2 - La “vita” romana

2 La “vita” romana

Il racconto delle borgate All’inizio del 1950 lo scrittore e la madre Susanna si trasferiscono a Roma. Nella capitale Pasolini entra in contatto con la realtà del sottoproletariato urbano, che metterà a fuoco in particolare in due romanzi: Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Sono opere che risentono del clima neorealista, ma che per molti versi vanno oltre i modelli di quella corrente letteraria.

Studio “dal vivo” e partecipazione emotiva Appena arrivato a Roma, Pasolini, subito innamoratosi della città, conduce in prima persona ricerche “sul campo”, frequentando il mondo delle borgate e facendosi aiutare dalle persone del posto per risolvere i dubbi linguistici in cui si imbatte. Il critico Alberto Asor Rosa ha sottolineato «la minuziosa opera di raccoglitore linguistico di Pasolini, che, taccuino in tasca, va di borgata in borgata, di strada in strada, alla ricerca dei ragazzi di vita, dei loro padri e delle loro madri, colloquia, scherza, ride con loro, e nel frattempo accuratamente li studia».

In effetti quello di Pasolini è uno studio “dal vivo”, quasi da sociologo o da antropologo prima ancora che da scrittore: dei ragazzi delle borgate osserva e annota il lessico, gli atteggiamenti e i comportamenti, ma non lo fa con il distacco dello scrittore naturalista, bensì con un forte coinvolgimento umano ed emotivo. Racconta egli stesso, in un testo del 1958 intitolato La mia periferia: «Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei “parlanti” fatti parlare apposta». Lui, di estrazione borghese, decide di avvicinarsi a una realtà molto diversa da quella del suo ambiente di appartenenza, con rispetto e con capacità di ascolto.

La “regressione” pasoliniana Ancora Pasolini spiega così la sua scelta linguistica del dialetto romanesco: «Non c’è stata scelta da parte mia, ma una specie di coazione del destino: e poiché ognuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che testimoniare la “borgata” romana. Alla coazione biografica si aggiunge la particolare tendenza del mio eros, che mi porta inconsciamente, e ormai con la coscienza dell’incoscienza, […] a cercare le amicizie più semplici, normali presso i “pagani” (la periferia di Roma è completamente pagana: i ragazzi e i giovani sanno a stento chi è la Madonna), che vivono a un altro livello culturale».

T2

La maturazione del Riccetto

Ragazzi di vita, capp. 1 e 8

Del primo romanzo romano di Pasolini riportiamo due passi: il primo è la conclusione del primo capitolo, il secondo quella dell’ultimo. Nel primo brano il Riccetto, ancora ragazzo, è sul Tevere, in una barca, a giocare con alcuni amici. Nel secondo, ormai cresciuto, si trova invece a essere spettatore, sulle rive dell’Aniene, di un evento tragico: un ragazzo, Genesio, tenta la traversata a nuoto, ma viene travolto dalla corrente, annegando sotto lo sguardo angosciato dei due fratellini, Mariuccio e Borgo Antico.

Il Riccetto continuava a starsene disteso, senza dar retta ai nuovi venuti,1 ammusato,2

sul fondo allagato della barca, con la testa appena fuori dal bordo: e continuava 

sempre a far finta di essere al largo, fuori dalla vista della terraferma. «Ecco

li pirata!» gridava con le mani a imbuto sulla sua vecchia faccia di ladro uno dei

5      trasteverini, in piedi in pizzo alla barca:3 gli altri continuavano scatenati a cantare.

A un tratto il Riccetto si voltò su un gomito, per osservare meglio qualcosa che

aveva attratto la sua attenzione, sul pelo dell’acqua, presso la riva, quasi sotto le

arcate di Ponte Sisto. Non riusciva a capir bene cosa fosse. L’acqua tremolava, in

quel punto, facendo tanti piccoli cerchi come se fosse sciacquata da una mano: e

10    difatti nel centro vi si scorgeva come un piccolo straccio nero.

«Ched’è»,4 disse allora rizzandosi in piedi il Riccetto. Tutti guardarono da quella

parte, nello specchio d’acqua quasi ferma, sotto l’ultima arcata. «È na rondine,

vaffan…», disse Marcello.5 Ce n’erano tante di rondinelle, che volavano rasente i

muraglioni, sotto gli archi del ponte, sul fiume aperto, sfiorando l’acqua con il petto.

15    La corrente aveva ritrascinato un poco la barca indietro, e si vide infatti c’era proprio

una rondinella che stava affogando. Sbatteva le ali, zompava.6 Il Riccetto era in ginocchioni

sull’orlo della barca, tutto proteso in avanti. «A stronzo, nun vedi che ce

fai rovescià?», gli disse Agnolo. «An vedi», gridava il Riccetto, «affoga!». Quello dei

trasteverini che remava restò coi remi alzati sull’acqua e la corrente spingeva piano

20    la barca indietro verso il punto dove la rondine si stava sbattendo. Però dopo un po’

perdette la pazienza e ricominciò a remare. «Aòh, a moro», gli gridò il Riccetto puntandogli

contro la mano, «chi t’ha detto de remà?». L’altro fece schioccare la lingua

con disprezzo e il più grosso disse: «E che te frega». Il Riccetto guardò verso la rondine,

che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di botto7 le ali. Poi senza dir niente

25    si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei. Gli altri si misero a gridargli dietro

e a ridere: ma quello dei remi continuava a remare contro corrente, dalla parte opposta.

Il Riccetto s’allontanava, trascinato forte dall’acqua: lo videro che rimpiccioliva,

che arrivava a bracciate fin vicino alla rondine, sullo specchio d’acqua stagnante, e

che tentava d’acchiapparla. «A Riccettooo», gridava Marcello con quanto fiato aveva

30    in gola, «perché nun la piji?». Il Riccetto dovette sentirlo, perché si udì appena la sua

voce che gridava: «Me pùncica!».8 «Li mortacci tua»,9 gridò ridendo Marcello. Il Riccetto

cercava di acchiappare la rondine, che gli scappava sbattendo le ali e tutti e due

ormai erano trascinati verso il pilone dalla corrente che lì sotto si faceva forte e piena

di mulinelli. «A Riccetto», gridarono i compagni dalla barca, «e lassala perde!». Ma in

35    quel momento il Riccetto s’era deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso

la riva. «Torniamo indietro, daje», disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il

Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. «E

che l’hai sarvata a ffà», gli disse Marcello, «era così bello vedella che se moriva!». Il

Riccetto non gli rispose subito. «È tutta fracica»,10 disse dopo un po’, «aspettamo che

40    s’asciughi!». Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava

tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre.

***

Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto, come non usava fare mai, e

poi gridò: «Conto fino a tre e me butto». Stette fermo, in silenzio, a contare, poi

guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano sotto l’onda nera11 ancora tutta

45    ben pettinata; infine si buttò dentro con una panciata. Arrivò nuotando alla svelta

fin quasi al centro, proprio nel punto sotto la fabbrica, dove il fiume faceva la curva

svoltando verso il ponte della Tiburtina. Ma lì la corrente era forte, e spingeva

indietro, verso la sponda della fabbrica: nell’andata Genesio era riuscito a passare

facile il correntino, ma adesso al ritorno era tutta un’altra cosa. Come nuotava lui,

50    alla cagnolina, gli serviva a stare a galla, non a venire avanti: la corrente, tenendolo

sempre nel mezzo, cominciò a spostarlo in giù verso il ponte.

«Daje, a Genè», gli gridavano i fratellini da sotto il trampolino, che non capivano

perché Genesio non venisse in avanti, «daje che se n’annamo!».12

Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume,

55    di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume.

Ci restava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giù

verso il ponte. Borgo Antico e Mariuccio col cane scapitollarono13 giù dalla gobba del

trampolino, e cominciarono a correre svelti, a quattro zampe quando non potevano

con due, cadendo e rialzandosi, lungo il fango nero della riva, andando dietro a

60    Genesio che veniva portato sempre più velocemente verso il ponte. Così il Riccetto,

mentre stava a fare il dritto con la ragazza che però continuava, confusa come un’ombra,

a strofinare le lastre,14 se li vide passare tutti e tre sotto i piedi, i due piccoli che

ruzzolavano gridando tra gli sterpi, spaventati, e Genesio in mezzo al fiume, che non

cessava di muovere le braccine svelto svelto nuotando a cane, senza venire avanti

65    di un centimetro. Il Riccetto s’alzò, fece qualche passo ignudo come stava giù verso

l’acqua, in mezzo ai pungiglioni e lì si fermò a guardare quello che stava succedendo

sotto i suoi occhi. Subito non si capacitò, credeva che scherzassero; ma poi capì e

si buttò di corsa giù per la scesa,15 scivolando, ma nel tempo stesso vedeva che non

c’era più niente da fare: gettarsi nel fiume lì sotto il ponte voleva proprio dire esser

70    stanchi della vita, nessuno avrebbe potuto farcela. Si fermò pallido come un morto.

Genesio ormai non resisteva più, povero ragazzino, e sbatteva in disordine le braccia,

ma sempre senza chiedere aiuto. Ogni tanto affondava sotto il pelo della corrente e

poi risortiva16 un poco più in basso; finalmente quand’era già quasi vicino al ponte,

dove la corrente si rompeva e schiumeggiava sugli scogli, andò sotto per l’ultima volta,

75    senza un grido, e si vide solo ancora un poco affiorare la sua testina nera.

Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in fretta i calzoni, che teneva

sotto il braccio, senza più guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette ancora

un po’ lì fermo, senza sapere che fare. Si sentivano da sotto il ponte Borgo Antico

e Mariuccio che urlavano e piangevano, Mariuccio sempre stringendosi contro il

80    petto la canottiera e i calzoncini di Genesio; e già cominciavano a salire aiutandosi

con le mani su per la scarpata.

«Tajamo,17 è mejo», disse tra sé il Riccetto che quasi piangeva anche lui, incamminandosi

in fretta lungo il sentiero, verso la Tiburtina; andava quasi di corsa, per

arrivare sul ponte prima dei due ragazzini. «Io je vojo bene ar Riccetto, sa!»,18 pensava.

85    S’arrampicò scivolando, e aggrappandosi ai monconi dei cespugli su per lo

scoscendimento coperto di polvere e di sterpi bruciati, fu in cima, e senza guardarsi

indietro, imboccò il ponte.

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Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

Nel primo episodio il Riccetto si butta dalla barca, a proprio rischio e pericolo (la corrente del fiume potrebbe portarlo via), per salvare una rondinella finita in acqua. Questo comportamento potrebbe essere ritenuto piuttosto inverosimile da un punto di vista sociologico: la preoccupazione del Riccetto per le sorti della povera rondinella risulta in effetti piuttosto improbabile, data la rappresentazione d’insieme del personaggio.

Lo psicanalista e saggista Aldo Carotenuto ha offerto però una suggestiva interpretazione dell’episodio: «Tutto ciò che vola e che appartiene all’aria esprime, nella simbologia psicologica, un elemento spirituale, qualcosa che è capace di elevarsi da terra, dalla superficie delle cose. Tuffandosi in acqua e salvando la rondine, Riccetto compie un gesto che lo èleva dalla squallida condizione in cui ordinariamente si trova».


1 Individua nel testo i passaggi che ti permettono di definire l’atteggiamento dei compagni del Riccetto.


2 La preoccupazione del Riccetto per la rondine non si esaurisce con il salvataggio dalle onde del Tevere, ma prosegue anche dopo: in che modo?

Tra il primo e il secondo brano sono passati sei anni. Il Riccetto, che prima aveva quattordici anni, ora ne ha venti: da ragazzo che era, è diventato uomo, ha un lavoro, è inserito nella società. Se nel primo brano egli è pronto a rischiare la vita per aiutare un animaletto, nel secondo, di fronte all’annegamento di Genesio, non è certo indifferente, anzi è addolorato (quasi piangeva anche lui, r. 82), probabilmente ha anche preso in considerazione, almeno per un momento, l’ipotesi di buttarsi e di tentare il tutto per tutto al fine di salvare il povero Genesio, ma poi prevalgono l’istinto di autoconservazione, il calcolo, una certa prudenza: Io je vojo bene ar Riccetto, sa! (r. 84). Nelle ultime righe del testo, oltre a non aver prestato soccorso, il Riccetto si allontana veloce dal luogo in cui Genesio è affogato. Perché lo fa? Nel corso delle vicende raccontate nel romanzo è stato per un certo tempo in carcere: nella sua situazione – avrà pensato – è sempre meglio non avere a che fare con le forze dell’ordine, neppure in qualità di testimone di una morte accidentale.


