LETTURE critiche

LETTURE critiche

La forza dell’argomentazione e dello stile negli Scritti corsari

di Alfonso Berardinelli

Le feroci critiche a molti aspetti della società e della cultura del tempo contenute negli Scritti corsari costarono a Pasolini accuse di ostinazione passionale, irragionevolezza, schematismo ideologico. Eppure – sottolinea il critico Alfonso Berardinelli (n. 1943) – le sue analisi partivano sempre da elementi concreti, desunti dalla propria esperienza personale e da uno sguardo diretto, spesso di tipo semiologico, sulla real­tà dell’Italia di allora.

L’invisibile rivoluzione conformistica, l’«omologazione culturale», la «mutazione antropologica» degli italiani, di cui Pasolini parlava con tanto inspiegabile accanimento e sofferenza dal 1973 al 1975 (l’anno della sua morte), non erano affatto fenomeni invisibili. Era lui solo a vederli? Perché i suoi discorsi suonavano allora così inopportuni, irritanti, scandalosi? Anche gli interlocutori meno rozzi gli rimproveravano, nello stesso tempo e come sempre, l’ostinazione passionale e lo schematismo ideologico. Ciò che Pasolini diceva era insomma, in larga misura, risaputo. La sociologia e la teoria politica avevano già parlato. I critici dell’idea di progresso, della società di massa, della mercificazione totale, avevano già detto da tempo tutto ciò che c’era da dire. La stessa Nuova Sinistra non era forse nata da queste analisi? Che senso aveva fare ora gli apocalittici? Si trattava, anche per l’Italia, di una normale e prevedibile catastrofe dovuta al normale e prevedibile sviluppo capitalistico. Perché Pasolini si ostinava col suo caso personale? Rimpiangere il passato era assurdo (quando mai un ideologo, un politico, uno scienziato sociale osano rimpiangere qualcosa?). Tornare indietro era impossibile. Soffermarsi in modo così irragionevole sui «prezzi da pagare» per andare avanti era inopportuno e poco virile. La sola cosa era semmai organizzare una lotta rivoluzionaria contro il Potere e il Capitale divenuti ormai interamente multinazionali: o cercare di controllare e «civilizzare» la loro inarrestabile e tutto sommato positiva dinamica. Così, gli articoli che Pasolini scriveva sulle prime pagine del “Corriere della Sera” (allora diretto dall’innovatore Piero Ottone),1 giornale borghese e padronale e anti-operaio, non potevano che suscitare reazioni irritate, gesti di noncuranza, deplorazione e perfino disprezzo.

Soprattutto chi ricorda anche vagamente le polemiche giornalistiche di allora, a rileggere questi Scritti corsari può restare sbalordito. Non solo per l’intelligenza, per l’immaginazione sociologica di Pasolini, che sa ricavare una tale visione d’insieme da una base empirica limitata alla propria esperienza personale e occasionale (ma del resto da dove derivava tutto il sapere «sociologico» dei grandi romanzieri del passato, da Balzac e Dickens in poi, se non dalla loro capacità di vedere quello che avevano sotto gli occhi?). In nessun semiologo specializzato e professionale la semiologia, che Pasolini nomina con grande rispetto ma di cui fa un uso così discreto, ha fruttato tanto. Si resta sbalorditi soprattutto, direi, dall’inventività inesauribile del suo stile saggistico e polemico, dalla selvaggia energia e astuzia socratica della sua arte retorica e dialettica, della sua «psicagogia»:2 che sa far emergere con tanta chiarezza i pregiudizi intellettuali (di ceto, di casta), e spesso l’ottusità un po’ meschina e persecutoria dei suoi interlocutori. Che sembrano avere sempre torto: o, se hanno in parte ragione, la loro ragione risulta stridula e stizzosa, oltre che conoscitivamente inerte. Mentre Pasolini stava cercando di rivelare qualcosa di nuovo, loro non facevano che difendere nozioni acquisite.

Il fatto è che per Pasolini i concetti sociologici e politici diventavano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo. Finalmente, così, Pasolini trovava il modo di esprimere, di rappresentare e drammatizzare teoricamente e politicamente le sue angosce. Solo ora gli era possibile ritrovare uno spazio che sentiva perduto negli anni precedenti, e usare in modo diretto la propria ragione autobiografica per parlare in pubblico del destino presente e futuro della società italiana, della sua classe dirigente, della fine irreversibile e violenta di una storia secolare.

Ma l’evidenza fisica della sparizione di un mondo, che doveva essere ed era in effetti sotto gli occhi di tutti, sembrava risultare invisibile ai più. Nella descrizione sommaria, violentemente schematica di queste evidenze fisiche, Pasolini era unilaterale, ingiusto. A volte sembrava accecato dalle sue visioni. Era un’invincibile estraneità che faceva sembrare «tutte uguali» le facce dei nuovi giovani (come sembrano «tutte uguali» le facce di popoli lontani che non abbiamo ancora imparato a guardare, ad amare). Ma il senso dell’argomentazione era chiaro: ciò che rendeva indistinguibili un giovane fascista da un giovane anti-fascista, o una coppia di proletari da una coppia di borghesi, era la fine del fascismo e dell’antifascismo classici, la fine del vecchio proletariato e della vecchia borghesia. Era l’avvento (l’Avvento) di un nuovo modello umano e di un nuovo potere che cancellavano il precedente volto fisico e culturale dell’Italia, mutando radicalmente la base sociale e umana delle vecchie istituzioni. […]

Nonostante lo schematismo concettuale, Scritti corsari resta uno dei rari esempi in Italia di critica intellettuale radicale della società sviluppata. Se non può sostituire da solo una sociologia spregiudicata e ricca di descrizioni (peraltro sempre meno praticata dagli specialisti), è almeno in parte riuscito a salvare l’onore della nostra cultura letteraria, spesso così manieristica e di ristrette vedute. Ciò che anche qui colpisce in Pasolini è il colore livido e luttuoso delle sue constatazioni e dei suoi rifiuti, la tensione esasperata della sua razionalità, una disarmata mancanza di umori ironici e satirici. La forza degli Scritti corsari è anzitutto nella realtà emotiva e morale di questo lutto. […]

Quella degli Scritti corsari è un’ideologia «vocale», a braccio, che si muove sull’improvvisazione polemica e su una nitida architettura di concetti, di nervature razionali nude, che sostengono il fragile edificio del discorso con la forza dell’iterazione. […] Un nuovo potere sociale, pragmatico ed elementare, che tutto schiaccia nella sua uniformità, viene descritto con altrettanto spietata uniformità, e con un uso altrettanto pragmatico ed elementare dei concetti, come per ritorsione mimetica. La genialità saggistico-teatrale di Pasolini è tutta in questo intellettualismo spoglio, geometrico che esprime distruttivamente la sua angoscia per la perdita di un oggetto d’amore, e per la desacralizzazione moderna di tutta la realtà.


Alfonso Berardinelli, Prefazione, in Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2001

Comprendere il pensiero critico

1 Perché gli articoli di Pasolini – pur attaccando fenomeni sotto gli occhi di tutti – generarono tanto scalpore?


2 Che cosa intende Berardinelli giudicando gli Scritti corsari come «critica intellettuale radicale della società sviluppata»?

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi