La vigna di Renzo
I Promessi Sposi, cap. 33
I Promessi Sposi, cap. 33
Ritornato al paese d’origine, Renzo passa da casa e trova la vigna ridotta in uno stato di estremo disordine.
E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare1
in che stato la fosse. Una vetticciola,2 una fronda d’albero di quelli che ci aveva
lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta
in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri);3
5 diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente
del paese era andata a far legna «nel luogo di quel poverino», come dicevano. Viti,
gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede.4 Si
vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate,
ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti
10 di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso,
soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza
l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia5 d’ortiche, di felci, di logli,6 di
gramigne, di farinelli,7 d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle,8
di panicastrelle9 e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino
15 d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o
qualcosa di simile. Era un guazzabuglio10 di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno
con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma
il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori,
di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini
20 bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune
di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta
di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi,
alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze
al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il
25 tasso barbasso,11 con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le
lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle
foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si
staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità
di vilucchioni12 arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan
30 tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor
campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era
avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno,
aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli
steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso
35 ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava
da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli
riuscisse; e, attraversato13 davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare
il passo, anche al padrone.
Ma questo non si curava d’entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a
40 guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo. Tirò di lungo: poco lontano
c’era la sua casa; attraversò l’orto, camminando fino a mezza gamba tra l’erbacce
di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia d’una delle due
stanze che c’era a terreno: al rumore de’ suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglìo,
uno scappare incrocicchiato di topacci, un cacciarsi dentro il sudiciume che
45 copriva tutto il pavimento: era ancora il letto de’ lanzichenecchi. Diede un’occhiata
alle pareti: scrostate, imbrattate, affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato14 di
ragnateli. Non c’era altro. Se n’andò anche di là, mettendosi le mani ne’ capelli;
tornò indietro, rifacendo il sentiero che aveva aperto lui, un momento prima;
dopo pochi passi, prese un’altra straducola a mancina, che metteva ne’ campi; e
50 senza veder né sentire anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato
di fermarsi. Già principiava a farsi buio. L’amico era sull’uscio, a sedere sur un panchetto
di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo
sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine. Sentendo un calpestìo,
si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere così al barlume, tra i
55 rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le mani: «non ci son che
io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po’ stare, che sarà anche questa
un’opera di misericordia».
Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.
«Renzo…!» disse quello, esclamando insieme e interrogando.
60 «Proprio», disse Renzo; e si corsero incontro.
«Sei proprio tu!» disse l’amico, quando furon vicini: «oh che gusto ho di vederti!
Chi l’avrebbe pensato? T’avevo preso per Paolin de’ morti,15 che vien sempre a
tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come
un romito!».16
65 «Lo so pur troppo», disse Renzo. E così, barattando e mescolando in fretta
saluti, domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia. E lì, senza sospendere
i discorsi, l’amico si mise in faccende per fare un po’ d’onore a Renzo, come
si poteva così all’improvviso e in quel tempo. Mise l’acqua al fuoco, e cominciò a
far la polenta; ma cedé poi il matterello a Renzo, perché la dimenasse; e se n’andò
70 dicendo: «son rimasto solo; ma! son rimasto solo!». Tornò con un piccol secchio
di latte, con un po’ di carne secca, con un paio di raveggioli,17 con fichi e pesche;
e posato il tutto, scodellata la polenta sulla tafferìa,18 si misero insieme a tavola,
ringraziandosi scambievolmente, l’uno della visita, l’altro del ricevimento. E, dopo
un’assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che
75 avesser mai saputo d’essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché
all’uno e all’altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno
conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza; tanto quella che si sente,
quanto quella che si trova negli altri.
1 Riassumi il contenuto del brano in circa 10 righe.
2 Perché nessun albero della vigna oltrepassava l’altezza del muro?
3 Che cosa trova Renzo nella sua casa abbandonata?
4 Perché l’amico incontrato sull’uscio ha gli occhi fissi al cielo (r. 52)?
5 All’interno dei lunghi elenchi botanici, osservi delle rime? Secondo te, quale funzione hanno?
6 Che tipo di lessico è impiegato dall’autore? In che rapporto si pone con l’irrazionalità e la selvatichezza della natura?
7 Individua le espressioni che mettono in rapporto il disordine della natura lasciata crescere da sola con quello della società. Che giudizio emerge di quest’ultima?
8 Quale significato assume l’incontro di Renzo con il vecchio amico dopo la visita alla vigna? Che cosa fanno i due?
Scegli e sviluppa una delle seguenti tracce.
a La descrizione della vigna, disordinata e inselvatichita, suggerisce considerazioni sul rapporto tra natura e civiltà, nei Promessi sposi e non solo. A Manzoni è evidentemente estranea una visione idilliaca e appagante della natura. Commenta il brano in relazione a questo tema e al problema dell’origine del male nell’ottica manzoniana.
b Oggi tendiamo ad avere una visione positiva della natura, in contrapposizione alla negatività di certi interventi dell’uomo (che determinano devastazione del paesaggio, inquinamento dell’aria e delle acque, riscaldamento globale ecc.). Al contrario, qui Manzoni presenta la natura come un sistema disordinato e, in qualche modo, violento: è la natura, in questo caso, a devastare, con la propria scriteriata vitalità, l’ordine di quanto prodotto dall’uomo. Commenta il brano riflettendo sulla contraddizione tra le due diverse concezioni.
Lo scrittore Marcello Fois (n. 1960) sostiene l’importanza della lettura scolastica del romanzo manzoniano in una riflessione che si allarga, in senso più generale, ai compiti delle istituzioni formative.
Qualche tempo fa un mio amico scrittore gioiva con me del fatto che la figlia adolescente
avesse portato avanti una sorta di class action contro la sua giovane professoressa
di italiano che aveva preannunciato di non avere intenzione di spiegare I
Promessi Sposi in classe, nonostante i programmi ministeriali perché a suo dire, cito
5 testualmente, “I Promessi Sposi sono una barba”. Ora, non credo che un arbitrio del
genere sia lecito o concesso, ma sta di fatto che l’eroica figlia del mio amico scrittore,
dotata di una evidente qualità carismatica, ha osato eccepire davanti a tutti a
quell’affermazione banale, specialmente in bocca a un’insegnante d’italiano, ricordando
alla medesima che I Promessi Sposi, semplicemente, “si devono fare”.
10 Questa breve storiella introduttiva dimostra che nell’intransigenza di certi
adolescenti spesso si cela il valore aggiunti del pretendere che ognuno faccia il
proprio mestiere, svolga il proprio compito, navighi nella generazione che gli
compete.
Qualsiasi insegnante d’italiano che afferma impunemente davanti alla sua classe
15 che “I Promessi Sposi sono una barba”, infatti, non torce un capello al classico
Manzoni, ma mina senza rimedio la sua autorevolezza e quella dei suoi colleghi
agli occhi di quegli alunni adolescenti che, a buon diritto, sono gli unici a dover e
poter fare un’affermazione del genere.
È una questione di ruoli, insomma: l’insegnante che occupa il livello del suo
20 alunno perde la sua credibilità specifica. I ragazzi da sempre sanno svolgere al
meglio il loro mestiere, sono specchi dei tempi, hanno fretta di bruciare le tappe,
considerano la scuola spesso come un freno ad altre faccende assai più piacevoli.
Se anche gli insegnanti pensano lo stesso forse è meglio che cambino mestiere.
Se cioè non si chiarisce il discrimine tra l’intrattenimento e la formazione è
25 probabile che questa nostra storiella fuori dai canoni diventi solo il segnale di una
tendenza assai problematica.
I Promessi Sposi è un territorio eccezionale dove può essere misurata questa tendenza.
Al ragazzo, all’alunno, si promette una scuola “divertente”, ma non gli si
spiega che “divertente” è una parola per niente leggera. “Divertente” è un’accezione
30 che attiene alla capacità di farsi un’idea propria delle cose, e cioè devèrtere, saper
guardare altrove, misurare l’area in cui l’informazione che si è appena ricevuta può
esercitare un potere comunicativo nella vita di tutti i giorni. Divertirsi, sotto certi
aspetti, significa fare propria una nozione e renderla organica: mangiarla, masticarla,
digerirla, evacuarla. Questo processo non assicura sempre un’esperienza piacevole,
35 da ciò l’equivoco secondo cui solo quello che fa ridere è divertente. Molte
volte, specialmente in corso di apprendimento, è vero l’opposto. Ora qualcuno
può dimostrare che farsi gli addominali, o depilarsi le sopracciglia, o svolgere un’equazione
algebrica, o imparare a memoria la perifrastica o parafrasare una terzina
dantesca, o sottoporsi a una sessione di tatuaggio, piercing, eccetera siano esperienze
40 “piacevoli”? Non lo sono eppure sono “divertenti”, contribuiscono cioè a
incrementare lo strumentario fisico e mentale con cui possiamo affrontare le cose
del mondo.
Ergo: chi l’ha detto che I Promessi Sposi debba piacere? Il punto non è che piaccia,
ma che “diverta” che racconti cioè nell’ordine: che nazione siamo, che cos’è un
45 classico, fino a che punto ci conosciamo. Niente di direttamente piacevole insomma.
Ma la piacevolezza diretta è una categoria che attiene all’intrattenimento e non
alla formazione. Quella che noi stiamo cercando, anche attraverso il romanzo di
Manzoni, è una piacevolezza a rilascio lento, spesso lentissimo. L’istruzione è un
materiale di cui spesso si raccolgono i frutti dopo anni.
50 La piacevolezza è un’eccezione: a nessuno piace alzarsi presto per andare a
lavorare. Anzi mi spingerei ad affermare che c’è una percentuale altissima di persone
che non amano affatto andare a lavorare, per vari motivi, ma pure ci vanno,
separano cioè l’utopia dalla realtà.
Attraverso la diatriba sui Promessi Sposi, come sull’insegnamento del latino o
55 della storia dell’arte, si può misurare la maturità di una cultura, persino millenaria
come la nostra. La scuola in quanto skolé, vacanza per i greci, non dovrebbe occuparsi
della vita in sé quanto degli strumenti per affrontarla, la vita. Ecco perché
quella stagione in cui l’unico compito era di apprendere, cioè di accumulare, cioè
di immagazzinare, era definita dai greci “vacanza”, skolé. Dopo quella vacanza arriva
60 la vita, cioè lo spazio dove mettere in gioco tutto quello che si è imparato. Skolé
(vacanza)/vita: il peso delle parole non prevede sprechi, una buona scuola insegna
un’economia del linguaggio, il che non significa usare poche parole, ma saper usare
quelle giuste, nel giusto contesto.
Chi tenta la strada del piacere della lettura in quanto tale, a scuola è destinato a
65 soccombere. Il piacere della lettura è una conquista, spesso privata, spesso dettata
da un amalgama esistenziale imponderabile, spesso totalmente extrascolastico. La
scuola dovrebbe occuparsi della lettura. Dovrebbe occuparsi del contenitore, senza
interferire sul contenuto. La scuola dovrebbe produrre un lettore che sappia distinguere
tra il valore formativo di ciò che legge e il suo valore ludico, o confortante, o
70 consolatorio. Con autorevolezza, senza inganni, senza ricatti. Mi spingerei a dire
che un educatore, nello svolgimento delle sue mansioni, non ha diritto a un gusto
personale. Il destino dell’insegnante, come del genitore, è l’inattualità e l’impopolarità.
Esattamente come il destino di un grande classico.
Marcello Fois, Renzo, Lucia e io. Perché, per me, «I promessi sposi» è un romanzo meraviglioso, add editore, Torino 2018
1 Di che cosa è stato contento l’amico scrittore citato da Fois all’inizio del brano?
2 Individua gli argomenti sulla base dei quali l’autore critica l’insegnante che “snobbi” I promessi sposi.
3 Spiega con parole tue il concetto, alto e non banale, di “divertimento” sostenuto da Fois.
4 Per l’autore, che cosa possono insegnare a un adolescente di oggi I promessi sposi?
5 In che cosa consiste per Fois la differenza tra “intrattenimento” e “formazione”? A quale dei due obiettivi dovrebbe guardare maggiormente la scuola? Perché?
6 Quale destino unisce genitori e insegnanti?
7 Sintetizza la tesi fondamentale del brano in circa 5 righe.
Scegli e sviluppa una delle seguenti tracce.
a Nel nostro sistema di istruzione, in tutti gli indirizzi della scuola secondaria superiore, I promessi sposi continuano a essere l’unico romanzo la cui lettura è prevista obbligatoriamente. La cosa non a tutti sta bene: anche molti docenti negli ultimi anni hanno messo in discussione il primato dell’opera manzoniana, che – sostengono alcuni – oggi potrebbe essere tranquillamente sostituita da testi più moderni, anche al fine di offrire agli studenti un modello linguistico aggiornato. Che cosa ne pensi? Sostieni la tua tesi, facendo riferimento anche alla tua esperienza scolastica.
b Nel suo saggio, Fois difende a spada tratta Manzoni da chi vorrebbe togliere il suo libro dalle scuole. A chi obietta che si tratta di un romanzo “ostico”, la cui difficoltà rischia di allontanare i giovani lettori di oggi dal “piacere della lettura”, Fois replica: Chi tenta la strada del piacere della lettura in quanto tale, a scuola è destinato a soccombere. Il piacere della lettura è una conquista, spesso privata, spesso dettata da un amalgama esistenziale imponderabile, spesso totalmente extrascolastico (rr. 64-66). Sei d’accordo con questa affermazione oppure no? Chiarisci il tuo punto di vista, facendo riferimento anche alla tua esperienza scolastica.
Il tesoro della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento