2 - Il vitalismo e la pazzia

2 Il vitalismo e la pazzia

La «vita» e la «forma» Secondo la concezione filosofica di Pirandello – che definiamo vitalismo – la «vita» non sopporta limiti e costrizioni: essa si manifesta in modo sempre mutevole, in una varietà di «forme» mai uguali a sé stesse. Le convenzioni sociali inducono l’individuo a fissare la vita – di per sé incostante e relativa – in forme stabili e durature, ma si tratta di apparenze fittizie, derivanti dall’illusoria e impossibile ricerca di un valore assoluto e di un’unica verità.

La prigione delle maschere Dare una forma stabile e cristallizzata alla vita significa, per Pirandello, farla morire. L’individuo, infatti, ingabbia la propria mutevole autenticità in una personalità coerente e unitaria, ma in realtà ogni identità è e rimane radicalmente e intimamente contraddittoria. I tentativi di costruirsi un ruolo preciso nella famiglia e nella società fanno prevalere l’apparire sull’essere, e costituiscono una fonte di equivoci continui e di falsità, destinati a trasformarsi in una prigione che gli individui, volontariamente, edificano attorno a sé. Tali ruoli sono maschere indossate per recitare una parte, per cercare di arrestare il flui­re di stati emotivi variabili, consegnandoci a un mondo pieno di incertezze, privo di riferimenti e come tale insopportabile.

Famiglia e lavoro Le istituzioni della famiglia e del lavoro vengono spesso identificate da Pirandello come una «trappola». Probabilmente condizionato dalle esperienze personali, lo scrittore non si riferisce quasi mai ai rapporti sociali e familiari con un senso di fiducia. Anche i legami parentali più stretti celano, dietro il perbenismo di facciata, vere e proprie crudeltà, perpetrate di solito a danno delle persone più sensibili, destinate a capire prima o poi il funzionamento del «giuoco» e a tentare di tirarsene fuori.

Nessun nido familiare, reale o immaginario, protegge – come avveniva in Pascoli – la solitudine del personaggio pirandelliano: egli piuttosto trova fra le mura domestiche litigi, menzogne, infedeltà e convivenze terribili. E la famiglia è un microcosmo in cui si trovano, amplificate, tutte le ipocrisie e le finzioni delle forme più complesse della vita sociale, lavorativa e politica.

In tutta la sua opera narrativa e teatrale Pirandello mostra un’insofferenza profonda verso i ruoli imposti dalla società: pur senza compiere gesti di vera e propria rivolta, egli denuncia – attraverso la poetica dell’umorismo – le angustie soffocanti dei ceti piccolo-borghesi, componendo un affresco amaro di una generazione priva di autenticità e spontaneità.

La follia come unica salvezza Prigioniero della famiglia (Mattia Pascal), di un lavoro meccanico (Serafino Gubbio), di un’immagine in cui non si riconosce più (Vitangelo Moscarda), di una società falsa e meschina (Enrico IV) o ancora di una parte teatrale che non trova realizzazione (i Sei personaggi), l’uomo pirandelliano non si rassegna, ma cerca invano di evadere dalle gabbie della «forma» in cui il destino ha voluto calarlo.

Come fare allora? L’unica vera soluzione è porsi fuori dagli schemi, ai margini della società, oppure oltre il confine della razionalità, là dove si può ancora percepire il fluire della corrente vitale. Il regredire all’infanzia oppure l’oltrepassare la soglia della “normalità” psicologica, rifugiandosi nell’immaginazione o nella pazzia, rappresentano per Pirandello le uniche possibili vie di fuga.

La salvezza può giungere così da un “altrove” fantastico, puramente immaginato (come nella novella Il treno ha fischiato, in cui il protagonista fantastica di visitare luoghi e città condotto dal treno che sente fischiare di notte), oppure dalla follia, eccellente strumento di contestazione, arma silenziosa che, fornendo all’individuo una visuale fuori dal comune, gli consegna un ruolo privilegiato e uno sguardo capace di arrivare dove gli altri non vedono (come in Enrico IV). Il folle si aggira fra il perbenismo della presunta normalità, svelando imbrogli e ipocrisie, riducendole all’assurdo e quindi annullandole.