3 Rifletti sulla posizione e sull’atteggiamento del narratore: che tipo di narratore è? è un narratore che condivide il mondo dei suoi personaggi o li osserva in modo distaccato? Da che cosa lo capisci?

Quello della morte di ragazzi e giovani uomini è un motivo affrontato da Pasolini sempre all’insegna di una sobria commozione, dai toni quasi elegiaci. Da un punto di vista narratologico, aggiungiamo che se i «ragazzi di vita» sono i protagonisti del romanzo, la morte potrebbe essere vista come la loro vera antagonista. A proposito della ricorrenza ossessiva di questo motivo si potrebbe sottolineare come esso si leghi, per così dire, all’incapacità di Pasolini di seguire i suoi personaggi oltre la soglia dell’età adulta. O, meglio, al suo disinteresse nei confronti del mondo adulto, che gli appare tanto corrotto quanto quello dell’infanzia e dell’adolescenza gli appare puro. In altre parole, facendo morire i suoi giovani personaggi, è come se li salvasse dalla degenerazione a cui, crescendo, sarebbero inevitabilmente destinati. Perché la maturazione equivale alla perdita di caratteristiche positive come la spontaneità e la generosità, sostituite da una più adulta e borghese morale dell’egoismo e dell’autoconservazione.


4 Scrivere per argomentare. Come interpreti il finale dell’episodio? Ti sembra positivo o negativo? Perché? Esponi il tuo pensiero in un testo argomentativo di 20 righe.

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Le scelte stilistiche

Alla rappresentazione della morte si connette spesso in Ragazzi di vita una tonalità patetica, tesa a suscitare commozione nel lettore. Sono queste le parti del romanzo meno apprezzate da alcuni critici, che le hanno giudicate strappalacrime. Se soprattutto nel secondo brano è innegabile che Pasolini calchi il pedale del pathos (per esempio attraverso l’insistito ricorso ai diminutivi, con valore vezzeggiativo, riferiti alla persona di Genesio: braccine, r. 64; ragazzino, r. 71; testina, r. 75; calzoncini, r. 80), tuttavia un simile giudizio negativo è assai discutibile: più che cercare effetti melodrammatici fini a sé stessi, l’autore non fa altro che manifestare profonda simpatia e intima adesione nei confronti del mondo e dei personaggi rappresentati.

Quanto all’aspetto specificamente linguistico, bisogna notare come Pasolini incroci e spesso sovrapponga due universi linguistici, che sono anche due universi psicologici e due punti di vista assai diversi e lontani tra loro: quello dell’autore (colto, raffinato, dotato di una notevole cultura e di una spiccata consapevolezza letteraria) e quello dei personaggi (semplici, incolti, che tendono a esprimersi in maniera rozza ed elementare). In tal modo l’italiano si mescola a un dialetto romanesco fatto di espressioni volgari che spesso sfociano nel turpiloquio (vaffan…, r. 13; A stronzo, r. 17; E che te frega, r. 23; Li mortacci tua, r. 31).


5 A tuo parere, perché nel secondo brano è assente il turpiloquio, che invece abbonda nel primo?


6 Scrivere per esporre. Traccia in un testo espositivo di circa 20 righe due distinti ritratti psicologici del Riccetto nel primo e nel secondo brano, evidenziando soprattutto analogie e differenze tra i due momenti.

3 Il rifiuto del presente

La condanna della cultura di massa A mano a mano che, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il boom economico trasforma in profondità il tessuto economico e sociale del paese, insieme alle abitudini, agli stili di vita, alla mentalità delle persone, Pasolini si sente sempre più estraneo nei confronti di una realtà in cui non si riconosce e che disapprova. Strumento principe attraverso cui sta avvenendo questa trasformazione, che equivale a una manipolazione delle coscienze, è per Pasolini la televisione, per la sua intrinseca capacità di persuasione occulta.

La fase “apocalittica” Nel 1964 esce un saggio del semiologo Umberto Eco destinato a diventare molto famoso. Si intitola Apocalittici e integrati e definisce, in relazione alle «comunicazioni di massa» e alle «teorie della cultura di massa» (come recita il sottotitolo), i due tipi di atteggiamento che gli intellettuali tendono ad assumere. Gli «integrati» sono coloro che valorizzano gli aspetti positivi della nuova realtà: la democratizzazione della comunicazione, l’accesso alla cultura consentito a gruppi sociali che prima ne erano esclusi, l’abbassamento del costo economico dei prodotti culturali ecc. Gli «apocalittici» sono invece coloro che evidenziano i risvolti negativi di tale situazione: l’omologazione, la persuasione occulta della pubblicità, il conformismo dilagante, l’assenza di pensiero critico ecc.
Ebbene, è chiaro che Pasolini sta nettamente con gli «apocalittici». Soprattutto nella fase finale della sua produzione artistica (dalla metà degli anni Sessanta in poi) è fortissima l’insistenza sulla negatività della moderna società dei consumi e degli strumenti di comunicazione attraverso cui essa diffonde la propria perversa ideologia. È un degrado totale dell’intelligenza e dei valori autentici, da cui sembra non esistere via d’uscita: da qui i toni cupi e disperati che caratterizzano le sue ultime opere.

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T3

L’omologazione televisiva

Scritti corsari

Riportiamo integralmente il capitolo 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in cui Pasolini sviluppa uno dei temi più dibattuti negli Scritti corsari: il potere occulto ma fortemente “seduttivo” della nuova ideologia edonistica che ha cambiato il carattere degli italiani spingendoli alla sola ricerca del benessere materiale.

Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity)1 i disagi dovuti alla mancanza

di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro «cattivo» nelle periferie

«buone» (viste come dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza

più reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti ciò di cui nelle periferie si

5      lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro.

Quello stesso Centro2 che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche

dalle quali – appunto fino a pochi anni fa – era assicurata una vita propria, sostanzialmente

libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili.

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo

10    della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale,

che però restava lettera morta.3 Le varie culture particolari (contadine,

sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro

antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole.

Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata.

15    I modelli culturali reali4 sono rinnegati. L’abiura5 è compiuta. Si può

dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo

potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta

esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione

borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni.

20    Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia

al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema

d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione,

il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato

e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice

25    di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli:

che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si

accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili

altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico,6 ciecamente

dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

30    L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione:

e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che

«omologava» gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno

culturale «omologatore» che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il

nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo.

35    Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane

Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano

la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora

a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo

questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione

40    creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno

accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura,

o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime.

Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per

45    esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si

vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare

di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un

certo disprezzo spavaldo i «figli di papà», i piccoli borghesi, da cui si dissociavano,

anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi

50    della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i

giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il

nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza.

I ragazzi sottoproletari – umiliati – cancellano nella loro carta d’identità il termine

del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di «studente». Naturalmente, da

55    quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato

anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito

acquisito per mimesi7). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi

al modello «televisivo» – che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere,

gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari

60    si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi

producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce

al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi.8 Da ciò deriva in essi una

specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.

La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in

65    quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa.

Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro

elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti

non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta

in concreto lo spirito del nuovo potere.

70    Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e

repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista

e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con

dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato

sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il

75    nuovo fascismo,9 attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione

(specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata,

bruttata10 per sempre…

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

La società dei consumi esercita sulle coscienze un potere coercitivo e omologante pressoché assoluto, e per questo ben superiore a quello della dittatura fascista: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi (rr. 9-10). Infatti la dittatura mussoliniana per Pasolini aveva ottenuto dal popolo italiano un’obbedienza soltanto di facciata, mentre oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata (rr. 14-15). Perciò – conclude lo scrittore – la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana (rr. 16-17): sotto un’apparenza di libertà, infatti, la logica economica che impone beni standardizzati per la massa determina inevitabilmente il rifiuto di ogni diversità. Affinché il sistema funzioni e si regga, gli individui devono assomigliare il più possibile l’uno all’altro, essere – insomma – «a una dimensione», come scriveva il filosofo tedesco Herbert Marcuse (1898-1979).

I mezzi con cui si è arrivati a questo risultato sono per lo scrittore principalmente due: lo sviluppo delle infrastrutture (ampliamento della rete stradale e autostradale, motorizzazione tra le altre) che ha avvicinato tutti al Centro e quello delle comunicazioni di massa, con il ruolo decisivo della televisione e della pubblicità nell’imporre precisi modelli di comportamento.

A proposito di questo strumento di comunicazione, che negli anni Sessanta si era diffuso rapidamente e capillarmente anche in Italia, Pasolini interviene con parole di condanna in varie occasioni. Già in un documentario del 1962, La rabbia, egli aveva pronunciato un terribile atto d’accusa: «Una nuova arma è stata inventata per la diffusione dell’insincerità, della menzogna, del cattivo latino! […] Sperimentano modi per dividere la verità e per porgere la mezza verità che rimane attraverso l’unica voce che ha la borghesia per parlare: la voce che contrappone un’ironia umiliante a ogni ideale, la voce che contrappone gli scherzi alla Tragedia, la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti». E aveva definito i futuri spettatori come «milioni di candidati alla morte dell’anima».

I modelli di consumo imposti dalla tv e dalla pubblicità sono tuttavia irraggiungibili per la maggior parte degli italiani, che non hanno le possibilità economiche necessarie ad acquistare i beni propagandati e a ottenere un livello di vita adeguato a quegli stessi modelli. L’impossibilità di soddisfare tali bisogni indotti (inautentici, ma comunque presenti nelle persone una volta che essi siano stati instillati) determina frustrazione o addirittura ansia nevrotica (r. 44) che Pasolini riscontra nei suoi connazionali.

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Le scelte stilistiche

Lo sguardo di Pasolini sulla realtà è certamente molto personale, come lo è il suo modo di procedere nell’argomentazione, che intreccia spesso il rigore dell’analisi sociale a un’originale sensibilità, facendo presa sul lettore sia sul piano razionale sia su quello emotivo, con un taglio saggistico in cui si mescolano toni militanti e passaggi dai toni profetici.

La sua tendenza, qui e in diversi altri capitoli degli Scritti corsari, è quella di partire da una premessa di ordine generale, estrema e perentoria, assai chiara dal punto di vista ideologico (il centralismo della società dei consumi è più repressivo di quello della dittatura fascista), per poi svolgere un’analisi serrata attraverso la quale vengono enucleati alcuni concetti: la falsa tolleranza dell’edonismo di massa; l’omologazione da esso determinata; il ruolo coercitivo esercitato dalla televisione; l’appiattimento delle differenze di classe. Nelle righe finali l’autore torna, così chiudendo “ad anello” il suo ragionamento, all’assunto dal quale era partito, circoscrivendolo però, dal piano più ampio di prima, a quello più specifico riferito al mezzo televisivo: Non c’è dubbio […] che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo (rr. 70-71).

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Quali due totalitarismi confronta Pasolini fra loro? Come argomenta tale paragone?


2 Quale perdita ha determinato l’avvento del mezzo televisivo?


3 Perché l’edonismo di massa (r. 33) di cui parla l’autore è giudicato profondamente irreligioso?


4 Perché la televisione viene definita strumento del potere e potere essa stessa (r. 65)?

Analizzare

5 Individua le anafore e le ripetizioni di termini. Qual è il loro scopo?


6 Rintraccia i vocaboli che evidenziano, sul piano ideologico, i presupposti marxisti dell’autore.


7 La «tolleranza» della ideologia edonistica […] è la peggiore delle repressioni della storia umana (rr. 16-17): di quale figura retorica si tratta?


8 Quale figura retorica possiamo ravvisare nell’inciso e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina (rr. 37-38)?

Interpretare

9 Quali potrebbero essere il valore umanistico e le scienze umane di cui lo scrittore parla alle rr. 28-29?


10 Che cosa significa che in passato i sottoproletari erano analfabeti in possesso però del mistero della realtà (r. 47)?


11 Perché il ragazzo piccolo-borghese nell’adeguarsi ai modelli imposti dalla televisione diviene stranamente rozzo e infelice (r. 59)?

Produrre

12 Scrivere per argomentare. Le riflessioni di Pasolini contenute in questo brano (sul consumismo, sul ruolo della televisione e sulla crisi della religione tradizionale ecc.) ti sembrano ancora attuali oppure no? Argomentala tua risposta in un testo di circa 40 righe.


13 Scrivere per rielaborare. Trasforma questo articolo in un’intervista in cui immagini di essere un cronista a colloquio con Pasolini.

Dibattito in classe

14 Pasolini addebita alla televisione una responsabilità decisiva nel processo di omologazione culturale. Ti sembra che anche oggi essa abbia questo potere, o è stata superata dai nuovi media e dai social network? Discutine con i tuoi compagni.

Il tesoro della letteratura - volume 3
Il tesoro della letteratura - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi