Un classico del Novecento
Eugenio Montale è con ogni probabilità il poeta italiano del XX secolo più studiato dalla critica. Alla sua figura e alla sua opera sono dedicati centinaia di studi, volumi, atti di convegni, mostre, numeri monografici di riviste, edizioni commentate. È un’ondata imponente, senza rivali, che di recente è andata addirittura accrescendosi.
Montale, peraltro, ha saputo destare molto presto l’interesse della critica. Tra i recensori degli Ossi di seppia si contano infatti autorevoli letterati dell’epoca, come Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis e Sergio Solmi, che nella raccolta riconosce «l’unica classicità compatibile colla nostra epoca difficile», e prosegue: «perciò la consapevolezza e la misura artistica del Montale, pure adoperandosi nei modi e nelle forme ancora disgregate e germinali della poesia moderna, danno alla sua ispirazione un tono profondamente intimo e compatto e necessario che ricercheremmo vanamente altrove».
A simili giudizi si aggiunge di lì a poco l’autorevole avallo di Alfredo Gargiulo, che introduce la seconda edizione degli Ossi, occasione di un ulteriore acquisto di consensi. Si può al proposito ricordare un caloroso articolo pubblicato da Carlo Emilio Gadda nel 1932 su “L’Ambrosiano”, o lo studio di Gianfranco Contini apparso l’anno successivo sulla “Rivista rosminiana”, a inaugurare la “lunga fedeltà” del critico al poeta e amico. Nel dopoguerra, e ancor più a partire dagli anni Sessanta, la poesia di Montale diviene una palestra ideale nella quale esercitare i nuovi metodi critici: una delle più conosciute applicazioni italiane dello Strutturalismo è per esempio l’analisi degli Orecchini (una poe- sia di Finisterre) proposta nel 1965 dal filologo D’Arco Silvio Avalle.