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Lo sguardo straniato del folle Il folle può così osservare dall’alto e dall’esterno l’esistenza insensata degli altri, estraniandosene. Considerato pazzo dalla gente comune, chiuso nel suo isolamento irraggiungibile, egli torna a immergersi nel flusso del vitalismo, ritrovando quell’istintiva dimensione del vivere che si è persa in mezzo alle convenzioni sociali e ai ruoli prestabiliti: proprio ciò che accade a Vitangelo Moscarda, che in Uno, nessuno e centomila abbandona tutte le forme del vivere in società e qualsiasi maschera, rinunciando persino all’identità conferita dal nome.

T2

Il treno ha fischiato

Novelle per un anno

La novella viene pubblicata per la prima volta sul “Corriere della Sera” il 22 febbraio 1914; inserita nel volume La trappola nel 1915, è entrata poi a far parte del corpus delle Novelle per un anno. Si tratta di un testo emblematico: l’evento che dà l’avvio alla narrazione, in apparenza di una banalità estrema, diventa paradossalmente strumento di salvezza e di ritorno alla vita, almeno temporaneamente.

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Audiolettura

Farneticava.1 Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano

tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio,2 ov’erano stati

a visitarlo.

Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici,

5      appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano

per via:

«Frenesia, frenesia».3

«Encefalite».

«Infiammazione della membrana».4

10    «Febbre cerebrale».

E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel

dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo

azzurro della mattinata invernale.

«Morrà? Impazzirà?».

15    «Mah!».

«Morire, pare di no…».

«Ma che dice? che dice?».

«Sempre la stessa cosa. Farnetica…».

«Povero Belluca!».

20    E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui

quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo;

e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia,

poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo

caso.

25    Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capoufficio,

e che poi, all’aspra riprensione5 di questo, per poco non gli s’era scagliato

addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e

propria alienazione mentale.

Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca

30    non si sarebbe potuto immaginare.

Circoscritto…6 sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio.

Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione

di computista,7 senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite

semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note,

35    librimastri,partitarii, stracciafogli8 e via dicendo. Casellario9 ambulante: o piuttosto,

vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa

strada la carretta, con tanto di paraocchi.

Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato,10 fustigato senza

pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire11 un po’,

40    a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno

che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate

ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se

gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e

anni alle continue solenni bastonature della sorte.

45    Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto

d’una improvvisa alienazione mentale.

Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva

il diritto di fargliela, il capoufficio.

Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una

50    montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo.

Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi

gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso

all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero

sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.

55    Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio.

E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.

La sera, il capoufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:

«E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?».

Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo

60    le mani.

«Che significa?» aveva allora esclamato il capoufficio,

accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. «Ohé, Belluca!».

«Niente», aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e

d’imbecillità su le labbra. «Il treno, signor Cavaliere».

65    «Il treno? Che treno?».

«Ha fischiato».

«Ma che diavolo dici?».

«Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…».

«Il treno?».

70    «Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle

foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!».

Gli altri impiegati, alle grida del capoufficio

imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.

Allora il capoufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da

75    quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima

di tanti suoi scherzi crudeli.

Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era

ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva

fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non

80    poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.

Lo avevano a viva forza preso, imbracato12 e trascinato all’ospizio dei matti.

Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio

assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:

«Si parte, si parte… Signori, per dove? per dove?».

85    E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi,

senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o

d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite;

espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto

non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca

90    a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e

cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria.

Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi

cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola.13 Cose,

ripeto, inaudite.

95    Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione

mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma

neppur una lieve sorpresa.

Difatti io accolsi in silenzio la notizia.

E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della

100 bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:

«Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche

cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché

nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi

spiegherò tutto naturalissimamente, appena lo avrò veduto e avrò parlato con lui».

105 Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a

riflettere per conto mio:

«A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”,

la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo

impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii,

110 i cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di

quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a

quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi

veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà

stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà

115 più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro.

Una coda naturalissima.»

Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.

Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si

domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni

120 di vita.

Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste

due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre

murate.

Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno

125 le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti,

l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da

badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.

Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar

da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte

130 da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei

sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.

Letti ampii, matrimoniali; ma tre.

Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli,

tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le

135 tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano

anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava

quando veniva la sua volta.

Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte,

finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.

140 Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito

sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più

intontito che mai.

Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.

Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per

145 segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era

accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano

impazzito.

«Magari!», diceva. «Magari!».

Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato

150 – che il mondo esisteva.

Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto

il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come

una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria14 o d’un molino, sissignori,

s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo

155 esisteva.

Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per

l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito.

E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare

un treno.

160 Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si

fossero sturati.

Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria

di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato

a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme

165 tutt’intorno.

S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era

corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.

C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti,

c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze,

170 Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che

ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che

vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella

vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la

stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel

175 tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma

ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che

scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico

per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva,

ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari…

180 Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua

viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta

la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva,

c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre

fronti… Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così… c’erano gli oceani… le

185 foreste…

E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in

qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere

con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.

Gli bastava!

190 Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo,

dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era

ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capoufficio,

e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto, il capoufficio

195 ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di

tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in

Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo:

«Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…».

 >> pagina 655

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Come spesso accade in Pirandello, un avvenimento di per sé inconsistente sconvolge la routine di una vita apparentemente normale, quella dell’impiegato Belluca, ragioniere in un ufficio contabile e dedito alla famiglia fino al sacrificio di ogni libertà personale. L’avvenimento – in questo caso il fischio di un treno udito in una notte insonne, in altri casi un ricordo, un incontro inaspettato, un’immagine – dà inizio al risveglio del protagonista (Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai, rr. 53-54). Dopo l’istantanea illuminazione, nulla può essere più come prima e, rinato a nuova vita, Belluca si ribella per la prima volta alle angherie del suo capoufficio, alzando lo sguardo sulla triste realtà in cui è da anni intrappolato (ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo, rr. 79-80).

L’episodio costituisce l’innesco della novella, ed è parte fondamentale del procedimento umoristico, che scopre il serio nel ridicolo, il grande nel piccolo, e ribalta così le consuete visioni del mondo: il fischio di un treno, indizio comico di una presunta follia, diventa l’evento catartico e liberatorio mediante il quale è possibile scoprire l’insensatezza della realtà e proiettarsi in un altrove salvifico grazie all’intervento improvviso e inaspettato dell’immaginazione.

Ma dove scatta concretamente il meccanismo umoristico? Esso risiede soprattutto nel gioco delle focalizzazioni e dei punti di vista. L’effimera rivolta di Belluca e il suo farneticare al momento del risveglio vengono infatti considerati manifestazioni di pazzia da coloro che si limitano ad “avvertire il contrario”, osservando la scena da un’ottica esterna e convenzionale. Nei commenti superficiali e frettolosi dei colleghi d’ufficio, il suo comportamento è bollato senza mezzi termini come folle (Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici, r. 1). Perché mai un uomo mansueto e sottomesso, […] metodico e paziente (r. 29) avrebbe dovuto cambiare, così, tutt’a un tratto?

Chi nota superficialmente il disorientante e sinistro cambiamento di Belluca, confrontandolo con la sua precedente e ordinaria “normalità”, scambia la riconquista della dignità da parte del personaggio per uno stato di alienazione mentale. Ma se in tutta la prima parte il lettore assiste divertito al racconto dell’improvvisa pazzia di Belluca, presentata in modo volutamente comico dall’autore, nella seconda parte, quando quest’ottica esterna viene filtrata e riflessa attraverso punti di vista più profondi e penetranti, la riflessione conduce al «sentimento del contrario»: nel vedere com’è davvero la vita di questo pover’uomo, all’ilarità subentrano infatti la pena e la compassione.

In realtà, la trasformazione di Belluca e le reazioni dei suoi colleghi denunciano la situazione artificiosa e alienata in cui vivono tutti gli altri. Egli è infatti l’unico ad aver fermato, anche se per un solo istante, gli ingranaggi travolgenti della modernità, riassaporando all’improvviso il senso di un’esistenza autentica.

La rivolta di Belluca, tuttavia, è effimera. La follia del protagonista è solo apparente e temporanea: si tratta piuttosto di un momentaneo rifugio nell’immaginazione, che gli consente tuttavia di avere coscienza del vuoto quotidiano. Egli riscopre la presenza “reale” del mondo, la vita vera (Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva, rr. 149-150), e si accorge della falsità delle maschere e delle forme che coprono, come una cortina fumogena, l’essenza delle cose.

 >> pagina 656

Le scelte stilistiche

L’avvenimento centrale e determinante attorno a cui ruota la struttura narrativa della novella – il fischio del treno con le sue drastiche conseguenze – è assente per buona parte del racconto. Il fatto trapela soltanto dai commenti allarmati di personaggi senza nome e senza volto, che ricordano la concitazione di una scena teatrale. Non emerge, dunque, la voce chiara di un narratore, e l’ambiguità e la confusione che circondano il fatto scatenante contribuiscono a renderlo ancora più misterioso ed enigmatico: che cosa sarà mai successo all’impiegato Belluca? La suspense cresce fino a quando la banalità dell’evento erompe nella narrazione con una forza sproporzionata rispetto alle aspettative del lettore: si tratta solo del fischio di un treno? Ma allora Belluca è davvero impazzito?

Solo quando il narratore-testimone interviene a far luce sul senso nascosto dell’accaduto, la nebbia inizia a dissiparsi: conoscendo la miseria dell’esistenza di Belluca, egli è sicuro che i sintomi della “follia” possano avere una spiegazione naturalissima (Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara, rr. 111-112). È grazie alla sua testimonianza che il lettore viene condotto a riflettere sull’esperienza del protagonista, sul fenomeno che ha sconvolto la sua quotidianità e sulla catena di cause che lo ha provocato.

Come in un gioco di scatole cinesi, però, la focalizzazione diviene ancora più concentrata quando la parola è lasciata alla voce diretta del protagonista. Belluca racconta, confessa e chiarisce ogni dubbio solo nell’ultima parte del racconto: l’effetto-rivelazione è ottenuto così attraverso un progressivo restringimento della visione dei fatti, che va dai commenti esterni dei colleghi fino all’autopresentazione del protagonista.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Perché i colleghi d’ufficio sono convinti che Belluca sia diventato pazzo? Quali azioni inaspettate ha compiuto per essere a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti (r. 81)?


2 Perché il narratore parla del fatto come di una coda naturalissima (r. 116)? Che cosa significa che non è possibile fare astrazione dal mostro a cui essa [la coda] appartiene (r. 113)?


3 Alla fine della novella Belluca è un uomo completamente nuovo, che cambia drasticamente esistenza, o rimane almeno in superficie quello di prima?

ANALIZZARE

4 Nel testo si possono trovare precisi riferimenti al gergo medico e a quello impiegatizio: individuali.


5 Nel gioco delle voci narranti quale personaggio traccia l’affresco della vita privata di Belluca?


6 Nella novella sono riportate le parole farneticanti del presunto folle; rintraccia almeno due o tre espressioni tratte dagli sfoghi visionari di Belluca.

INTERPRETARE

7 Spiega perché, venuti a conoscenza della vita privata di Belluca, il suo atto di ribellione non possa più essere giudicato nei termini di una malattia mentale.

Produrre

8 Scrivere per esporre. In Italia i manicomi non esistono più: sono stati chiusi grazie alla legge 180 del 1978, detta “Legge Basaglia”, dal nome del medico psichiatra che ne fu il promotore. Fai una breve ricerca su questa legge e sulla sua importanza in un testo espositivo di circa 30 righe.


9 Scrivere per raccontare. Il fischio di un treno nel silenzio della notte rappresenta, in questa novella, una sorta di magico accesso a un mondo dimenticato: l’evento minimo che manda in crisi un’intera esistenza. È capitato anche a te di notare una sproporzione tra la banalità di un fatto accaduto e le conseguenze che, a posteriori, ne hanno modificato il valore? Scrivi un testo di circa 30 righe.

Dibattito in classe

10 Alcune persone, come Belluca, si rifugiano nella fantasia e nell’immaginazione per sfuggire alla realtà quotidiana: è un atteggiamento che condividi? Quali rischi può avere? Confrontati con i compagni.

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi