T2 - La scoperta dell’eros (Ernesto)

T2

La scoperta dell’eros

Ernesto

Ernesto, protagonista del romanzo, lavora come impiegato in un magazzino di granaglie. Nel brano che segue, tratto dalle pagine iniziali dell’opera, egli intrattiene una conversazione con un operaio più anziano, che nel corso del racconto lo condurrà a un’inattesa esperienza sessuale. Le battute del dialogo sono in dialetto triestino.

«Cossa el gà? El sè stanco?».1

«No. Son rabiado».2

«Con chi?».

«Col paron. Con quel strozin.3 Un fiorin e mezo per caricar e scaricar due cari».4

5      «El gà ragion lei».

Questo dialogo (che riporto, come i seguenti, in dialetto; un dialetto un pò5

ammorbidito e con l’ortografia il più possibile italianizzata, nella speranza che il

lettore – se questo racconto avrà mai un lettore – possa tradurlo da sé) si svolgeva

a Trieste, negli ultimissimi anni dell’Ottocento. Gli interlocutori erano un uomo

10    – un bracciante avventizio6 – ed un ragazzo. L’uomo era seduto su un mucchio

di sacchi di farina, in un magazzino di Via …… Portava in testa un grande fazzoletto

rosso, che gli scendeva più giù delle spalle (questo per proteggere il collo

dallo strofinamento dei sacchi). Era un uomo giovane, sebbene apparisse – come

notava Ernesto – un pò stanco; ed il suo aspetto aveva qualcosa di lontanamente

15    zingaresco; ma di uno zingaresco molto attenuato, molto addomesticato. Ernesto

era un ragazzo di sedici anni, praticante di commercio in una ditta che comperava

farina dai grandi mulini dell’Ungheria, e la rivendeva ai fornai della città. Aveva

i capelli castani, riccioluti e leggeri, gli occhi color nocciola (come quelli di certi

cani barboni); camminava alquanto dinoccolato,7 con la grazia dell’adolescenza,

20    che si crede sgraziata, e si teme ridicola. In quel momento stava in piedi, appoggiato

alla porta aperta del magazzino, attendendo il ritorno del carro, che doveva

arrivare presto, con l’ultimo carico della giornata, e guardava l’uomo come se lo

vedesse per la prima volta, sebbene, per necessità di lavoro ed anche, un poco,

per simpatia, lo conoscesse e gli parlasse da mesi. L’uomo teneva la testa fra le

25    mani; in attitudine – come pensava Ernesto – affaticata; o – come diceva lui – arrabbiata.

«El gà ragion lei», ripetè Ernesto, «el paron sè proprio un strozin; anca mi8 lo

odio (ma, a guardar bene il ragazzo, pareva improbabile che egli potesse davvero

odiare qualcuno) e quando el me manda in piaza a ciamar9 un omo, e che el me

disi quanto che el vol spender, me sento venir mal. La ciamo sempre lei; ma gò

30    vergogna de offrirghe cussì poco. Sè el lavor che fazo meno volentieri de tuti».10

L’uomo si sciolse dalla sua posa concentrata e guardò con tenerezza Ernesto.

«So», disse, «che el sè bon.11 Se un giorno la diventerà, come che mi ghe auguro,

paron, no la traterà certo chi che lavorerà per lei come me trata mi el suo paron

de adesso. Un fiorin e mezo per tre cari»,12 riprese, «e due omini soli. El se la suga

35    (cava) con poco quel ladro: nol sa cossa che vol dir sfadigar, spezialmente adesso

che scominzia el caldo. Due fiorini per omo saria ancora poco. Se no la ghe fussi

lei, che ghe parlo cussì volentieri, no vederio l’ora che rivi el caro, per finir la giornada

e distirarme13 in t’un leto».

Era una giornata della primavera inoltrata, e la via era piena di sole. Ma, dentro

40    il magazzino, faceva fresco, un fresco umido, che odorava di farina.

«Perché nol se senta?»,14 disse – dopo un breve silenzio – l’uomo. «El se acomodi

qua (ed accennò un posto molto vicino al suo). Se la gà paura de sporcarse, ghe

distiro15 soto el mio sacheto (giacca)». E fece l’atto di prenderlo, perché, nell’attesa

del carro, si era già messo in maniche di camicia.

45    «No ghe sè bisogno», rispose Ernesto. «La farina no lassa sporco; basta una

spolverada e no se vedi più gnente. E pò ghe tegno poco16 che se vedi o no». Impedì

all’uomo di distendere, come voleva, la giacca, e sedette, con un sorriso, accanto a

lui. Anche l’uomo sorrise. Non pareva più né stanco, né arrabbiato.

«Dopo», disse, «se el permeti, ghe neterò mi».17 Stettero un poco in silenzio,

50    guardandosi.

«La sè un bon ragazo», ripetè l’uomo, «e anca», aggiunse, «bel. Cussì bel che sè

un piazer guardarla». […]

L’uomo posò una mano sul dorso di quella che il ragazzo teneva distesa sul

sacco. Appariva turbato. «Pecà!», disse; e parve sorpreso e contento che il ragazzo

55    non avesse ritirato la mano.

«Pecà de cossa?».

«De quel che ghe gò dito prima. Che no podemo esser amici, andar a spasso

insieme».

«Per la diferenza de età?».

60    «No».

«Perché la sè mal vestido? Ghe gò già dito che de ste robe no me importa gnente.

Anzi…».

L’uomo tacque a lungo. Pareva in conflitto con sé stesso: quasi volesse dire e

non dire qualcosa. Ernesto sentiva che la mano poggiata sulla sua tremava. Poi –

65    come chi arrischia il tutto per il tutto – disse all’improvviso, fissando bene il suo

interlocutore negli occhi, e con voce alterata: «Ma el sa cossa che vol dir per un

ragazo come lei diventar amico de un omo come mi? Perché, se nol lo sa ancora,

no son mi che voio insegnarghelo». Tacque di nuovo un momento; poi, visto che il

ragazzo era diventato rosso ed abbassava la testa, ma non ritirava la mano, aggiunse,

70    quasi aggressivo: «El lo sa?».

Ernesto sciolse dalla stretta, che si era fatta più forte, la mano divenuta un pò

molle e sudata, e la posò timidamente sulla gamba dell’uomo. Risalì adagio, fino

a sfiorargli appena, e come per caso, il sesso. Poi alzò la testa. Sorrise luminoso, e

guardò l’uomo arditamente in faccia.

75    Questi sentì uno sbigottimento invaderlo. La saliva gli si era seccata in bocca, e

il cuore gli batteva a fargli male. Ma non seppe dire altro che un «El gà capì?» che

pareva rivolto più a sé stesso che al ragazzo.

Ci fu un lungo silenzio, che Ernesto interruppe per il primo.

«Gò capì», disse, «ma… dove?».

80    «Come dove?», rispose, trasognato, l’uomo. Ernesto pareva più sciolto di lui.

«Per far le robe che no se devi far», – disse, «no bisogna restar soli?».

«Certo», rispose l’uomo.

«E lei dove el volessi che restemo soli?», domandò, sottovoce, Ernesto, che aveva

già perso un poco della sua baldanza.

85    «Stasera in campagna. Conosso un logo…».

«La sera no posso», disse il ragazzo.

«Perché? El va a dormir presto?».

«Magari podessi! Pico (casco) del sono. Invece me toca andar alle scole serali».

[…]

90    «Parleremo dopo», disse l’uomo al ragazzo, in fretta e con voce roca. Si rimise

in testa il fazzoletto, di cui si era liberato durante il dialogo con Ernesto, e s’avviò

alla fatica che l’aspettava. Sotto, le gambe gli tremavano un poco.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

In questo brano il narratore racconta il primo approccio dell’uomo (come lo chiama, senza indicarne mai il nome, in tutto il romanzo) al giovane Ernesto, figura che ha diversi tratti in comune con Saba stesso, a partire dal difficile rapporto con la madre e dall’assenza del padre. L’uomo, attratto da Ernesto, gli rivolge dei complimenti (La sè un bon ragazo […] e anca […] cussì bel che sè un piazer guardarla, rr. 52-53). Ernesto appare dapprima imbarazzato (il ragazzo era diventato rosso ed abbassava la testa, r. 70); poi mostra spavalderia e audacia (Sorrise luminoso, e guardò l’uomo arditamente in faccia, rr. 74-75), tanto da suggerire all’altro il modo migliore per incontrarsi da soli.

Negli anni in cui viene scritta quest’opera l’omosessualità è oggetto di forte disapprovazione sociale, al punto che l’autore non ha la certezza che il libro venga pubblicato (se questo racconto avrà mai un lettore, r. 8). In una lettera, egli si riferisce a Ernesto con queste parole: «Quello che ho scritto è così bello, così incantevolmente bello». La frase è stata così commentata da Alberto Moravia: «In queste parole bisogna leggere piuttosto l’esaltazione di chi è riuscito a vincere se stesso e a debellare con la verità un antico tabù, che l’autocompiacimento ingenuo di un artista. Se la frase viene modificata così “quello che ho scritto è così vero, così coraggiosamente vero” le parole di Saba diventano oltre che più commoventi anche più significative. Diventano, cioè, una chiave per capire il libro».

Le scelte stilistiche

Ambientato a Trieste, Ernesto è fortemente radicato nei luoghi e nell’epoca in cui si svolgono le vicende, e restituisce un ritratto realistico del mondo del lavoro e delle inquietudini politico-sociali che attraversano la città in quegli anni. Il ricorso al dialetto, soprattutto nei dialoghi, è coerente con un intento di resa fedele dell’atmosfera, sebbene non abbia soltanto una funzione realistica. Il realismo di Saba, infatti, non è di tipo mimetico o veristico; lo mostra la caratterizzazione di Ernesto, che per l’innocenza, la disponibilità e la libertà di cui dà prova, rimane sostanzialmente fuori dalla Storia e dalla società.

Il dialetto è inoltre lo strumento grazie al quale Saba è riuscito a trattare argomenti considerati scabrosi e a superare il secolare tabù relativo alla rappresentazione letteraria dell’omosessualità. Esso assume quindi, in questo romanzo, non soltanto un forte sapore di autenticità, ma anche un profondo valore liberatorio.

 >> pagina 886

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Come vengono descritti fisicamente i due protagonisti del dialogo, l’uomo ed Ernesto?


2 Quale aspetto tipico dell’adolescenza viene sottolineato nella descrizione del ragazzo?

Analizzare

3 Da quali atteggiamenti si intuiscono l’emozione e l’agitazione dell’uomo?

Interpretare

4 Da che cosa ti sembra che Ernesto sia spinto verso l’uomo? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti al brano.

Dibattito in classe

5 Il romanzo breve Ernesto narra la storia di un’esperienza omosessuale e probabilmente anche per questo Saba si rifiutò di pubblicarlo. Ritieni che ancora oggi romanzi e racconti che tocchino quest’argomento siano da considerare scabrosi e scandalosi? Che cosa è cambiato, da allora? Confrontati con i compagni.

3 Il rapporto con Trieste

Una città mitteleuropea Come si è visto a proposito di Italo Svevo, Trieste tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è una città importante dal punto di vista sia commerciale sia culturale: luogo di incontro e di confronto tra popoli e mentalità diverse, centro di confine e dalle molte anime, ai margini delle tendenze intellettuali italiane ma caratterizzato da una notevole apertura internazionale. Qui vivono e scrivono autori come lo stesso Svevo (che appartiene alla generazione precedente a quella di Saba, avendo vent’anni più di lui) e, per un certo periodo, James Joyce.

Quella che si suole indicare come la dimensione “mitteleuropea” della città è un vivace clima culturale, a cavallo tra i due secoli, al quale portano il loro contributo scrittori e artisti austriaci, slovacchi, cechi, ungheresi, sloveni, di popoli cioè tra loro legati all’interno dell’Impero asburgico.

Il rapporto tra il poeta e la città Di tale temperie si alimenta, seppure indirettamente (per una sorta di resistenza psicologica il poeta non imparerà mai il tedesco), Umberto Saba. Trieste resta sempre per lui un punto di riferimento essenziale: i legami che lo avvincono a questa città sono talmente forti che può essere definita la “culla” della sua poesia; i luoghi – il porto, il molo, le viuzze della città vecchia, la zona collinare –, ma anche l’umanità – gli uomini, le ragazze, i ragazzi, la vita urbana – sono presenze fondamentali nei suoi versi. Una simbiosi così stretta tra autore e città appare un caso unico nella letteratura italiana del Novecento e si può semmai paragonare alle identificazioni ottocentesche di Porta con Milano o di Belli con Roma.

L’attaccamento a Trieste è motivato dalla vicenda biografica dell’autore, che vede la propria città natale come una sorta di “origine prima”, di mondo delle sicurezze, e quasi come una personificazione della madre. Radicata nella città, la sua poesia, anche quando ne esca (come, per esempio negli anni fiorentini), è sempre “autobiografia”.

 >> pagina 887 

Il luogo del “qui e ora” Trieste è, insieme, «inferno e paradiso», come dice il titolo di una prosa dello scrittore. Tuttavia, anche se Saba è in grado di cogliere e analizzare acutamente gli aspetti storico-culturali di Trieste, all’interno delle sue poesie (soprattutto nella sezione del Canzoniere intitolata Trieste e una donna, comprendente componimenti scritti tra il 1910 e il 1912, ma anche in molte altre parti dell’opera), la città viene vista soprattutto nei termini di «un universo autonomo di vita pulsante “qui e ora”» (Castellani), cioè come luogo tanto vicino all’istintualità vitale quanto lontano dalle vicende della grande Storia collettiva: come l’autore scrive in Storia e cronistoria del Canzoniere, «una città di traffici e non di vecchia cultura, varia di razze e di costumi».

Non a caso, nei suoi vagabondaggi per le vie di Trieste, il poeta sembra a volte dimenticare la propria sofferenza privata e immedesimarsi con le figure più reiette della città, con le quali stabilisce un rapporto di fraterna comunione: «Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede alla bottega / del friggitore, / [...] sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore» (Città vecchia).

 >> pagina 887

T3

Trieste come la vide, un tempo, Saba

Nel 1957 la figlia di Saba, Linuccia, gli chiede un articolo (per la rivista romana “Rotosei”) in cui il poeta parli del suo rapporto con Trieste. L’autore risponde alla richiesta in un testo che illustra la propria particolare relazione con la città: una relazione complessa e niente affatto idilliaca.

Tra gli innumerevoli equivoci che mi hanno, in sede giornalistica, perseguitato per

tutta la vita, c’è stato anche quello di fare di me “il poeta di Trieste”; e tu1 sai benissimo

che sono stato altra cosa [...]

In un breve discorso che ho tenuto, quattro anni fa, a Trieste, ho detto, fra

5      altro: «Prima di leggervi poche poesie su Trieste (poche per paura di stancarvi e di

stancarmi) devo premettere che io non sono stato un poeta triestino, ma un poeta

e uno scrittore italiano, nato, nel 1883, in quella grande città italiana che è Trieste.

Non so nemmeno se – dal punto di vista dell’igiene dell’anima – sia stato, per me,

un bene nascere, con un temperamento classico, in una città romantica; e con un

10    carattere (come quello di tutti i deboli) idillico, in una città drammatica. Fu un

bene (credo) per la mia poesia, che si alimentò anche di quel contrasto, e un male

per la mia – diciamo così – felicità di vivere... Comunque, il mondo io l’ho guardato

da Trieste. Il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie

e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro,

15    e di Trieste non fanno nemmeno il nome. [...]

Pensiamo un momento Recanati e Leopardi. A parte il fatto che il Leopardi non

amava – almeno a parole – Recanati, e che io Trieste l’ho amata; tutto il paesaggio

e, probabilmente, tutto il modo di essere del Leopardi era, senza alcun pregiudizio

della sua universalità, recanatese. Del resto, io non credo né alle parole né alle opere

20    degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra:

sono sempre opere e parole campate in aria».

Ma quella Trieste della quale ho parlato e cantato, non era la Trieste di oggi,

e nemmeno di ieri. La vita è – lo so troppo bene – movimento: ma, più ancora

delle guerre, delle rivoluzioni, delle persecuzioni, e di altri indicibili orrori (cose

25    che accaddero in tutti i tempi e in tutti i paesi) il nostro secolo aggiunse, di suo, la

velocità, una velocità spaventosa; alla quale l’uomo non era, in nessun modo, preparato.

Questa è stata, forse, la sventura più grande della quale ci abbia deliziato.

Hai appena superata un’ondata di mali, che un’altra ne sopraggiunge, più alta, più

minacciosa delle precedenti. Tanto, che ho sempre invidiato i poeti, gli scrittori,

30    gli artisti (gli uomini in generale) che hanno potuto chiudere gli occhi in una città

mutata sì, ma di poco, da quella che era stata al tempo della loro fanciullezza. Da

quando nacqui fino allo scoppio della prima guerra mondiale (ed anche più tardi)

Trieste era sempre quella veduta, conosciuta nell’infanzia, scoperta poi: una città


bella tra i monti

35    rocciosi e il mare luminoso. Mia

perché vi nacqui, più che d’altri mia,

che la scoprivo fanciullo, ed adulto

per sempre a Italia la sposai col canto.


I monti rocciosi, il mare luminoso sono rimasti; il resto... Forse il disastro incominciò

40    con l’abbattimento (senza necessità assoluta) di città vecchia, che era, fra altre

venerabili2 cose (ivi inclusi i poveri ubbriachi che vedevi, il Sabato sera – giornata

per gli operai di paga – sbandare, col loro “libero arbitrio”, da un canto3 all’altro

delle sue viuzze ed androni: spettacolo che ti divertiva bambina, del quale serbi

ancora – a quanto mi hai detto – una specie di nostalgia) la parte più incontestabilmente

45    italiana della città. Quando tua madre ed io ci siamo sposati, Trieste era,

circa, quella che, per me, era sempre stata; e lo è ancora, ma solo in sogni sognati

ad occhi aperti, che cerco, per quanto possibile, di evitare, per la paura che mi si

trasformino (come quasi sempre avviene) in incubi. Ricordo le passeggiate quotidiane

che facevo con la tua – mia grande Lina. Si scendeva dalla collina di Montebello,

50    dove si abitava (tu non eri ancora nata) e si percorreva quasi tutta Trieste. Il

suo incanto maggiore stava nella sua varietà. Svoltare un angolo di strada voleva

dire cambiare continente. C’era l’Italia e il desiderio dell’Italia, c’era l’Austria (mica

poi tanto cattiva come si pensava), c’era l’Oriente, c’era il Levante cui suoi mercanti

in fez4 rosso, e molte altre cose ancora. Si finiva quasi sempre, prima di rincasare,

55    in una piccola pasticceria ebraica di città vecchia, una pasticceria più antica che

vecchia e nella quale si confezionavano i dolci migliori che abbia mai assaggiati,

ed ai quali aveva sospirato invano la mia, già remota infanzia. (Mi rifeci – non

dubitare – più tardi.) E c’erano lì accanto, la casa dove abitava mia madre; c’erano

i negozietti di vestiti fatti, di mobili nuovi ed usati, che esponevano (parlo dei

60    primi) la loro merce appesa all’esterno delle botteghe, così che padroni, padrone

e commessi, dovevano continuamente vigilare, più che contro i ladri, contro i cani

che, inconsci del pericolo, avevano malgrado il “libero arbitrio” la malaugurata

tendenza di fiutare prima, poi di alzare trionfalmente la coscia sui lembi pendenti

delle stoffe esibite al passante. E, al tempo stesso, sia per compensare i sullodati

65    cani dei calci che ricevevano senza che potessero comprenderne il motivo (ma il

mondo e le leggi che lo governano appaiono ugualmente incomprensibili a tutti,

vuoi uomini, vuoi cani), sia perché allora si credeva che questi ultimi ammalassero

d’idrofobia5 per sete, tenevano, fuori dell’uscio, una ciotola piena d’acqua,

rinnovata, l’estate, due volte al giorno. Automobili non ce n’erano (o assai rare); la

70    gente comune andava a piedi; i ricchi (ma non sempre) in carrozza, ad uno o a due

cavalli, alcune stemmate6 allo sportello e col servo in livrea7 a cassetta.8 Dio mio,

Linuccia, com’era bella allora tua madre! E come era bella, allora, la nostra città!

 >> pagina 889

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Inizialmente Saba nega di essere “il poeta di Trieste” (r. 2), come voleva un luogo comune critico e giornalistico che egli intende evidentemente smentire. Perciò afferma recisamente: io non sono stato un poeta triestino, ma un poeta e uno scrittore italiano, nato, nel 1883, in quella grande città italiana che è Trieste (rr. 6-7). In base a quanto spiega l’autore stesso, infatti, questa città possiede caratteristiche molto diverse da quelle della sua psicologia: Trieste è romantica (r. 9) e drammatica (r. 10), mentre il temperamento del poeta è classico (r. 9) e idillico (r. 10). E se tale disaccordo intimo con il luogo in cui si è trovato a nascere e a vivere gran parte dell’esistenza è stato fecondo per la poesia, si è rivelato un dato negativo per la sua felicità personale.

Eppure poco più avanti assistiamo a un ribaltamento della prospettiva: il testo prosegue infatti con un’esplicita dichiarazione d’amore nei confronti della città (io Trieste l’ho amata, r. 17) e con l’affermazione della necessità, per ogni scrittore, di un profondo radicamento nella propria terra (rr. 19-21).

Di fronte alle trasformazioni storiche della città (come l’abbattimento della sua parte vecchia), l’amore di Saba si trasforma in nostalgia: la Trieste di un tempo può essere soltanto rimpianta in sogni sognati ad occhi aperti (rr. 46-47). Tuttavia sono sogni molto vividi, che restituiscono al lettore l’immagine fascinosa di una città ricca di Storia e di culture diverse (C’era l’Italia [...], c’era l’Austria [...], c’era l’Oriente, c’era il Levante, rr. 52-53), in cui il poeta si sentiva a proprio agio, nonché alcune istantanee della sua vita, come il racconto delle passeggiate quotidiane (r. 48) con la moglie Lina e la descrizione delle antiche botteghe che si potevano vedere lungo le vie. Finché, nell’ultima frase del brano, il profilo della città si confonde con quello di Lina, che era morta l’anno prima, dando luogo a un’unica immagine, forse quella della giovinezza ormai perduta per sempre: Dio mio, Linuccia, com’era bella allora tua madre! E come era bella, allora, la nostra città! (rr. 71-72).

Le scelte stilistiche

Il testo è un articolo giornalistico approntato su richiesta per una rivista, ma la sua tessitura è ordita su più livelli. Innanzitutto la forma è quella di una lettera indirizzata alla figlia Linuccia (l’incipit, che non abbiamo riportato nel brano, recita canonicamente Mia cara Linuccia ecc.), al quale il poeta si rivolge con la seconda persona (tu sai benissimo ecc., r. 2). C’è poi la trattazione saggistica del tema assegnatogli (il proprio rapporto con Trieste), ma anche una lunga auto-citazione attraverso l’inserimento di parte di un documento cronologicamente precedente, un discorso tenuto alcuni anni prima al Circolo della cultura e delle arti di Trieste.

Tale stratificazione compositiva è forse il segnale di un’impossibilità di trattare l’argomento in maniera immediata, spontanea, diretta, e quindi di un profondo disagio che Saba prova nel ripercorrere una materia complessa come la sua personale relazione con la città d’origine, tanto che, nella lettera del 21 febbraio 1957 con cui invia il testo a Linuccia, confessa: «L’ho scritto [...] in forma di lettera a te: altrimenti non avrei saputo. E, per stenderlo, ho dovuto aiutarmi con – oltre il resto – una bottiglia di cognac». È il segno che approcciarsi a un luogo così denso di memorie e di ricordi brucianti rappresenta per Saba un’operazione tutt’altro che indolore.

 >> pagina 890 

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 In che cosa consiste il contrasto profondo tra Saba e Trieste? E perché, al tempo stesso, il poeta non può fare a meno di amare la sua città?


2 Che cosa unisce Saba a Leopardi?


3 Come valuta Saba la velocità spaventosa (r. 26) che caratterizza l’età contemporanea?

  • a Come un fatto inevitabile e tutto sommato positivo.
  • b Come una risorsa da sfruttare.
  • c Come un elemento che unisce tra loro i diversi Paesi del mondo.
  • d Come un fenomeno negativo. 

ANALIZZARE

4 Rintraccia nel testo i punti in cui l’autore si rivolge direttamente alla figlia Linuccia. Quale effetto ottiene tale scelta retorica?

INTERPRETARE

5 Per quale ragione, secondo te, l’autore scrive – al passato – io Trieste l’ho amata (r. 17)?


6 Perché i sogni sognati ad occhi aperti (rr. 46-47) della Trieste del passato rischiano di trasformarsi per Saba in incubi (r. 48)?

I grandi temi di Saba

1 La concezione della poesia

la «poesia onesta», intesa come impegno di sincerità e chiarezza interiore

il recupero della tradizione lirica italiana: Dante, Petrarca, Leopardi

l’aspirazione alla semplicità: adesione alla vita e rappresentazione realistica

la predilezione per le parole comuni e le rime “facili”

la distanza dalla “poesia pura” di derivazione simbolista e l’“antinovecentismo”

2 Autobiografismo e confessione

letteratura come autocoscienza: la tensione verso la «chiarezza interiore»

la psicanalisi come terapia e come strumento di conoscenza dell’animo umano

l’esigenza di confessione “integrale” nel romanzo Ernesto

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi