La vita

La vita

  La formazione culturale

La famiglia, gli studi In Alessandro Manzoni si fondono le due nobili famiglie che animarono l’Illuminismo milanese: egli nasce infatti a Milano nel 1785 da Giulia Beccaria, figlia di Cesare, l’autore del celebre trattato Dei delitti e delle pene, e da Giovanni Verri, fratello minore dei più noti Pietro, uno dei fondatori della rivista “Il Caffè”, e Alesssandro, scrittore. Ufficialmente Giulia è legata in matrimonio al conte lecchese Pietro Manzoni, già prossimo alla cinquantina, che vuole comunque riconoscere come proprio il bambino.

Alessandro trascorre l’infanzia in collegi retti da religiosi; è a Merate nel 1792, quando i genitori si separano legalmente; passa poi a Lugano, nella zona di Magenta e a Milano, dove conclude gli studi nel 1801 e va a vivere nella casa del conte Manzoni. Insieme all’insofferenza verso gli aspetti più retrogradi dell’educazione impartitagli, sviluppa accese idee giacobine, che riversa nel poemetto adolescenziale Del trionfo della Libertà.

La vocazione letteraria, sostenuta dalle letture di Parini e Alfieri, viene rinsaldata dalla conoscenza diretta di personalità d’eccezione come Foscolo, Cuoco, Monti, protagonisti dei circoli culturali della Milano napoleonica. Vincenzo Monti, in particolare, rappresenta per il giovane Manzoni una fondamentale guida umana e poetica. Per sottrarlo a tali influssi, ritenuti negativi, nel 1803 il padre lo spedisce a Venezia, dove rimane sino all’estate del 1804, portando a termine quattro Sermoni satirici.

Parigi e il matrimonio Nel luglio del 1805 Manzoni, ventenne, raggiunge a Parigi la madre, che da tempo vi si è stabilita con l’aristocratico Carlo Imbonati. Quest’ultimo, morto da poco, le ha lasciato una cospicua eredità. Sebbene non abbia avuto modo di conoscerlo personalmente, alle sue virtù Manzoni consacra il carme In morte di Carlo Imbonati (1806,  T1, p. 769). Nel 1807 scompare il padre “ufficiale”, il conte Pietro, lasciandolo erede universale. Nel vivace ambiente parigino Alessandro e la madre Giulia sono legati da intenso affetto, circondati da un nutrito gruppo di amici, tra i quali Sophie de Grouchy, vedova del filosofo Nicolas de Condorcet, e il letterato Claude Fauriel (1772-1844), che diviene per il giovane scrittore un autentico fratello maggiore, introducendolo nei salotti intellettuali della capitale francese.

Durante un soggiorno a Milano, Manzoni conosce la sedicenne ginevrina Enrichetta Blondel (1791-1833), che nel 1808 sposa con rito civile, seguito dalla benedizione di un pastore calvinista. Alla fine dell’anno, a Parigi, nasce Giulietta, prima di dieci figli. Di lì a poco Enrichetta matura un progressivo avvicinamento alla fede cattolica, alla quale viene introdotta dall’abate giansenista Eustachio Degola.

La conversione e il ritorno a Milano Nel febbraio del 1810 il matrimonio viene ricelebrato secondo il rito cattolico. Anche Manzoni comincia intanto ad accostarsi alla fede. Rilegge le Sacre Scritture, influenzato dalle idee sulla naturale predisposizione dell’uomo al peccato, che egli accoglie dalla corrente teologica del giansenismo (  p. 773). È un lento processo che – secondo la leggenda – conosce un’accelerazione improvvisa il 2 aprile, durante una crisi nervosa che porta Manzoni a rifugiarsi nella chiesa parigina di San Rocco, dalla quale esce “convertito”.

La svolta si accompagna alla decisione di tornare a Milano, dove nel 1813 lo scrittore acquista la casa di via Morone, da cui non si muoverà sino alla morte, alternandola alla villa suburbana di Brusuglio (nei pressi di Milano), ereditata da Imbonati, dove può dedicarsi alla sua passione per il giardinaggio e per l’agricoltura, che lo porta a introdurre nuove specie di piante e a sperimentare tecniche di coltivazione.

Sul versante letterario, incoraggiato dal canonico Luigi Tosi, padre spirituale della famiglia, rinnega la produzione giovanile e si rivolge alla poesia di argomento religioso, avviando l’impresa degli Inni sacri, che lo porta a scrivere La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale e La Passione, riuniti nel 1815 in un volumetto, che però non incontra il successo sperato.

Nel frattempo, alla caduta di Napoleone (1814), Manzoni caldeggia l’autonomia del Regno d’Italia e, in un secondo momento, sostiene lo sfortunato tentativo del re di Napoli Gioacchino Murat di raccogliere intorno a sé gli italiani, promettendo loro unità e indipendenza (1815). Al ritorno degli austriaci si accentua ancor più il suo carattere appartato.

il CARATTERE

  L’autoritratto di un letterato riservato e schivo

Capel bruno: alta fronte: occhio loquace:
naso non grande e non soverchio umile:
tonda la gota e di color vivace:
stretto labbro e vermiglio: e bocca esile:

lingua or spedita or tarda, e non mai vile,
che il ver favella apertamente, o tace.
Giovin d’anni e di senno; non audace:
duro di modi, ma di cor gentile.

La gloria amo e le selve e il biondo iddio:
spregio, non odio mai: m’attristo spesso:
buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.

A l’ira presto, e più presto al perdono:
poco noto ad altrui, poco a me stesso:
gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

Questo sonetto, composto a sedici anni sul modello di Alfieri (Sublime specchio di veraci detti) e Foscolo (Solcata ho fronte, occhi incavati intenti), è uno dei rari autoritratti di Alessandro Manzoni, il più riservato tra i grandi della letteratura italiana. A differenza dei predecessori, lo scrittore milanese non si rappresenta in posa eroica, anzi lascia trasparire il proprio carattere introverso e mite (non audace: / duro di modi, ma di cor gentile).

Un uomo nevrotico

In effetti l’autore reale non va confuso con il narratore calmo, sereno, ironico che ci viene incontro dalle pagine dei Promessi sposi. L’epistolario e numerose testimonianze di quanti lo conobbero ci consegnano l’immagine di un uomo dall’indole ansiosa e sfuggente, facile preda di tante piccole nevrosi, sempre restio a mostrarsi in pubblico e a concedersi incontri mondani. Con il passare degli anni Manzoni imparò a convivere con le crisi di panico, le vertigini, l’angoscia nei luoghi affollati, la balbuzie che spesso lo coglieva quando era costretto a prendere la parola in pubblico (lingua or spedita or tarda, v. 5). Il rimedio preferito per stemperare le inquietudini consisteva in passeggiate interminabili, che furono per lui una pratica quotidiana, anche se la quiete domestica resterà sempre la sua dimensione preferita.

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 La grande stagione letteraria

Il decennio cruciale Alla metà degli anni Dieci inizia il periodo più fecondo dal punto di vista creativo. Nel 1816 lo scrittore mette mano alla tragedia Il conte di Carmagnola, che concluderà nel 1819. Si fa sentire con urgenza il desiderio di tornare a Parigi, ostacolato però dalla famiglia e dal canonico Luigi Tosi, che temeva un raffreddamento della sua fede religiosa; lo scrittore deve infine rinunciarvi, a causa del rifiuto al rilascio del passaporto appostogli dalla polizia. È un momento difficile, di crisi interiore, che viene poi superata nel 1817. Avvia la stesura dell’inno La Pentecoste e compone le Osservazioni sulla morale cattolica (1818-1819). Si lega in un rapporto di amicizia al gruppo che gravita intorno al poeta dialettale Carlo Porta, e in particolare al letterato Tommaso Grossi; frequenta Federico Confalonieri, Giovanni Berchet, Pietro Borsieri, Silvio Pellico, e appoggia l’impresa della rivista “Il Conciliatore” senza però scrivervi. Nel settembre del 1819 riesce finalmente a partire con la famiglia per Parigi, dove si trattiene sino alla primavera dell’anno successivo. In Francia scrive la Lettre à Monsieur Chauvet (Lettera al Signor Chauvet), in cui esprime le proprie idee sul genere tragico.

La composizione delle tragedie, delle odi e dei Promessi sposi Tornato a Milano, lavora all’Adelchi, che uscirà nel 1822, e assiste prima con entusiasmo, poi con sgomento, ai moti piemontesi, cui dedica l’ode Marzo 1821, che però resta inedita fino al 1848. Il 1821 è un anno di straordinaria creatività: a luglio, appresa la notizia della morte di Napoleone, compone in pochi giorni Il cinque maggio. Contemporaneamente si dedica alla prima stesura dei Promessi sposi, che lo terrà impegnato sino al settembre del 1823. Poco dopo scrive al marchese Cesare Taparelli d’Azeglio una lettera Sul Romanticismo, dove espone la sua poetica.

Negli anni successivi lavora con impegno incrollabile ai Promessi sposi: il romanzo approda finalmente alla stampa nel 1827, incontrando uno strepitoso successo. Trascorre il settembre con la famiglia a Firenze, dove conosce Giovan Pietro Vieusseux, animatore di un importante centro culturale (il “Gabinetto Vieusseux”), il letterato Pietro Giordani e Giacomo Leopardi, che vede in lui un «uomo pieno d’amabilità, e degno della sua fama». “Risciacquati i panni in Arno” (confrontata cioè la lingua che ha usato nel romanzo con la parlata viva fiorentina), si rafforza in Manzoni la convinzione che alle pagine del suo libro occorra una corposa revisione linguistica.

CRONACHE dal PASSATO

  Quel giorno a Parigi

Miracolo o approdo di un percorso interiore?


Il 2 aprile del 1810 Manzoni, insieme alla moglie Enrichetta, assiste a Parigi ai festeggiamenti per le nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, in mezzo a una folla festante. All’improvviso lo scoppio di alcuni petardi causa uno spaventoso fuggi fuggi. In molti restano travolti dalla calca.

Il “miracolo di San Rocco”

Manzoni perde di vista la moglie; in preda al panico e sospinto dalla folla, si ritrova sui gradini della chiesa di San Rocco. Entra e, nel silenzio delle navate, si raccoglie in preghiera, implorando l’aiuto di Dio. All’uscita ritrova miracolosamente l’amata, sana e salva.

È questa, in sintesi, la leggenda del miracolo di San Rocco, nella versione tramandata da innumerevoli commentatori, sebbene Manzoni fosse sempre reticente al riguardo. Oggi in genere si ritiene più realistico considerare il suo approdo alla fede cattolica non come l’improvvisa illuminazione di un attimo, o di una notte di tormenti, ma come l’esito di un travagliato percorso interiore, intrapreso insieme alla moglie Enrichetta, che qualche settimana dopo l’episodio abiurò il calvinismo. Nel giugno la coppia abbandona Parigi, e nell’estate Manzoni si confessa per la prima volta.

Gli attacchi di panico e l’agorafobia

D’altra parte nella leggenda appaio­no tratti inconfondibili del carattere dello scrittore, che soffriva di attacchi di panico in luoghi aperti e affollati. È la sindrome che in ambito medico si definisce agorafobia, e che si indovina nella narrazione delle straordinarie scene dei tumulti milanesi nei capitoli 12 e 13 dei Promessi sposi. E non dev’essere un caso se don Rodrigo, infettato dalla peste, nel capitolo 33 del romanzo scivola in un incubo in cui si ritrova in una chiesa, assediato da una folla che lo urta e gli toglie il respiro.

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 L’inaridirsi dell’ispirazione e gli ultimi anni

Un intellettuale appartato ma vigile Dopo il 1827 la vena creativa di Manzoni si inaridisce. La famiglia nel frattempo è rapidamente cresciuta: nel 1830 Enrichetta dà alla luce la decima figlia, Matilde. Tre anni più tardi la moglie muore, seguita a breve dalla primogenita. Prostrato dallo sconforto, Manzoni abbozza un nuovo inno sacro, Il Natale del 1833, che non riesce però a concludere.

Nel 1837 sposa Teresa Borri (1799-1861), vedova del marchese Stampa. Si dedica intensamente alla riscrittura dei Promessi sposi, orientata sul fiorentino parlato dalle classi colte, in armonia con le teorie che espone in un trattato più volte riscritto e rimasto incompiuto, Della lingua italiana. Il romanzo esce in dispense illustrate tra il 1840 e il 1842, seguito dal saggio storico Storia della colonna infame, ma l’edizione si rivela un fiasco, e mette in ginocchio le finanze dell’autore. Nel 1841 muore la madre Giulia.

Nel 1848, durante le Cinque Giornate di Milano, Manzoni si schiera a favore degli insorti. Il 22 marzo firma il proclama con cui i patrioti milanesi chiedono l’intervento del Piemonte. Auspica la nascita di un regno unitario e indipendente in Italia, come già aveva fatto nell’ode Marzo 1821, ora pubblicata a sostegno della lotta, insieme con la canzone Il proclama di Rimini.

Al ritorno degli austriaci lo scrittore resta sino all’autunno del 1850 in territorio piemontese, nella villa di Lesa, sul Lago Maggiore. Qui incontra varie personalità, tra cui il conte di Cavour, e conduce fitti colloqui con il filosofo cattolico Antonio Rosmini (1797-1855), divenuto per lui un importante punto di riferimento, come emerge dal dialogo Dell’invenzione (1850). Sono anni di riflessioni e studi morali, storici e linguistici.

Vate della nuova Italia Alla proclamazione dell’Unità d’Italia (1861), la sua posizione apertamente filopiemontese è premiata dal re Vittorio Emanuele II con una cospicua pensione e la nomina a senatore. Manzoni, che ha sempre rifiutato premi e onorificenze, questa volta accetta. Vota per Firenze capitale, in attesa del trasferimento in quella Roma dove non è mai stato e che non vedrà mai. La sua avversione al potere temporale dei papi non muta dopo la presa di Porta Pia (1870) e suscita irritazione negli ambienti cattolici intransigenti.

A Milano, nel 1861, muore la seconda moglie Teresa. Manzoni continua a risiedere nella casa di via Morone, che sempre più attira letterati, politici, viaggiatori illustri. Nel 1862 riceve la visita di Garibaldi, giunto con un mazzolino di viole a recare «omaggio a un uomo che tanto onora l’Italia». Manzoni è commosso dal gesto dell’Eroe dei due mondi, che ammira profondamente nonostante il suo laicismo.

Gli ultimi anni Lo scrittore, negli ultimi anni, è ancora occupato dalle riflessioni sulla lingua italiana, il suo «eterno lavoro». Nel 1868, a dispetto dell’età avanzata, Manzoni si incarica di stendere per il ministro della Pubblica istruzione una Relazione intorno all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla. Resta invece incompiuto uno studio comparativo tra La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859.

All’inizio del 1873, nel recarsi a messa, Manzoni cade sui gradini della chiesa di San Fedele, riportando un trauma che lo conduce a un rapido e irreversibile declino. La sua morte, avvenuta a Milano il 22 maggio, suscita nel paese un’ondata di costernazione. Un anno più tardi, nell’anniversario della scomparsa, Giuseppe Verdi dirige alla Scala la Messa da Requiem, da lui stesso composta in onore dello scrittore.

Il tesoro della letteratura - volume 2
Il tesoro della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento