4 - La concezione della vita

4 La concezione della vita

L’«ideale dell’ostrica» La lucida analisi della realtà che Verga compie nella sua opera può, sia pure indirettamente, servire da denuncia della tragica sconfitta che incombe sull’umanità, nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. Lo scrittore non intende però suggerire proposte consolatorie, possibili illusioni e vie di fuga capaci di offrire alternative alla vita di oggi o di domani: non vi è alcuna possibilità di riscatto o di emancipazione, perché il dolore non deriva dalle ingiustizie o dal corso della Storia, ma è connaturato all’esistenza e riguarda indistintamente tutti gli uomini e tutte le classi sociali.

L’autore anzi esprime una condanna nei confronti di chi tenta di mutare la propria condizione sociale e di affrancarsi dalle proprie origini. L’unica risposta possibile alla situazione di sofferenza è di natura difensiva: nella novella Fantasticheria, per esempio, Verga esalta il «tenace attaccamento di quella povera gente» alla propria terra, ai propri costumi, alla propria mentalità. L’orizzonte dei vinti e dei diseredati sarà sempre chiuso «fra due zolle», al di fuori delle quali ci sono soltanto la rovina e la perdizione: «Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui». È qui enunciato il cosiddetto «ideale dell’ostrica»: come questa, staccata dal proprio scoglio, è destinata a morire, così chi abbandona, rifiuta o tenta di emanciparsi dalle proprie radici è condannato fatalmente a soccombere.

Le devastanti conseguenze del progresso Accettando la teoria darwiniana della “lotta per la vita”, Verga non ripone alcuna fiducia nel progresso, che anzi è visto come una macchina mostruosa, una «fiumana» inarrestabile che travolge i più deboli: per sopravvivere al vortice evolutivo, non resta che ancorarsi alla condizione che si è avuta in sorte, difendendosi da ogni interferenza esterna e da ogni tentazione di alleviare il proprio stato. Il destino che si abbatte sugli uomini è infatti invincibile e immutabile. Inutile è contrapporvisi, confidando in un riscatto impossibile, che sia quello promesso dalla Provvidenza divina, oppure quello garantito dai cantori positivisti della scienza, o ancora quello auspicato dai socialisti mediante la lotta di classe. Si può solamente tentare di mitigarne i colpi e le avversità appigliandosi al lavoro, alla famiglia e ai primitivi codici di saggezza e di sopportazione: una mesta ma dignitosa rassegnazione rappresenta per Verga l’unico antidoto morale al dolore dell’esistenza e all’urto spietato della civiltà.
Il pessimismo verghiano Alla concezione positiva della Storia di tradizione illuministica e liberale, Verga oppone dunque «la visione di un caotico e ingovernabile divenire del mondo, che trascende la volontà degli uomini ed è indifferente alla loro sorte, rievocando la severa immagine leo­pardiana di natura» (Martinelli). Di questa sorte, Verga vuole essere il testimone: il suo ateismo materialista lo porta a guardare alla realtà senza concepire per l’individuo alcuna felicità, ma soltanto un orizzonte dominato da una grandiosa e oscura fatalità. Scopo ultimo della sua opera è mostrare il carattere ineluttabile dell’esperienza umana, l’impari lotta che si è costretti a ingaggiare per sopravvivere ai meccanismi della Storia e della natura.
Il motivo della «roba» Questa cupa visione del mondo si accentua sempre più, durante la sua parabola di uomo e di scrittore. Con Mastro-don Gesualdo, soprattutto, assistiamo a una crescente disumanizzazione e all’affermarsi di temi quali l’alienazione e l’incomunicabilità. Travolto ogni sentimento di appartenenza e cancellati i vincoli di umanità e solidarietà, il mondo verghiano finisce per essere guidato solo da una vorace logica economica, accettata da tutti senza neppure il tentativo di contrastarla. I valori borghesi di profitto e benessere hanno ormai turbato e corrotto gli equilibri di una società secolare e immobile, conducendola alla disgregazione. È un processo senza ritorno, come senza ritorno è la vicenda del manovale Gesualdo fattosi – per sua disgrazia – borghese.

Nessuno riesce a sottrarsi al culto della «roba», la proprietà dei beni materiali diventa aspirazione di vita, unico, ossessivo fine dell’esistenza umana. Chi accumula proprietà si illude di avere maggiori probabilità di sopravvivere, mettendosi al riparo dalle insidie di una società in cui ognuno può “farcela” soltanto a scapito degli altri. Al tempo stesso, i beni diventano parte integrante della persona, tanto che chi li possiede non è in grado di distaccarsene (come vediamo nel tragicomico epilogo della vita di Mazzarò, protagonista della novella La roba).

 >> pagina 184 

L’ambizione rovinosa Il personaggio di Gesualdo rappresenta proprio una vittima del progresso e delle spietate leggi del determinismo verghiano: ancora ingenuamente fiducioso di poter far convivere «roba» e affetti, finisce per soggiacere alla legge crudele che vede l’una nemica degli altri.

D’altro canto, per quanto arricchitosi, egli resta e resterà per sempre un “villano”, che ha faticato tanto per entrare nel mondo dei “signori” solo per scoprire che la morale economica che vi regna (e a cui si è dovuto adeguare) lo ha condotto alla solitudine, all’inaridimento e all’incomunicabilità con i suoi cari. Il cancro che lo porta alla tomba è, in questo senso, metaforicamente lo sfacelo della sua «roba» destinata a essere sperperata, in un connubio tragico e significativo: perdere la «roba» è, in fondo, come perdere la vita.

T4

La roba

Novelle rusticane

Il motivo verghiano della «roba» è perfettamente esemplificato dalla novella omonima, pubblicata inizialmente nel dicembre del 1880 nella “Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere e arti” e poi compresa nella raccolta Novelle rusticane. Il protagonista è Mazzarò, un uomo che, da bracciante sfruttato, si appropria a poco a poco delle terre e dei beni del suo padrone, diventando ricco.

Il viandante1 che andava lungo il Biviere di Lentini,2 steso là come un pezzo di mare

morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte,

e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello,3

se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco

5      dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga4 suonano tristamente nell’immensa

campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere5 canta la

sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: «Qui di

chi è?», sentiva rispondersi: «Di Mazzarò». E passando vicino a una fattoria grande

quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate

10    all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi6 per vedere

chi passava: «E qui?». «Di Mazzarò». E cammina e cammina, mentre la malaria vi

pesava sugli occhi,7 e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per

una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli

pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo,8 accanto

15    al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: «Di

Mazzarò». Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai,

e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il

sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano

le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese,9

20    e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano

nei pascoli lontani della Canziria,10 sulla pendice brulla, le immense macchie

biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle

gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto

nella valle. «Tutta roba di Mazzarò». Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che

25    tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col

volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo11 nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse

disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia.

– Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un

baiocco,12 a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come

30    facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco

come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante,13 quell’uomo.

Infatti,14 colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove

prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua,

col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano

35    di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza,

e gli parlavano col berretto15 in mano. Né per questo egli era montato in

superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che

eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore;16 ma egli portava ancora il

berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era

40    anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di

seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga

– dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura.

Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della

terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava

45    meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio,

ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande

come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i

contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava

la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello,17 nelle

50    calde giornate della messe.18 Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco,

e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed

alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del

giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua

madre, la quale gli era costata anche 12 tarì,19 quando aveva dovuto farla portare

55    al camposanto.

Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando

andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel

che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena

curva 14 ore, col soprastante20 a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi

60    un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita

che non fosse stato impiegato a fare della roba;21 e adesso i suoi aratri erano numerosi

come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli,

che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel

fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare,

65    come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia

accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare,

nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla messe poi i mietitori di

Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente,

col biscotto22 alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e

70    le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano

nelle madie23 larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro

la fila dei suoi mietitori, col nerbo24 in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e

badava a ripetere: «Curviamoci, ragazzi!». Egli era tutto l’anno colle mani in tasca

a spendere, e per la sola fondiaria25 il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva

75    la febbre, ogni volta.

Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di

grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire26 tutto; e ogni volta che

Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di

12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia27 per la sua roba, e andava

80    a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re,28 o gli altri; e alle

fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade,

che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda,29 alle volte

dovevano mutar strada, e cedere il passo.

Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire

85    la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi

dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi

stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto

quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non

aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la

90    roba.

Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la

roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima

era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi

campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte

95    quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi

campieri30 dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al

minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non

si faceva sorprendere colle mani nel sacco. «Costui vuol essere rubato per forza!»,

diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di

100 dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: «Chi è minchione se ne stia

a casa», «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe

fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la

vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla

mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi

105 covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.

In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del

barone; e costui uscì31 prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e

poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non

firmasse delle carte bollate,32 e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce.33 Al

110 barone non rimase altro che lo scudo di pietra34 ch’era prima sul portone, ed era

la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: «Questo solo, di

tutta la mia roba, non fa per te». Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e

non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu,35 ma non gli

dava più calci nel di dietro.

115 «Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò!», diceva la gente;

e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri,

quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella

testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina

del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava

120 a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma

per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca.

Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale

non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa,

sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra,

125 e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava36 – per

un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri

che venivano a lagnarsi delle malannate,37 i debitori che mandavano in processione

le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non

metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da

130 mangiare.

«Lo vedete quel che mangio io?», rispondeva lui, «pane e cipolla! e sì che ho

i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba». E se gli domandavano

un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: «Che, vi pare che l’abbia

rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?». E se

135 gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva.

E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano

per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla

sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba,

e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra;

140 perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re,

ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua.

Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva

lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata

la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora,

145 dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare

le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano

di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia,

e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino

stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: «Guardate

150 chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!».

Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima,

uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi

di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: «Roba mia, vientene con me!».

 >> pagina 188 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Il protagonista della Roba, Mazzarò, vive esclusivamente per i beni materiali, considerati alla stregua di amanti fedeli. Privo di altri affetti e sentimenti, egli trova in essi una sorta di religioso risarcimento della propria solitudine. Senza moglie né figli, non conosce la pietà per il prossimo né l’amore filiale; la sua esistenza è simile a quella di un asceta che non si concede nulla.

Consacratosi a un destino irrevocabile (Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba, rr. 89-90), la sua scelta è premiata dal successo (Ed anche la roba era fatta per lui, r. 91), giusto riconoscimento alla sua dedizione, alla sua energia infaticabile. Alla stregua di un eroe epico o di un cavaliere medievale, Mazzarò ignora infatti le tentazioni e non abbandona mai la vita “povera”, logorando i suoi stivali (rr. 86-87), andando in giro, sotto il sole e sotto la pioggia (r. 86), ossessionato da un unico pensiero: accumulare. In questa spasmodica ricerca, egli non si pone limiti, sempre più ambizioso (voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, r. 140).

Quando si avvicina la morte, però, il destino di Mazzarò si capovolge: da vincitore egli si trasforma in vinto. Invidioso della gioventù altrui, seduto malinconicamente col mento nelle mani (r. 145) a guardare le sue terre, egli prorompe in un urlo forsennato («Roba mia, vientene con me!», rr. 153-154) e, con un gesto estremo, al tempo stesso tragico e comico, ammazza a colpi di bastone le sue bestie. Il suo atteggiamento quasi di devozione religiosa verso l’accumulazione dei possedimenti terrieri, forse ritenuti un mezzo per tendere all’eternità, si scontra con il “tradimento” della morte, la quale separa la soggettività del suo io, destinato ormai alla fine, e l’oggettività della roba, che gli sopravvive, indifferente a lui e alla sua logica esistenziale.

Le scelte stilistiche

A differenza dell’“oppresso” Rosso Malpelo, che la società condanna alla marginalità, Mazzarò è un “oppressore”, ma eroe di un mondo che ne riconosce i valori e per questo lo rispetta e lo ammira. Ciò spiega perché Verga scelga, per raccontarne le imprese, la voce di un narratore complice, che aderisce alla sua mentalità e alla sua visione della vita. A eccezione dell’incipit (in cui il punto di vista è quello di un viandante che si presuppone colto) e del breve intermezzo dell’umile lettighiere (r. 6), che non comprende le scelte di Mazzarò, il racconto sembra ispirato direttamente dalle convinzioni del protagonista. Così assistiamo, in un certo qual modo, alla sua celebrazione: dall’anonimo narratore popolare che con stupita ammirazione descrive come normali, anzi come lodevoli, i metodi del protagonista, non giungerà mai una parola di censura della sua ingordigia economica, mai un dubbio sul suo comportamento, mai il sospetto che la folle rincorsa del denaro lo abbia portato a recidere ogni legame con gli uomini e anche con sé stesso. Perfino la considerazione della morte della madre come fardello economico (Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto, rr. 53-55) viene ritenuta del tutto normale: ma in realtà è evidente che spingendo alle estreme conseguenze la legittimazione delle azioni e della mentalità del protagonista, l’autore induce in chi legge una presa di distanza o anche un moto di nauseata indignazione.

Il modo in cui il narratore descrive le vicende del protagonista contiene perfino un che di leggendario o di fiabesco, a cui collaborano in modo decisivo accumulazioni* e iterazioni* (E cammina e cammina, r. 11) nonché l’uso delle iperboli*, spia evidente della trasfigurazione mitica di Mazzarò operata dall’immaginario popolare (Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, rr. 24-25). È il lettore a dover cogliere, dietro alla straniante impersonalità di Verga, il dramma di un uomo che, per dedicare alla roba la propria vita, finisce per essere travolto dall’inutilità dei suoi sforzi, nel delirante, finale abbraccio con tutto ciò che ha conquistato.

 >> pagina 189 

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 La novella può essere divisa in tre sequenze fondamentali: la descrizione della roba di Mazzarò; la sua storia; la conclusione della vicenda. Individua nel testo queste diverse parti, quindi riassumine il contenuto.

ANALIZZARE

2 Fai l’analisi del periodo della frase iniziale della novella (rr. 1-8).


3 Nella Roba, per accentuare il tono epico della narrazione, Verga ricorre a una serie di iperboli. Trovale nel testo.


4 Individua le espressioni popolari presenti nella novella.


5 La presentazione iniziale di Mazzarò è affidata al punto di vista di un viandante sconosciuto, che osserva la proprietà del protagonista. Da quali elementi possiamo supporre il suo alto livello culturale?

interpretare

6 Il testo è ricco di similitudini che attingono al mondo naturale (folto come un bosco, r. 16; come un fiume, r. 137) e animale (ricco come un maiale, rr. 30-31; numerosi come le lunghe file dei corvi, rr. 61-62). Perché, secondo te?

Produrre

7 Scrivere per confrontare. Un altro famoso avaro è Arpagone, immortalato dal commediografo francese Molière (1622-1673) nella commedia L’avaro (1668). Ricerca e leggi questo testo, individua analogie e differenze con Mazzarò in un testo descrittivo di circa 20 righe.


8 Scrivere per argomentare. Mazzarò può essere considerato un perfetto esemplare di avaro. In che cosa consiste per te l’avarizia? Quando e perché nella società di oggi una persona può essere considerata avara? Scrivi al riguardo un testo espositivo e argomentativo di circa 30 righe.

Dibattito in classe

9 Una delle caratteristiche peculiari di Mazzarò è che egli non ambisce ad accumulare genericamente ricchezza, ma, in modo più specifico, “roba”, oggetti materiali, terreni e proprietà, prove tangibili della sua ascesa sociale ed economica. In che cosa Mazzarò è simile o diverso da coloro che, anche oggi, sono spinti da un irrefrenabile desiderio di denaro e potere? Discutine con i compagni.

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi