T8 - Dialogo di Plotino e di Porfirio (Operette morali)

T8

Dialogo di Plotino e di Porfirio

Operette morali, 22

Composto nel 1827, il dialogo affronta il tema del suicidio, trattato attraverso il confronto tra Plotino e Porfirio, due filosofi neoplatonici vissuti tra il II e III secolo d.C.Il primo si è reso conto che l’amico, consapevole della vanità della vita, sta meditando di suicidarsi e cerca di fargli cambiare idea. Ciascuno dei due filosofi propone validi argomenti a sostegno di tesi opposte: Porfirio afferma che la morte è l’unica via d’uscita dall’infelicità cui sono destinati gli uomini; Plotino oppone al lucido ragionamento dell’interlocutore una serie di considerazioni sull’istinto di conservazione insito in tutti gli esseri e lo invita a non causare, con la sua morte volontaria, dolore a coloro che lo amano, sostenendo il valore della solidarietà e dell’amore tra gli uomini.

Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi la vita, Plotino se ne

avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non

procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione

malinconica; mi strinse che io mutassi paese.1

[…]

5      plotINo Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei2 maravigliare

se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità;

perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore.3 Già sono più giorni che

io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura,4 e lasci andare

certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu

10    abbi in capo una mala intenzione.

porfIrIo Come, che vuoi tu dire?

plotINo Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo augurio a

nominarlo.5 Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero;6 non far questa ingiuria

a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo

15    dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti

il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva tacere;

e tu non dovresti avere a male di conferirla7 con persona che ti vuol tanto bene

quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente,8 e andiamo pensando

le ragioni: tu sfogherai l’animo tuo meco, ti dorrai,9 piangerai; che io merito da

20    te questo: e in ultimo io non sono già10 per impedirti che tu non facci quello

che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.

porfIrIo […] ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura

che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un

fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a

25    dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare,

toccare la vanità di ogni cosa11 che mi occorre nella giornata. Di maniera che

non solo l’intelletto mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un

modo di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità.12 E qui primieramente

non mi potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole:

30    se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche

mal essere corporale. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre

disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera,

si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono,

qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in

35    qualche immaginazione falsa.13 E nessuna cosa è più ragionevole che la noia.

I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell’animo, per lo più è

vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è

di poca realtà o di nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza.

Solo la noia, la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non

40    inganno; mai non è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l’altro

vano, alla noia riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole

e di reale.14 […]

plotINo Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch’io ti consigli,

ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo

45    disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva,

a quella madre nostra e dell’universo; la quale se bene non ha mostrato

di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e

malefica, che non siamo stati noi coll’ingegno proprio, colla curiosità incessabile15

e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e

50    dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità

con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque

sia grande l’alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur

questa non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto, che non

resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la

55    stoltezza nostra,16 mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini

error di computo;17 veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si

commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi,

dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto

questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria

60    mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita,

non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure,

della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa

durare assai: benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e

le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata

65    leggermente la disposizione del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un

subito, per cagioni menomissime18 e appena possibili a notare; rifassi19 il gusto

alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano

quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente

all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo. […]

70    Io so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi

vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato,20 che

cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra21 a lagrime

smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro

conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si vuole

75    usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono

evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del

colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione

e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi,22 dei compagni; o non

essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di

81    barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e

i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in

vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri;

non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi

prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di

85    vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale

amore di se medesimo, che si trovi al mondo. […]

Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin

qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione

di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima;

90    a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto

aiutarci a sofferir23 la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono.

Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di

portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie.

Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; andiamoci incoraggiando,

95    e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo

questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte

verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni

ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che24 saremo spenti,

essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.

 >> pagina 924 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Se il dolore è connaturato alla vita umana e se mistificare o edulcorare la condizione in cui versa l’umanità è un atto di viltà, come si può provare – quasi disperatamente – il gusto alla vita (r. 176)? La risposta data da Leopardi si basa su uno dei cardini della sua filosofia, pessimistica ma non nichilistica: la considerazione dell’uomo come creatura infelice da confortare grazie alla pietà, alla solidarietà e a quell’affettuoso legame che dovrebbe istituirsi tra il singolo individuo e la comunità umana di cui fa parte.

 >> pagina 925

A questo approdo Leopardi giunge dopo aver affrontato lo snodo decisivo del suicidio, tragica ma razionale soluzione per chi ha acquisito una coscienza definitiva della sorte sventurata che la natura ha destinato ai viventi. Nel trattare questo tema, egli sceglie un approccio problematico che si sviluppa in questa operetta attraverso il confronto tra due filosofi che sostengono tesi opposte. Per Porfirio il suicidio è una legittima soluzione all’infelicità, mentre di parere opposto è Plotino, che vuol dissuadere l’amico dal suo proposito.

Non è una particolare situazione di difficoltà che conduce Porfirio a pensare al suicidio, ma la vanità di tutte le cose: sia il piacere sia il dolore sono accidenti passeggeri, ciò che invece permea in modo costante la vita è il tedio, la noia. 

Ai ragionamenti di Porfirio, Plotino si oppone suggerendo di osservare la natura e le sue leggi, che rischierebbero il sovvertimento se il principio di distruzione dovesse prevalere su quello di conservazione. Per questo esistono l’amor proprio, che fa tendere tutti i viventi al mantenimento della vita, e l’orrore della morte.

Tuttavia, secondo Plotino, una parte dell’uomo antico (r. 164) sopravvive ancora in quello moderno. Proprio questa superstite natura primitiva (rr. 155-156) è meno nemica dell’uomo di quanto non sia l’intelletto che svela le illusioni e i mascheramenti dell’infelicità. Grazie a essa si può lasciare spazio al senso dell’animo (r. 179), vale a dire a un sentimento interiore che va oltre la ragione, la limita senza tuttavia negarla. Si tratta di una tesi che Leopardi sposa non rinnegando quella di Porfirio; il suo pessimismo cosmico non viene confutato, ma al di là della logica ferrea della ragione affiora una prospettiva etica, grazie alla quale è possibile legittimare un altro argomento, non razionale bensì affettivo: il rapporto dell’individuo con l’altro da sé. A chi si uccide non può essere ovviamente rimproverata inconsapevolezza del proprio stato; può essergli però addebitato quell’eccessivo amore di se medesimo (r. 208), che gli impedisce di considerare quanto dolore infligga ai propri cari con la scelta di una separazione prematura e intenzionale.

Le argomentazioni finali di Plotino possono così fare appello alle qualità che Porfirio ha fin qui dimostrato: se è uomo saggio e forte, può ben sopportare la vita. Conta di più il valore dell’amicizia, mentre sarebbe un abuso barbaro e crudele e un atto di egoismo scegliere una soluzione estrema, causando ulteriore sofferenza che è in potere dell’uomo evitare. Proprio perché la vita è breve e infelice, va coltivato il valore della solidarietà, del conforto e sostegno reciproco. E dopo la morte, quando verrà, ci saranno il ricordo e l’amore degli amici.

Le scelte stilistiche

Trattandosi di due filosofi, il discorso di entrambi procede sostenuto da ragionamenti rigorosi e ricchi di argomentazioni e richiamando il pensiero di autori come Platone e Omero.

I due contendenti, che non abbandonano mai un tono cordiale (in particolare Plotino, che ricorre spesso all’affettuoso vocativo Porfirio mio, fino all’esortazione finale), usano spesso antitesi e paradossi per mettere in evidenza le contraddizioni delle leggi di natura (se è lecito all’uomo incivilito, e vivere contro natura, e contro natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire contro natura? rr. 149-151) o il contrasto tra natura e ragione (Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo rr. 183-186). Entrambi si servono di metafore riferite alla vita come carcere (r. 54) e tempesta (r. 78) ma è soprattutto Plotino a cercare l’effetto emotivo ricorrendo a climax in forte progressione (dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi, rr.167-168), polisindeti accorati e congiuntivi esortativi (Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci, r. 222; non ricusiamo, r. 223; attendiamo, r. 224; andiamoci, r. 224) con lo scopo, se non di convincere l’amico sul piano razionale, almeno di coinvolgerlo su quello sentimentale.

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Individua i nuclei fondamentali dei ragionamenti che sviluppano i due personaggi ed esponili schematicamente, distinguendo le argomentazioni a favore del suicidio da quelle contro.

 >> pagina 926 

Analizzare

Spiega l’effetto che producono i seguenti climax:


a medicare… occultarcene… trasfigurarcene, la maggior parte (rr. 160-161).

b non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo (rr. 170-172).

INTERPRETARE

3 Perché Porfirio dice: Solo la noia, la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso (rr. 39-40)?

COMPETENZE LINGUISTICHE

4 Il termine suicidio (uccisione di sé) deriva dal latino caedo, is, cĕcīdi, caesum, caedĕre (tagliare, uccidere, battere): in quali parole puoi individuare la stessa radice? Qual è il loro significato?

Produrre

5 Scrivere per argomentare. Leopardi affronta il discorso sulla vanità del dolore, che, in tutte le sue forme più dure, tuttavia passa, svanisce, per cui rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova (rr. 66-67). Spiega in un testo espositivo-argomentativo di circa 30 righe come nella sua filosofia, nonostante la lucidità dell’analisi razionale sul rapporto tra piacere e dolore, prevalga un atteggiamento agonistico e combattivo verso la vita e come la spinta vitale sia più forte della rinuncia pessimistica. 

6 La noia

La tragedia di sentirsi disadattati «La noia è manifestamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male né dolore particolare ma la semplice vita sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo»: con queste parole Leopardi definisce nello Zibaldone una delle principali peculiarità della condizione umana. Questo sentimento occupa infatti secondo l’autore gran parte della vita, in una sorta di posizione di confine tra gli interminabili intervalli che si frappongono tra il desiderio del piacere e la scoperta della sua irrealizzabilità.

Il motivo ricorre in tutta la produzione leopardiana, sia in versi sia in prosa. Si tratta di quel senso di vuoto che l’uomo percepisce quando cadono le sue aspirazioni e si sente incapace di vivere e partecipare al flusso della vita.

La noia come condizione degli animi inappagati Tuttavia, la noia non colpisce tutti gli uomini in modo indiscriminato. Se da un lato infatti essa nasce da quell’inappagato desiderio di felicità infinita che appartiene a tutti gli uomini, dall’altro coglie esclusivamente chi ha coscienza della vanità delle cose: chi, in altri termini, vive la dimensione emotiva della fragilità e della transitorietà dell’esistenza e perciò vede frustrato il proprio bisogno di assoluto. Da qui il carattere “sublime” della noia, chiaramente delineato da Leopardi in uno dei Pensieri (68): «Il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per così dire, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire chel’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».

Sempre le stesse cose La responsabilità di questo stato d’animo ricade sulla natura che alimenta il desiderio di piaceri irrealizzabili. L’«apparir del vero», come Leopardi scrive nel canto A Silvia ( T15, p. 959), fa infatti svanire la speranza che il domani sia diverso dal presente: i giorni, i mesi e gli anni sono invece destinati a trascorrere sempre uguali. Per poter sperare nella felicità, all’uomo non rimane che – illusoriamente – rinviarla sempre a un domani migliore.

Il tesoro della letteratura - volume 2
Il tesoro della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento