Per approfondire - Il teatro europeo del Novecento

Per approfondire

Il teatro europeo del Novecento

Percorsi di ricerca, idee innovative, testi rivoluzionari e rivisitazioni della tradizione: ciò che accade sulla scena del teatro del Novecento è difficile da descrivere in modo univoco. Non è semplice, infatti, ricondurre esperienze eterogenee a schemi teorici o a scuole di pensiero definite nello spazio e nel tempo. Ci limiteremo così a presentare, a titolo esemplificativo, alcune figure emblematiche del panorama europeo e italiano.

Il teatro epico di Bertolt Brecht

Verso la fine degli anni Trenta, il commediografo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956), già celebre per L’opera da tre soldi (1928), elabora un’idea di teatro politicamente e socialmente impegnato, più tardi definito “teatro epico”. Prese le distanze dalla prospettiva del puro intrattenimento, Brecht sollecita il pubblico ad assumere il ruolo di osservatore critico, chiamandolo a giudicare ciò che avviene in scena e a partecipare attivamente all’evento teatrale. L’obiettivo è quello di creare un “teatro proletario”, in cui attori e scrittori si facciano carico della crescita culturale dell’intera collettività. A differenza del teatro di propaganda, politicizzato solo nei contenuti, nel teatro epico ogni elemento della messa in scena è finalizzato a trasmettere un messaggio politico-sociale.

Per raggiungere questo scopo Brecht ricorre all’ef­fetto di straniamento, che consiste nel sottolineare la finzione teatrale, annullando qualsiasi forma di illusione e di coinvolgimento emotivo: privato del piacere di immedesimarsi nel dramma rappresentato, allo spettatore viene chiesto di lasciarsi suggestionare dal congegno della pura finzione, tanto da essere costretto a riflettere e a prendere le distanze, a estraniarsi da quanto avviene sulla scena. Compito dell’attore, d’altro canto, non è più quello di identificarsi totalmente nel personaggio, bensì quello di mostrarne i tratti distintivi attraverso un continuo appello al giudizio del pubblico.

Nascono così i drammi più famosi di Brecht – Madre Coraggio e i suoi figli (1939), Vita di Galileo (1938, 1945, 1956), L’anima buona di Sezuan (1938) –, enigmatici e intimamente contraddittori. Scrive l’autore: «Il pregio principale del teatro epico, basato sullo straniamento, il cui scopo è rappresentare il mondo in maniera che divenga maneggevole, è precisamente la sua naturalezza, il suo carattere tutto terrestre, il suo umorismo, la sua rinuncia a tutte le incrostazioni mistiche che il teatro tradizionale si porta appresso fin dall’antichità». È dunque una forma drammatica che si oppone alla teoria aristotelica dell’identificazione e della catarsi, ancora dominante nel teatro naturalista d’inizio secolo: da qui deriva uno stile giudicato talvolta freddo e razionale, una narrazione asciutta che schematizza, e quindi non “incarna”, una vicenda. In Italia l’esperienza di Brecht influenzerà la regia di Giorgio Strehler e la sperimentazione etico-politica del teatro degli anni Settanta, in particolare quella di Dario Fo.

Il teatro dell’assurdo: Beckett e Ionesco

L’espressione “teatro dell’assurdo” è stata coniata dal critico ungherese Martin Esslin per indicare una serie di opere che vanno in scena a Parigi nei primi anni Cinquanta: La cantatrice calva (1950) di Eugène Ionesco, La grande e la piccola manovra (1950) di Arthur Adamov, Aspettando Godot (1953) di Samuel Beckett. Si tratta di un’etichetta che identifica esperienze diverse, accomunate però dal fatto di affondare le radici nelle “filosofie dell’esistenza”, in particolare nella speculazione di Martin Heidegger, Jean-Paul Sartre, Karl Jaspers e Albert Camus. In queste opere non si trasmettono informazioni, né si presentano problemi, ideologie, storie di personaggi: emerge invece, in un labirinto di immagini fortemente suggestionate dal Surrealismo, la realtà interiore dell’autore.

L’irlandese Samuel Beckett (1906-1989) è consi-derato il principale esponente di questa esperienza drammaturgica; egli ottiene un successo straodinario con Aspettando Godot (1952), uno spettacolo “assurdo” sulla disumanizzazione dell’uomo, replicato per anni nei teatri di tutto il mondo. Il soggetto è centrato sulla presenza in palcoscenico di due vagabondi che aspettano invano l’arrivo di un personaggio misterioso, forse Dio, o forse la sua negazione (alcuni critici hanno visto nel nome Godot un composto di God, Dio, e Robot). In altre opere, come Finale di partita (1957), da molti considerato il capolavoro di Beckett, Atto senza parole (1957) e Giorni felici (1961), la destrutturazione dei modelli del teatro tradizionale viene portata ancora oltre, riducendo gli aspetti scenici a dettagli minimi e dissolvendo i dialoghi fino alla laconicità e ai limiti del silenzio.

Il francese Eugène Ionesco (1909-1994) viene spesso affiancato a Beckett come interprete della disperazione dell’uomo contemporaneo. Il suo stile, impostosi all’attenzione del pubblico con La cantatrice calva (1950), è caratterizzato da un surrealismo soprattutto verbale, con una comicità basata sul non senso. In quella che l’autore stesso definisce «anticommedia», egli mostra gli aspetti fenomenici della società umana, svuotandoli di senso e svelando il nulla che vi si annida.

La voce popolare del teatro italiano

Verso tutt’altri esiti, con intenti e linguaggi disparati, si dirigono alcune esperienze teatrali italiane. Un tema comune può essere rintracciato nella riscoperta della spontanea recitazione del teatro popolare, in cui sono visibili l’eredità della commedia dell’arte. Tornano così a essere protagonisti del palcoscenico l’improvvisazione e l’estro di singoli attori, capaci di riempire la scena con la loro esuberanza.In questo contesto le commedie del napoletano Eduardo De Filippo (1900-1984), sviluppando il teatro dialettale ottocentesco, ripropongono al pubblico la maschera più celebre della tradizione popolare partenopea, Pulcinella. La vena essenzialmente farsesca, però, dopo il 1945 si apre a una più approfondita riflessione su tematiche sia esistenziali sia sociali, non senza intenti di polemica civile. Fra le opere più famose di De Filippo si ricordano Natale in casa Cupiello (1931), Napoli milionaria (1945), Filumena Marturano (1946). In esse si delineano scenari popolari, ambienti quotidiani e domestici degradati e carichi di sofferenza (in particolare in Filumena Marturano, 1946).

Una variazione sul tema dell’improvvisazione popolare può essere considerata anche l’arte della recitazione di Car­melo Bene (1937-2002): regista, attore, scrittore, uomo di teatro a tutto tondo, egli conduce una critica radicale al valore del te­sto scritto, mostrandone la sostanziale estraneità ai problemi pratici del linguaggio scenico. Il testo predisposto da uno scrittore non può essere interpretato, ma deve necessariamente essere ricreato dall’attore. Bene inaugura, quindi, un nuovo tipo di teatro, che definisce «scrittura di scena», in cui è centrale la figura dell’attore, artefice totale che supera sé stesso diventando «macchina attoriale».

Nel recupero della tradizione popolare medievale si inserisce infine il teatro di Dario Fo (1926), insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1997, perché – si legge nella motivazione – «seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi». Nel suo teatro sono riconoscibili due direzioni di ricerca: una destinata a condurre una satira politica pungente e spietata, l’altra volta ad attuare un profondo rinnovamento del linguaggio teatrale, attraverso la comicità clownesca tipica della commedia dell’arte e della tradizione giullaresca. Per dare un ritmo originale al suo paradossale umorismo, Dario Fo ha inventato una vera e propria lingua, il «grammelot», un ibrido scherzoso che, in particolare nel celebre monologo Mistero buffo (1969), sfrutta l’effetto parodico di un accostamento di suoni dei quali non conta il significato, ma il significante, e in particolare il ritmo. Altri celebri monologhi di Fo sono Johan Padan a la Descoverta de le Americhe (1991) e Ruzante (1995). La comicità di questa esperienza teatrale, comunque, non risiede soltanto nel pastiche linguistico, ma anche nella schiera di personaggi “da sottobosco” che popolano le commedie: ubriachi, prostitute, truffatori pieni d’inventiva, matti che ragionano meglio dei sani e altre figure relegate ai margini della società. A questi grotteschi individui è affidato un messaggio positivo e una libertà d’espressione che consente di superare le barriere delle costrizioni istituzionali. Fra le caratteristiche più note della satira di Dario Fo vi sono, infatti, l’anticonformismo e l’anticlericalismo, che segnano l’impronta militante del suo teatro.

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi