i temi elevati, da rendere in un linguaggio solenne), comico o basso (per i contenuti quotidiani, da esprimere in una lingua umile), elegiaco o medio (per gli argomenti malinconici, da sviluppare in un tono medio).

Il registro del «volgare illustre» più conveniente per la poesia è secondo Dante quello tragico, adatto agli argomenti amorosi (come quelli affrontati nella Vita nuova), ma anche ai temi epici e morali (l’amore, le armi e la virtù). La forma metrica preferibile è la canzone, in quanto più ampia e articolata rispetto al sonetto, l’altra forma maggiormente praticata dalla poesia delle origini.

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Il De vulgari eloquentia è un’opera per specialisti, per letterati desiderosi di apprendere le norme di una lingua che possa assurgere a strumento espressivo adeguato a diversi scopi: il volgare italiano, appunto. Di qui la scelta di scrivere l’opera in latino. È un’opzione che, lungi dall’essere paradossale (trattare del volgare scrivendo però in latino), indica il pubblico di riferimento: un pubblico dotto, diverso da quello pensato per il Convivio, il cui intento era invece, come si è detto, divulgativo.

Divina Commedia

Dante si dedica al suo capolavoro dal 1306-1307 fino alla morte. Ne parleremo ampiamente nella terza parte dell’Unità ( p. 325).

De monarchia

Il De monarchia (Sulla monarchia) è un trattato in latino (rivolto dunque anch’esso a un pubblico di dotti), senz’altro successivo al 1308 e databile probabilmente al 1312-1313. Esso affronta il tema, di grande attualità e di forte interesse personale per l’autore, della natura della monarchia e dei rapporti tra i due poteri assoluti dell’epoca medievale: l’Impero e il Papato. Si tratta dell’unico trattato dottrinale portato a termine da Dante (diversamente dal Convivio e dal De vulgari eloquentia, rimasti incompiuti).

L’opera consta di 3 libri, ai quali sono affidati i tre argomenti correlati tra loro.

Nel primo libro viene affermata la necessità della monarchia universale per il benessere del mondo: Dio ha voluto che l’uomo facesse parte di organizzazioni statali sempre più vaste per ottenere migliore protezione dall’egoismo e dall’avidità dei singoli. Per conseguire la piena realizzazione delle potenzialità dell’intelletto, l’uomo ha bisogno di una pace autentica, che soltanto un monarca unico può assicurare, impedendo, attraverso un’equanime amministrazione della giustizia, lotte e divisioni tra individui e popoli.

Nel secondo libro Dante sostiene che il popolo romano è per elezione divina il depositario del potere imperiale. Per mostrare come l’Impero romano sia stato voluto dalla Provvidenza divina, Dante afferma che il sacrificio di Cristo, affinché potesse essere efficace per redimere l’intera umanità, doveva avvenire in seguito a una sentenza emessa da un’autorità che avesse validità universale. Dunque il fatto che Cristo abbia patito «sotto Ponzio Pilato», cioè sulla base di una condanna pronunciata da un legittimo rappresentante dell’Impero romano, testimonia l’approvazione divina di quell’istituzione.

Nel terzo libro si afferma la reciproca indipendenza tra Impero e Papato, che Dante rappresenta per metafora come due soli, splendenti ciascuno di luce propria in quanto entrambi legittimati dalla volontà divina. Dante contesta così le tesi più diffuse ai suoi tempi in merito alla questione dei rapporti tra Chiesa, Impero e regni nazionali: la tesi teocratica, che sostiene la dipendenza dell’Impero dalla Chiesa, in quanto quest’ultima avrebbe ricevuto tutto il potere direttamente da Dio per poi trasmettere quello temporale all’imperatore; quella imperialista, che prevede la preminenza dell’Impero sulla Chiesa, in quanto sarebbero le armi imperiali a garantire al papa la pace e la difesa necessarie affinché egli possa svolgere i propri compiti spirituali; e infine quella regalista, che predica la preminenza del sovrano nazionale sulle istituzioni sovranazionali come Chiesa e Impero (questa idea viene fortemente sostenuta da Filippo IV di Francia, detto Filippo il Bello, in polemica con papa Bonifacio VIII, fautore della tesi teocratica).

Sempre nel terzo libro Dante contesta la legittimità della Donazione di Costantino ( p. 270), un documento che oggi sappiamo falso (scritto molto probabilmente nella seconda metà dell’VIII secolo per consolidare il potere della Chiesa di Roma), ma la cui autenticità a quei tempi non era messa in discussione. In questo documento, che veniva attribuito a Costantino, l’imperatore concedeva a papa Silvestro I e ai suoi successori la sovranità su Roma e su larga parte dei territori italiani dell’Impero d’Occidente. Dante dimostra, attraverso argomenti di tipo giuridico, che Costantino non avrebbe potuto alienare una parte dell’Impero e come la Chiesa, a sua volta, non fosse legittimata a riceverla.

 >> pagina 259 

Il De monarchia è un’opera di notevole coerenza teorica, con la quale Dante mostra la sua cultura e capacità di riflessione filosofica. Già nel proemio l’autore insiste sull’originalità del tema, riferendosi alle «novità mai trattate da altri» e precisando la sua intenzione di procedere, per mezzo di ragionamenti del tutto speculativi e dimostrativi, all’analisi dei temi su cui sono incentrati i 3 libri.

Dante intuisce perfettamente che l’avvento di una monarchia universale è di difficile realizzazione in quei tempi tormentati e caratterizzati da radicati odi di parte ed estesa conflittualità politica. Tuttavia non rinuncia a insistere su questa prospettiva, che vede come la sola capace di condurre gli uomini alla felicità terrena.

Come il Convivio, anche il De monarchia è un’opera che mira all’indottrinamento (in questo caso più specificamente politico) di una nuova classe dirigente, capace di contribui­re al rinnovamento della società e all’abbattimento della corruzione.

Le circostanze dell’incoronazione dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo sono lo sfondo della stesura dell’opera, che non nasconde l’indignazione per l’usurpazione dell’autorità imperiale praticata dai «dominanti in Roma», cioè dai pontefici, da quando nel corso del Duecento l’Impero, in forte crisi, ha perso il controllo sull’Italia. Il poeta è infatti convinto – fondandosi su precisi argomenti giuridici e teologici – che l’elezione dell’imperatore debba rispondere soltanto a Dio.

 >> pagina 260 

Rime

La raccolta delle Rime contiene i componimenti poetici giovanili non entrati nella Vita nuova, ma anche alcune liriche appartenenti al periodo dell’esilio. Nel complesso si tratta di 54 testi (altri 26 sono di dubbia attribuzione) tra sonetti, ballate e canzoni, difficilmente databili nei loro diversi momenti compositivi, se non per quello prestilnovistico e stilnovistico. La raccolta non è stata strutturata dall’autore con l’intento di darle una forma organica, ma è stata ordinata dagli editori moderni per la pubblicazione in una sorta di canzoniere.

Nelle Rime Dante svolge una ricerca letteraria ad ampio raggio, spesso caratterizzata da una forte tendenza sperimentale, soprattutto sul piano dello stile: è un apprendistato che risulterà assai utile al momento della stesura della Divina Commedia.

Nell’ambito di tale amplissimo ventaglio espressivo troviamo temi e toni molto diversi tra loro. Un primo gruppo consistente è quello dei componimenti legati allo Stilnovo e in particolare all’imitazione del modello cavalcantiano. Sempre all’interno delle Rime troviamo poi testi alla maniera di un poeta come Guittone d’Arezzo (precedenti la fase stilnovistica), altri di contenuto dottrinale e allegorico.

Un gruppo ben individuabile di rime è quello delle cosiddette “petrose” (quattro testi tra i quali il più noto è la canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro), scritte, forse intorno al 1295, per una Pietra o per una donna dura come pietra, una figura femminile crudele (difficilmente identificabile con una persona reale), oggetto di un amore non corrisposto, espresso in toni drammatici e con uno stile tecnicamente complesso. In verità tali componimenti testimoniano intenti di esercitazione letteraria molto più che vicende biograficamente o psicologicamente determinate.

Allo stesso periodo risalgono probabilmente i sonetti della tenzone con l’amico Forese Donati, fratello di Corso (il capo dei guelfi neri): Dante e Forese si rimproverano e rinfacciano in sei sonetti, tre per ciascuno, colpe e difetti d’ogni genere, e lo fanno con parole molto dure; ma si tratta, ancora una volta, di una pratica letteraria.

Nei componimenti petrosi Dante ricerca un’espressività più aspra, opposta a quella dolce dello Stilnovo, mentre in quelli della tenzone con Forese si avvicina ai modi della poesia comico-realistica. Entrambe queste esperienze verranno messe a frutto in alcuni canti dell’Inferno: se in queste rime possiamo ravvisare una sorta di tirocinio, nella prima cantica della Commedia Dante coglierà i frutti maturi di questa fase di formazione.

Altre opere minori

Di Dante ci rimangono anche 13 Epistole in latino: la quinta, la sesta e la settima riguardano la discesa di Arrigo VII in Italia, mentre la tredicesima (del 1316) è indirizzata a Cangrande della Scala e contiene la dedica del Paradiso.

Abbiamo poi, ancora, 2 Egloghe in esametri latini, un libello, sempre in latino, intitolato Questio de aqua et terra (Disputa sull’acqua e sulla terra), in cui l’autore confuta la teoria aristotelica in base alla quale in alcuni punti del globo le acque sarebbero più alte delle terre emerse, nonché due opere giovanili in volgare, di gusto allegorico tipicamente medievale, la cui autenticità è stata a lungo discussa (ma poi autorevolmente sostenuta dal filologo Gianfranco Contini): il Fiore, un poemetto costituito da 232 sonetti che rielabora il Roman de la Rose, e il Detto d’amore, un poemetto didattico in distici di settenari (di cui ci restano solo 480 versi).

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La vita

 

Le opere

• Nasce a Firenze

1265

 

• Sposa Gemma Donati

1285

 

• Soggiorna a Bologna

1286-1287

 

• Combatte nella battaglia di Campaldino

1289

 

• Muore Beatrice

1290

 
  1292-1293/ 1294 Vita nuova

Partecipa alla vita politica di Firenze

1295-1304

Probabilmente rime “petrose” e sonetti della tenzone con Forese Donati

Viene eletto priore

1300

 

• È condannato all’esilio

1302

Rime del periodo dell’esilio

  1303-1307 Convivio – De vulgari eloquentia
  1306-1307 Inizio stesura della Divina Commedia
  1310 Epistole su Arrigo VII
  1312-1313 De monarchia

È ospite di Cangrande della Scala a Verona

1315-1320

 

  1316  Epistola a Cangrande della Scala

• Muore a Ravenna

1321

Fine stesura della Divina Commedia

Vola alta parola - volume 1
Vola alta parola - volume 1
Dalle origini al Trecento