T5 - La morte di Gesualdo (Mastro-don Gesualdo)

T5

La morte di Gesualdo

Mastro-don Gesualdo, IV, cap. 5

Riportiamo le pagine finali del romanzo. Gesualdo, nel palazzo ducale del genero, assiste impotente e rassegnato al disfacimento di tutto ciò che ha costruito. Abbandonato dai familiari, rifiutato dalla nobiltà, egli vorrebbe almeno stabilire un dialogo sincero con la figlia Isabella. Ma ciò non è possibile e la fine è straziante e spietata.

[...] Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio

col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l’antifona1 dell’alter ego. Gli mancava

l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al servitore

che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene

5      appena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in un quartierino al pian di

sopra, poche stanze che chiamavano la foresteria, dove Isabella andava a vederlo

ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole

e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere

davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso

10    occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che

a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto

pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio:

«Cos’hai?… dimmelo!… Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non

posso tradirti!».

15    Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado

anche della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso… accusando lo stomaco

peloso dei Trao,2 che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili!

Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che

gli si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i

20    giorni malinconici dietro l’invetriata,3 a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze,

nella corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e

coi piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere

e degli strambotti4 coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col

grembialone sino al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno

25    strofinaccio fra le mani ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di

mascalzoni ben rasi e ben pettinati che sembravano togliersi allora una maschera.

I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca

e le mani nelle tasche delle giacchette attillate, discorrendo di tanto in tanto

col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una fumatina, accennando

30    con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano passare dietro le invetriate

dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù

delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna. Don

Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani;

tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che

35    egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga,5 le belle terre che aveva covato cogli

occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte,

e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le

povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini

che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro. La

40    Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi

avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimé, povera roba! Chi

sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta,

col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano, fermavasi

appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo Sagramento,

45    le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a

capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato6 in mano, ritto dinanzi

alla sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla

striglia appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a

passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti.

50    Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda, dalle finestre,

dalle arcate del portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che fumava

e fiammeggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo

fosse abbandonato in mano a un’orda famelica, pagata apposta per scialarsela7

sino al tocco della campana che annunziava qualche visita – un’altra solennità

55    anche quella. – La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna ad aspettare

le visite come un’anima di purgatorio.8 Arrivava di tanto in tanto una carrozza

fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva appena il

tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla campana;9

delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto vestibolo, e

60    dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; proprio

della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il tempo

a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la sollecitudine del suo

antico mestiere,10 quel che erano costate le finestre scolpite, i pilastri massicci, gli

scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli

65    che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la semente,

come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto, sempre più affamati,

sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava le viscere. Quante

cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi di zappa,

quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi interi da

70    fabbricare… delle terre da seminare, a perdita di vista…11 E un esercito di mietitori

a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da intascare!…

Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano su

quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle

finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo

75    lungo le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare i solchi!… Oramai!…

oramai!…

Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città negli orecchi,

lo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente

dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte, per

80    non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, il

cambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per sbaglio,

avevano fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire.12 Dopo era

ricaduto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo

trovar rimedio a quella malattia scomunicata!13 tal quale come i medici ignoranti

85    del suo paese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’uno dopo l’altro, dei dottoroni

che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano

in anticamera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare

con un ragazzo o un contadino. Lo mostravano agli apprendisti come il zanni14

fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due code, facendo

90    la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appena, a fior di labbra, se il

povero diavolo si faceva lecito15 di voler sapere che malattia covava in corpo, quasi

egli non avesse che vederci, colla sua pelle!16 Gli avevano fatto comperare anch’essi

un’intera farmacia: dei rimedi che si contavano a gocce, come l’oro, degli unguenti

che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vive, dei veleni che

95    davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella bocca, dei bagni e

dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senza forza di muovere il capo, vedendo già

l’ombra della morte da per tutto.

«Signori miei, a che giuoco giuochiamo?», voleva dire. «Allora, se è sempre la

stessa musica, me ne torno al mio paese…».

100 Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo lasciavano sfogare, se pretendeva

di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d’essere

all’ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che

veniva ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra

di loro, voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una

105 parola di vita o di morte. Oppure gli facevano l’elemosina di una risposta che non

diceva niente, di un sorrisetto che significava addirittura «Arrivederci in Paradiso,

buon uomo!». C’erano persino di quelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero

offesi. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso

che facevano i medici, alle alzate di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col

110 genero, e al borbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si

tenne più. Un giorno che quei signori tornavano a ripetere la stessa pantomima,17

ne afferrò uno per la falda, prima d’andarsene.

«Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato, infine! Non sono un ragazzo.

Voglio sapere di che si tratta, giacché si giuoca sulla mia pelle!».

115 Colui invece cominciò a fare una scenata col duca, quasi gli si fosse mancato

di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarlo, e perché non

piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che gli dicevano

sottovoce:

«Compatitelo… Non conosce gli usi… È un uomo primitivo… nello stato di

120 natura…». Sicché il poveraccio dovette mandar giù tutto, e rivolgersi alla figliuola,

per sapere qualche cosa.

«Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?… È una malattia grave, di’?…».

E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, malgrado che tentasse di cacciarle

indietro, infuriò. Non voleva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi e

125 andarsene via da quella casa maledetta.

«Non dico per te… Hai fatto di tutto… Non mi manca nulla… Ma io non ci

sono avvezzo, vedi… Mi par di soffocare qui dentro…».

Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo diceva, al povero padre.

Sembrava che fossero in perfetto accordo, marito e moglie; discorrevano cortesemente

130 fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una mezz’oretta nel salottino

della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno ogni mattina, prima

della colazione; per i Morti, a Natale, per la festa di Santa Rosalia,18 e nella ricorrenza

del suo onomastico o dell’anniversario del loro matrimonio, le regalava dei gioielli,

che essa aveva fatto ammirare al babbo, in prova del bene che le voleva il marito.

135 «Ah, ah… capisco… dev’essere costata una bella somma!… Però non sei contenta…

si vede benissimo che non sei contenta…».

Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che

non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorché udiva

un passo all’improvviso, o suonava ad ora insolita la campana che annunziava il

140 duca; e dei pallori mortali, certi sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero.

Alcune volte l’aveva vista giungere correndo, pallida, tremante come una foglia,

balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai, aveva udito

un’agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la voce della

cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare spaventato

145 sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava anzi che le

sue domande l’infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casa, ciascuno

chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo, Isabella con la

buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappeti soffocavano

ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie, così tranquilli,

150 che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva freddo nella schiena.

Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il peggio di tutti

stava lui che aveva la morte sul collo. Quand’egli avrebbe chiuso gli occhi tutti gli

altri si sarebbero data pace, come egli stesso s’era data pace dopo la morte di suo

padre e di sua moglie. Ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Ne aveva data tanta

155 dell’acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata,19 tutti gli altri… un vero

fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna, era tutto opera sua; e intanto non

trovava riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi

e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva per far

andare la baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tenevano dietro l’uscio

160 a contargli i sospiri, insino al cuoco che gli preparava certe brode insipide che non

riusciva a mandar giù, ogni cosa l’attossicava;20 non digeriva più neanche i bocconi

prelibati, erano tanti chiodi nelle sue carni.

«Mi lasciano morir di fame, capisci!», lagnavasi colla figliuola, alle volte, cogli

occhi accesi dalla disperazione. – Non è per risparmiare… Sarà della roba buona…

165 Ma il mio stomaco non c’è avvezzo… Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli

occhi dove son nato!».

[…]


[Gesualdo, sentendo la fine vicina, vuole stilare il testamento. Poi ha un ultimo dialogo con

la figlia.]

Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno,

sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato.

Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano

170 scarna, e trinciò una croce in aria,21 per significare ch’era finita, e perdonava a tutti,22

prima d’andarsene.

«Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…».

Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle

mani erranti23 che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente,

175 senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:

«Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente». Poi

gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…».24

La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e

qualcosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto…

180 come ho potuto… Quando uno fa quello che può…».25

Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fisso per vedere se

voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei

capelli fini.

«Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…».26

185 Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza

e di passione, quei sospetti odiosi27 che dei bricconi, nelle questioni d’interessi,

avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli

indietro, e cambiò discorso.

«Parliamo dei nostri affari.28 Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…».

190 Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva

che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per

chiudere gli occhi.

«Ma no, parliamone!», insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da

perdere adesso». Il viso gli si andava oscurando,29 il rancore antico gli corruscava30

195 negli occhi. «Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo

marito…».

Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto,

cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori31 che gli avevano dati, lei e suo marito,

con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla:

200 «Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare

delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire!». Spiegava quel che gli erano costati,

quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava

come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i

pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o

205 cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue

in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: «Mangalavite, sai… la conosci anche

tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme32 di terreni, tutti alberati!… ti

rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca,

negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze!33 E la Salonia…

210 dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno

che vi lasciò le ossa!…».

Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.

«Basta», disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa… Senti…».

La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe

215 fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino

che esitava e cercava le parole.

«Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato34 a

delle persone35 verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te

che sei ricca… Farai conto di essere36 una regalìa che tuo padre ti domanda… in

220 punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…».

«Ah, babbo, babbo!… che parole!», singhiozzò Isabella.

«Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…».

Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se

l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel

225 segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui

quell’altro segreto,37 quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola.

E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle

il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse

indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi

230 in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta,

com’essa era Trao,38 diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia,39 e non

aggiunse altro.

«Ora fammi chiamare un prete», terminò con un altro tono di voce.40 «Voglio

fare i miei conti con Domeneddio».

235 Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio.41

Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte,

peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza

accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei

capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella

240 canzone42 che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.

«Mia figlia!», borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la

sua. «Chiamatemi mia figlia!».

«Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla», rispose il domestico, e tornò a coricarsi.

Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva

245 peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi

udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come

uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava

la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando43

delle bestemmie e delle parolacce.

250 «Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo44 adesso? Vuol passar mattana!45 Che cerca?».

Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse46

il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di

tornare a dormire gli andò via a un tratto.

«Ohi! ohi! Che facciamo adesso?», balbettò grattandosi il capo.

255 Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio

aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa

sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso

da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre

fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava

260 a imbiancare.47 Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei

cavalli, e picchiare di striglie48 sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò

a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto,49 spalancò le vetrate, e s’affacciò a

prendere una boccata d’aria, fumando.

Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la 

265 finestra.

«Mattinata, eh, don Leopoldo?».

«E nottata pure!», rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo

regalo!».

L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece

270 segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.

«Ah… così… alla chetichella?…», osservò il portinaio che strascicava la scopa

e le ciabatte per l’androne.

Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a

un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in

275 bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne

anche lei a far capolino nella stanza accanto.

«Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E

neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…».

«Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… Ha cessato di penare».

280 «Ed io pure», soggiunse don Leopoldo.

Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che faceva

della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. «Pazienza

servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla».

«Si vede com’era nato…»,50 osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate

285 che mani!».

«Già, son le mani che hanno fatto la pappa!…51 Vedete cos’è nascer fortunati…

Intanto vi muore nella battista52 come un principe!…».

«Allora», disse il portinaio, «devo andare a chiudere il portone?».53

«Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della

290 signora duchessa».

 >> pagina 197 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Come avviene nella novella La roba ( T4, p. 183), anche in Mastro-don Gesualdo la morte rivela il fallimento della vicenda umana del protagonista: accolto malato e stanco nella dimora della figlia Isabella, egli trascorre gli ultimi giorni come un forestiero (r. 9), oggetto delle ipocrite attenzioni del genero e della fredda indifferenza della figlia, che non gli perdona di averla costretta a un matrimonio infelice al solo fine di garantirsi un titolo nobiliare prestigioso. Perfino i servi lo guardano con disprezzo, invidiosi della scalata sociale realizzata da un uomo dalle origini umili come le loro.

Proprio alla fine dell’esistenza, Gesualdo capisce l’inutilità della ricchezza, unica ragione della sua vita operosa. Ora che la solitudine in cui è immerso non è più riscattata dal lavoro e dalla lotta, che lo avevano tenuto impegnato celandogli l’ostilità del mondo, capisce che la roba sta per sfuggirgli e sarà presto destinata alla rovina. Le terre abbandonate, lo spreco delle risorse, i lussi della casa gli fanno comprendere di essere uno sconfitto sul piano degli affetti e su quello della roba che, per una sorta di spietata legge del contrappasso, sarà dissipata dal genero scialacquatore.

La scalata sociale di Gesualdo si è trasformata in un fallimento umano doloroso e in un isolamento che è la conseguenza della rottura del patto di solidarietà con la classe sociale da cui proviene.

Anch’egli, come Mazzarò, ha costruito, mantenuto e accresciuto il proprio patrimonio grazie alla fatica e al sacrificio. Tuttavia, Gesualdo si concede un’infrazione che si rivelerà fatale: il matrimonio. Per quanto tale decisione sia sempre dettata da motivi di convenienza, essa è di fatto la causa di tutti i suoi mali, economici e affettivi.

La sconfitta del personaggio è però celebrata nei suoi ultimi momenti di vita. Invano Gesualdo si era appigliato all’idea che la roba potesse sopravvivergli: a sancire la sua resa definitiva è la coscienza che ciò non potrà accadere. Il pensiero rivolto ai figli illegittimi avuti prima del matrimonio, le persone verso cui ha degli obblighi (r. 218), è destinato a cadere nel vuoto. Isabella, a cui chiede di lasciar loro qualcosa del patrimonio che sta per ereditare, non è capace infatti di entrare davvero in contatto con lui, e i suoi occhi, dopo una breve, inespressa commozione, tornano indifferenti e insensibili: la distanza che separa padre e figlia si traduce così nello sdegnoso ritrarsi di Isabella, nella sua indisponibilità alla confidenza e nel riapparire della ruga ostinata dei Trao fra le ciglia (r. 229), di fronte alla quale a Gesualdo non resta che rinunciare a ogni tentativo di comunicazione.

In quegli occhi e nello sconforto senza lacrime di Gesualdo, rassegnato con dignità alla sconfitta (Allentò le braccia, e non aggiunse altro, rr. 231-232), Verga proietta il proprio radicale pessimismo sulle possibilità di salvezza dell’uomo, costretto a vivere in un mondo senza ideali, schiavo della sola morale utilitaristica e privato di vera affettività.

 >> pagina 198 

Le scelte stilistiche

All’inizio del passo è lo stesso protagonista a scrutare la realtà del palazzo in cui è ospitato: la condizione di escluso in cui si trova gli permette di valutare la vacuità e l’insensatezza che vi regna. Anche durante il colloquio con Isabella, a essere registrati sono soprattutto gli stati d’animo di Gesualdo: guardandola fisso per vedere se voleva lei pure (rr. 181-182); La guardò fissamente (r. 214); E mentre la guardava (r. 225).

Le fasi finali dell’agonia del protagonista vengono descritte attraverso il punto di vista del domestico con una serie di espressioni che sottintendono il suo cinismo e il disprezzo per il moribondo (capricci, r. 239; canzone, r. 240; contrabbasso, r. 245; uzzolo e mattana, r. 250: gli ultimi due termini sono toscanismi propri del linguaggio di scuderia e riferiti ai cavalli imbizzarriti). Alla sua voce si unisce quella degli altri servitori, che con straniante crudeltà descrivono le atroci sofferenze del padrone come fossero capricci di un villano bizzoso, fumano come se nulla fosse accanto al cadavere e non evitano neppure commenti sulle ruvide mani che hanno fatto la pappa (r. 286). Al lettore non resta che avvertire lo sconsolato pessimismo di Verga dinanzi alla glaciale imperturbabilità della folla crudele dei domestici. Eppure, proprio in conclusione, il narratore si concede una deroga all’impersonalità: l’epiteto poveraccio che riserva al morente alla r. 120 tradisce un sentimento di pietà per il tragico fallimento di un uomo ingannato dal miraggio della ricchezza e della potenza e dalla tragica illusione di governare il destino.

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Qual è il responso dei medici riuniti a consulto sulla malattia di Gesualdo?


2 Che cosa confida il protagonista alla figlia in punto di morte?


3 Che cosa intuisce Gesualdo quando guarda negli occhi la figlia?

ANALIZZARE

4 Elenca tutte le manifestazioni di lusso a causa delle quali il patrimonio di Gesualdo andrà in rovina.


5 Trova nel testo le espressioni che denunciano il fastidio o l’invidia dei servitori nei confronti del protagonista.


6 Quali artifici vengono adottati dal narratore nelle battute di dialogo per rendere l’immediatezza del parlato?

INTERPRETARE

7 Perché Gesualdo prova irritazione per l’atteggiamento della servitù del palazzo?


8 Il colloquio tra il protagonista e la figlia è costellato di punti di sospensione: perché?


9 Nella sofferenza provata da Gesualdo dinanzi allo sperpero del genero si può cogliere la differenza tra due mentalità, espressione di due diverse classi sociali. Sei d’accordo con quest’affermazione? Motiva la tua risposta.


10 Come reagisce Gesualdo davanti alla morte ormai imminente?

Produrre

11 Scrivere per argomentare. Dopo aver letto la novella La roba ( T4, p. 184) e il brano del romanzo  T5, p. 190), metti in luce in un breve testo argomentativo di circa 30 righe le differenze esistenti nel rapporto che i due protagonisti intrattengono con la roba.


12 Scrivere per esporre. Ritieni che oggi la ricchezza e l’ambizione di scalare la società siano obiettivi diffusi presso i tuoi contemporanei? Quale peso ha, a tuo giudizio, l’appartenenza a una classe sociale nelle dinamiche e nelle relazioni tra gli individui? Rifletti su questi problemi esponendo il tuo punto di vista in un testo di circa 2 facciate di foglio protocollo.

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I grandi temi di Verga

1 Il Verismo e le sue tecniche

la rappresentazione dei fatti senza giudizio da parte dell’autore

l’artificio della “regressione”

il protagonista corale

l’uso del discorso indiretto libero

la tecnica dello straniamento

la rivoluzione linguistica: resa antiletteraria del parlato

2 La rappresentazione degli umili

la descrizione di ambienti arcaici e selvaggi

la ripresa delle usanze e delle strutture culturali tradizionali

la descrizione delle dure condizioni di vita del mondo degli umili senza partecipazione emotiva né compassione da parte del narratore

3 Le passioni di un mondo arcaico

le motivazioni irrazionali delle azioni

il destino tragico degli esclusi dalla comunità

la ribellione senza riscatto

la persistenza, nella prima produzione verista, di elementi romantici

4 La concezione della vita

il dolore connaturato all’esistenza

l’«ideale dell’ostrica»: chi abbandona le proprie origini o le rifiuta soccombe

la sfiducia nel progresso che travolge i più deboli

la cupa visione del mondo

la logica economica che impedisce i rapporti umani e la comunicazione vera

il culto della «roba»

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi