Finestra sul contemporaneo - Verga & Beppe Fenoglio, L’idillio mancato di due autori disincantati

Finestra sul CONTEMPORANEO

Verga & Beppe Fenoglio

L’idillio mancato di due autori disincantati

La lezione antiretorica di Verga

Viene spontaneo accostare a Verga tutte le rappresentazioni del mondo contadino caratterizzato dalla miseria, chiuso in un fatalistico immobilismo ma a un certo punto corroso dall’improvviso irrompere della Storia a cui è sempre stato estraneo. La durezza della lotta per la vita, la spietatezza della legge economica, il bisogno di sopravvivenza o di affermazione che infierisce sul nucleo degli affetti familiari, la povertà e la sofferenza che inaridiscono i sentimenti e induriscono gli animi: ogni volta che la letteratura italiana del Novecento ha messo in scena questi aspetti e lo ha fatto senza indulgere alla retorica, al compiacimento paternalistico o peggio al populismo (sempre in agguato, quest’ultimo, quando gli scrittori si cimentano con la descrizione degli umili), la critica ha parlato di una “funzione Verga”, di una presenza cioè affiorante o addirittura condizionante specie nei periodi di crisi collettiva, di disagio sociale ed economico. In effetti, non è un caso che le discendenze letterarie verghiane maturino in epoche di tensione, a riprova della capacità dei romanzi e delle novelle dell’autore siciliano di superare, con una proposta contenutistica e formale di grande modernità, i confini cronologici o localistici a cui pure per molto tempo la sua produzione è stata confinata

Il Neorealismo e il desiderio di raccontare

La lezione verghiana torna attuale soprattutto all’indomani della Seconda guerra mondiale, nel clima storico-culturale dominato dal cosiddetto Neorealismo, quando la vita dei ceti popolari, segnata da dolore ma anche da nuove speranze, diviene oggetto dell’attenzione degli intellettuali, degli scrittori ma anche dei registi cinematografici. Un’intera generazione di artisti sente l’impulso di raccontare aderendo alla realtà e descrivere storie vissute, saldando letteratura e documento, narrazione e denuncia. Scriverà anni dopo Italo Calvino: «L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua».

Il pessimismo di Fenoglio

Alla stagione del Neorealismo possiamo connettere anche l’esperienza letteraria di Beppe Fenoglio, che pure per molti versi costituisce un episodio a sé: la sua esistenza di scrittore appartato e quasi chiuso in una solitaria dimensione provinciale e la sua concezione della letteratura, lontana da ogni intento di mera denuncia sociale o di contingente impegno ideologico, lo rendono un caso del tutto originale nell’ambito della nostra letteratura novecentesca. Nella sua opera non troviamo infatti eroi “positivi”, personaggi che si immolano per una fede politica vissuta in modo disinteressato né tanto meno una rappresentazione oleografica della lotta partigiana, che al contrario viene descritta con disincanto come un’esperienza non priva di macchie e contraddizioni. Lo avvicinano a Verga il rifiuto di ogni forma di sentimentalismo umanitario e la visione pessimistica dell’esistenza, descritta con la durezza disperata di chi non vede alternative a un destino di ineluttabile sofferenza, da sopportare però con dignità e con un’etica istintiva che rifiuta ogni vittimismo.

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Il paesaggio che schiaccia

Fenoglio rappresenta, infatti, nella sua concretezza quotidiana, la violenza che domina la vita degli uomini: sia la violenza dell’ambiente naturale e sociale che condanna il popolo semplice dei contadini e della gente più umile, sia la violenza che l’uomo esercita sul prossimo nelle pagine più dolorose della Storia, come quella di una tragica guerra fratricida.

Anche l’aspro paesaggio delle Langhe sembra suggerire il destino di sofferenza che si abbatte sugli individui, al di là di ogni contingenza storica (anche in questo si coglie un riverbero dell’esperienza verghiana): nuvole, nebbia, vento, fango, soprattutto una pioggia biblica e incessante costituiscono, in un certo qual modo, le metafore naturali di un fato inesorabile da cui non è lecito attendersi altro che la brutalità del male.

Partigiani e povera gente

Nato ad Alba, in Piemonte, nel 1922, Beppe Fenoglio matura presto una grande passione per la letteratura, specie quella anglosassone; inoltre, grazie all’influenza di alcuni insegnanti (tra questi, il filosofo Pietro Chiodi), apprende i valori che dopo il 1943 lo portano a unirsi ai reparti partigiani attivi sulle Langhe, le colline che circondano la sua città natale: in un primo momento si arruola con i “rossi” della Brigata Garibaldi, poi entra nelle formazioni badogliane (cioè fedeli al nuovo governo presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio), dette “azzurre” dal colore del fazzoletto portato al collo di chi vi faceva parte. Dopo la Liberazione, mette a frutto la conoscenza della lingua inglese lavorando come corrispondente con l’estero per un’azienda vinicola, ma contemporaneamente consacra i momenti liberi alla scrittura. Al 1952 risale la pubblicazione del primo libro, un volume di racconti dal titolo I ventitré giorni della città di Alba, ispirati alla guerra partigiana, di cui Fenoglio offre un quadro anticonformistico, a volte perfino burlesco, che suscita molte critiche negli ambienti di sinistra.

La stessa rappresentazione che mai cede alla retorica si coglie nei successivi due romanzi dedicati alla Resistenza, entrambi postumi (Fenoglio muore infatti a Torino, nel 1963, appena quarantunenne): Una questione privata e Il partigiano Johnny, quest’ultimo caratterizzato da un sorprendente impasto linguistico grazie alla presenza di frasi in inglese, forme dialettali e numerosi neologismi. Protagonista del libro è il giovane Johnny che, aggregatosi alle formazioni partigiane con l’impulso di diventare un eroe, prende progressivamente coscienza del carattere della guerra moderna: non più un’occasione per acquistare gloria, ma un evento drammatico nel quale gli individui si ritrovano soli, satelliti fragili di un cosmo di morte, svuotato di senso.

La vita contadina delle Langhe è invece l’oggetto privilegiato dell’altro filone della narrativa di Fenoglio: il romanzo La malora (1954), storia di due famiglie “langarole” impegnate, agli inizi del secolo, nella dura lotta per la sopravvivenza, e i racconti riuniti nel 1963 sotto il titolo Un giorno di fuoco portano sulla scena un’umanità violenta e passionale, immersa in un mondo sospeso e quasi fuori dal tempo. L’autore descrive i personaggi senza alcuna volontà di sublimarli: recuperando l’artificio verghiano della regressione, esprime il loro punto di vista immergendosi nelle vicende raccontate e utilizzando un linguaggio popolare per dar vita alla dura dimensione remota e primordiale in cui essi vivono.

Nel racconto che proponiamo, dal titolo La sposa bambina, ci troviamo nel Piemonte della prima metà del Novecento. La protagonista, Catinina, ha appena tredici anni: è una ragazzina che ama giocare a biglie fra i banchi del mercato, dove lavorano i suoi genitori. Un giorno la madre la chiama per annunciarle una novità destinata a spezzare la sua adolescenza e a cambiarle la vita.

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Catinina del Freddo era di quella razza che da noi si marchia1 col nome di mezzi

zingari2 perché mezza la loro vita la passano sotto l’ala del mercato.3

Proprio sotto l’ala si trovava, a tredici anni giusti, a giocare coi maschi a tocco

e spanna,4 quando sua madre le fece una chiamata straordinaria.5

5      «Lasciami solo più6 giocare queste due bilie!»7 le gridò Catinina, ma sua madre

fece la mossa di avventarsi8 e Catinina andò, con ben più di due bilie nella tasca

del grembiale.9

A casa c’era suo padre e sua sorella maggiore, tra i quali vennero a mettersi

lei e sua madre, e così tutt’insieme fronteggiavano un vecchio che Catinina conosceva

10    solo di vista, con baffi che gli coprivano la bocca e nei panni un cattivo odore

un po’ come quello dell’acciugaio.10 I suoi11 di Catinina stavano come sospesi davanti

al vecchio, e Catinina cominciò a dubitare che fosse venuto per farsi rendere

ad ogni costo del denaro imprestato e i suoi l’avessero chiamata perché il vecchio

la vedesse e li compatisse.

15    Invece il vecchio era venuto per chiedere la mano di Catinina per il suo nipote

che aveva diciotto anni e già un commercio12 suo proprio.

Sua madre si piegò e disse a Catinina: «Neh13 che sei contenta di sposare il

nipote di questo signore?»

Catinina scrollò le spalle e torse la testa. Sua madre la rimise in posizione:14

20    «Neh che sei contenta, Catinina? Ti faremo una bella veste nuova, se lo sposi».

Allora Catinina disse subito che lo sposava e vide il vecchio calar pesantemente

le palpebre sugli occhi.

«Però la veste me la fate rossa» aggiunse Catinina.

«Ma rossa non può andare in chiesa e per sposalizio.15 Perché ti faremo una

25    gran festa in chiesa. Avrai una veste bianca, oppure celeste».

A Catinina la gran festa in chiesa diceva poco o niente, quella veste non rossa

già le cambiava l’idea, per lo scoramento16 si lasciò piombare una mano in tasca

e fece suonare le bilie.

Allora la sorella maggiore disse che le avrebbero portato tanti confetti; a sentir

30    questo Catinina passò sopra alla veste non rossa e disse di sì su tutto. Anche se

quei confetti non finivano in bocca a lei.

Si sposarono alla vicaria di Murazzano,17 neanche un mese dopo. Lo sposo

dava alla vista18 meno anni dei suoi diciotto dichiarati, aveva una corona di pustole19

sulla fronte, più schiena che petto, e certi occhi grigi duretti.

35    Fecero al Leon d’Oro il pranzo di nozze, pagato dal vecchio e dopo vespro20

partirono. C’era tutto il paese a salutar Catinina, e perfino i signori ai loro davanzali.

Lo sposo, che era padrone di mula e carretto, aveva giusto da andare fino a

Savona a caricar stracci, che era il suo commercio, e ne approfittava per fare il viaggio

di nozze con Catinina.

40    Alla sposa venne da piangere quando, salita sul carretto, dominò di lassù tutta

quella gente che rideva, ma le levò quel groppo21 un cartoccio di mentini che le

offrì una donna anche lei della razza dei mezzi zingari.

Alla fine partirono, ma ancora a San Bernardo avevano il tormento di quei bastardini

che fino a ieri giocavano alle bilie con la sposa. Quantunque lo sposo non

45    tardasse a girare la frusta.22

Viaggiavano sulla pedaggera23 e ne avevano già ben macinata di ghiaia,24 e

Catinina non aveva ancora aperto la bocca se non per infilarci quei mentini uno

dopo succhiato l’altro, e lo sposo le sue quattro parole le aveva dette alla mula.

Ma passato Montezemolo25 lo sposo si voltò e le disse: «Voi adesso la smettete

50    di mangiare quei gommini verdi», e Catinina smise, ma principalmente per lo

stupore che lo sposo le aveva dato del voi.26

Veniva su la luna, e dopo un po’ fu un mostro di vicinanza, di rotondità

e giallore, navigava nel cielo caldo a filo del greppo della langa,27

come li volesse accompagnare fino in Liguria.

55    Catinina toccò il suo sposo e gli disse: «Guarda solo un momento

che luna».

Ma quello le si rivoltò e quasi le urlò: «Voi avete a darmi del voi,

come io lo do a voi!»

Catinina non rifiatò, molto più avanti disse semplicemente che

60    il listello di legno l’aveva tutta indolorita dietro, dopo ore che ci stava

seduta. E allora lui parlò con una voce buona, le disse che al ritorno

sarebbe stata più comoda, lui l’avrebbe aggiustata sugli stracci.28

Arrivarono a Savona verso mezzogiorno.

Lo sposo disse: «Quello lì davanti è il mare» che Catinina già ci aveva

65    affogati gli occhi.

«Che bestione» diceva Catinina del mare «che bestione!»

Tutte le volte che pascolava le pecore degli altri in qualche prato sotto la

strada del mare e sentiva d’un tratto sonagliere,29 si arrampicava sempre sull’orlo

della strada e da lì guardava venire, passare e lontanarsi i carrettieri e le loro bestie

70    in cammino verso il mare con grandi carichi di vino e di farine. Qualche volta

li vedeva anche al ritorno, coi carri adesso pieni di vetri di Carcare e di Altare e di

stoviglie d’Albisola,30 e si appostava per fissare i carrettieri negli occhi, se ritenevano31

l’immagine del mare.

Ora se lo stava godendo da due passi il mare, ma lo sposo le calò una mano

75    sulla spalla e si fece accompagnare a stallare la bestia.32 Ma poi le fece vedere un

po’ di porto e poi prendere un caffellatte con le paste di meliga.33 Dopodiché andarono

a trovare un parente di lui.

Questo parente stava dalla parte di Savona verso il monte e a Catinina rincresceva

il sangue del cuore34 distanziarsi dal mare fino a non avercene nemmeno

80    più una goccia sotto gli occhi.

Ce ne volle, ma alla fine trovarono quel parente. Era un uomo vecchiotto ma

ancora galante, e quando si vide alla porta i due ragazzi sposati fece subito venire

vino bianco e paste alla crema ed anche dei vicini, ridicoli come lui.

Mangiarono, bevettero e cantarono. Catinina in quel buonumore prese a snodarsi35

85    e a rider di gola e ad ammiccare come una donna fatta,36 e teneva bene

testa al parente galante ed ai suoi soci; lo sposo le era uscito di mente ed anche

dagli occhi, non lo vedeva, seduto immobile, che pativa a bocca stretta e col bicchiere

sempre pieno posato in terra fra i due piedi.

Quando si ritirarono per la notte in una stanza trovata dal parente, allora riempì

90    di schiaffi la faccia a Catinina. E nient’altro, tanto Catinina non era ancora

sviluppata.

Al mattino Catinina aveva per tutto il viso delle macchie gialle con un’ombra

di nero, lo sposo venne a sfiorargliele con le dita e poi scoppiò a piangere. Proprio

niente disse o fece Catinina per sollevarlo, gli disse solo che voleva tornare a Murazzano.

95    E sì che si sarebbe fermata un altro giorno tanto volentieri per via di quel

parente così ridicolo, ma ora sapeva cosa le costava il buonumore, e poi il mare

le diceva molto meno.

Lo sposo caricò in fretta i suoi stracci, la fece sedere sul molle e tornarono.

La mattina dopo, il panettiere di Murazzano, che si levava sempre il primo di

100 tutto il paese, uscito in strada a veder com’era il cielo di quel nuovo giorno, trovò

Catinina seduta sul selciato e con le spalle contro il muro tiepido del suo forno.

«Ma sei Catinina? Sei proprio Catinina. E cosa fai lì, a quest’ora della mattina?»

Lei gli scrollò le spalle.

«Cosa fai lì, Catinina? E non scrollarmi le spalle. Perché non sei col tuo uomo?»

105 «Me no di sicuro!»

«Perché te no?»

Allora Catinina alzò la voce. «Io non ci voglio più stare con quello là che mi

dà del voi!»

«Ma come non ci vuoi più stare? Invece devi stargli insieme, e per sempre.

110 È la legge».

«Che legge?»

«O Madonna bella e buona, la legge del matrimonio!»

Catinina scrollò un’altra volta le spalle, ma capiva anche lei che scrollar le spalle

non bastava più, e allora disse: «Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà

115 sempre del voi. E poi che casa mi ha preparata che io c’entrassi da sposa? Una

casa senza lume a petrolio e senza il poggiolo!»37

L’uomo sospirò, la fece entrare nel suo forno, disse piano al suo garzone: «Attento

che non scappi, ma non beneficiartene38 altrimenti il mestiere vai a impararlo

da un’altra parte» e uscì.

120 Quando tornò, c’era con lui l’uomo di Catinina. Col panettiere testimone, le

promise il lume a petrolio per subito e di farle il poggiolo, tempo sei mesi.

Catinina il lume a petrolio l’ebbe subito, e poi anche il poggiolo, ma dopo un

anno buono, che lei aveva già un bambino sulle braccia. Perché Catinina non era

la donna che per aver la grazia dei figli deve andarsi a sedere sulla santa pietra alla

125 Madonna del Deserto e pregare tanto.39

Questo primo figlio, dei nove che ne comprò40 nella sua stagione, l’addormentava

alla meglio in una cesta e poi subito correva sotto l’ala a giocare a tocco e

spanna con quei maschi di prima. Dopo un po’ il bambino si svegliava e strillava da

farsi saltare tutte le vene, finché una vicina si faceva41 sull’uscio e urlava a Catinina:

130 «O disgraziata, non senti la tua creatura che piange? Vieni a cunarlo,42

o mezza zingara!»

«Lasciatemi solo più giocare questa bilia!»

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La voce del narratore

In una nota al racconto, Fenoglio chiarì d’avere ascoltato questa storia dalla viva voce di un parente: molti tratti, in effetti, rimandano a una dimensione orale e locale. Non a caso, come si vede già nella prima frase (quella razza che da noi si marchia col nome di mezzi zingari!, rr. 1-2), il narratore conosce bene il mondo che rappresenta, anzi vi appartiene, come accade a chi racconta le novelle verghiane: anche lui, come i personaggi, fa ricorso a parole, modi di dire, giri sintattici tipici della zona e ricalcati sul dialetto (paste di meliga, r. 76; le rincresceva il sangue del cuore, rr. 78-79, e così via), badando più all’efficacia che all’eleganza.

Inoltre il narratore si guarda bene dal criticare o commentare la barbara usanza del matrimonio combinato, all’epoca normale, limitandosi a riferire gli eventi e assumendo spesso il punto di vista di Catinina. In questo modo può emergere l’ingenuità con cui la ragazza affronta le nozze con un estraneo: cresciuta nell’ambiente del mercato, del tutto inesperta, non si rende bene conto ciò che le accade intorno; né, d’altro canto, la famiglia intende spiegarle nulla. Basta la convinzione di aver fatto un buon affare, sistemandola con un venditore ambulante di stracci, brutto ma dal commercio già bene avviato. Catinina dovrà capire da sola, strada facendo.

La luna, il mare

Lasciato il paese, gli sposi viaggiano con un carro sul crinale delle colline. A un certo punto, a filo dell’orizzonte, si alza una luna meravigliosa: un mostro di vicinanza, di rotondità e giallore, navigava nel cielo caldo a filo del greppo della langa, come li volesse accompagnare fino in Liguria (rr. 52-54). Catinina se ne accorge e la indica al marito, ma questi non le bada e risponde in modo aggressivo. La distanza è sottolineata dall’uso del “voi”, con il quale pretende che gli si rivolga: Voi avete a darmi del voi, come io lo do a voi! (rr. 57-58). Quando poi giungono a Savona, lei si incanta nel vedere il mare, il bestione (r. 66) sul quale aveva tanto fantasticato fin da bambina, guardando i carretti carichi di merce che ne tornavano. Vengono in mente certi squarci paesaggistici dei Malavoglia, ma anche qui l’idillio dura poco: lo sposo le calò una mano sulla spalla e si fece accompagnare a stallare la bestia (rr. 74-75). La sua è la scontrosità di un ragazzo timido e immaturo, più che cattivo. Lo lasciano credere anche le brusche cortesie che riserva alla piccola moglie: un caffellatte con le paste di meliga (r. 76) e gli stracci sistemati per farla stare comoda sul carro al ritorno.

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La madre bambina

In conseguenza di un breve momento di allegria, al quale si abbandona in casa di parenti, Catinina deve subire una scarica di schiaffi dal marito, che la vuole schiva e supina. Al ritorno vorrebbe lasciarlo, ma deve sottostare alla legge del matrimonio (r. 112), che le chiarisce il fornaio di Murazzano. Si accontenta di un lume a petrolio e di un poggiolo (r. 121): di più, non può desiderare.

Un anno più tardi Catinina ha già dato alla luce il primo dei suoi nove figlioli. La società langarola non prevede altro ruolo per la donna: da sposa, è divenuta una madre bambina, per la quale il richiamo delle biglie continua a rimanere irresistibile. Proprio come nell’universo descritto da Verga, anche in quello di Fenoglio il destino non può essere modificato: l’unico modo per fronteggiarlo è resistervi con stoica sopportazione.

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi