Finestra sul contemporaneo - Parini & Carlo Emilio Gadda, Quando la satira è invenzione verbale

Finestra sul CONTEMPORANEO

Parini & Carlo Emilio Gadda

Quando la satira è invenzione verbale

La buona salute dello sberleffo

Che ne è stato della letteratura satirica nel Novecento italiano? Che fine ha fatto quel ricco universo che – da Cielo d’Alcamo e Cecco Angiolieri in poi passando per Burchiello Berni e Folengo e non trascurando grandi autori come Dante e Ariosto fino ad arrivare a Parini – da sempre rappresenta il grottesco nel mondo, irridendo potenti o presunti tali, castigando costumi con il sorriso o con l’indignazione, togliendo la maschera a ipocriti e perbenisti e mostrandone bassezza, miserie e viltà?

Il sapore ludico e sferzante dei versi o delle prose satiriche si gusta ancora in tutto il secolo scorso: grazie a maestri dell’irriverenza come Achille Campanile, Cesare Zavattini, Ennio Flaiano, Leo Longanesi, la letteratura italiana contemporanea ha continuato a versare il fiele del sarcasmo, ora irridendo ora dando sfogo all’astio dell’invettiva ora motteggiando più pietosamente e con sorridente indulgenza per le debolezze umane. In molti casi, sia che si percorra la strada della canzonatura dissacrante ma in fondo bonaria, sia che la riprovazione morale prorompa senza misura sui malcapitati bersagli della parola acuminata, gli autori satirici fanno sfoggio dell’invenzione verbale per divertire ma anche per beffare, smascherare e capovolgere buone ma immeritate reputazioni.

Due maestri lombardi della satira

Anche sul versante linguistico, nel Novecento la lezione di Parini non viene meno, come si vede nell’opera del più pirotecnico dei suoi allievi, Carlo Emilio Gadda, che non a caso definiva il maestro come «uno dei primi inventori di una lirica colloquiale narrativa di suprema, seppure cronologicamente barocca, eleganza».

Lombardo come Parini, Gadda è interprete di una letteratura in cui la vocazione realistica, degradata però fino al grottesco, si sposa con una satira sociale tagliente e in molti casi feroce: quest’ultima è lo strumento di una decisa istanza morale, che mette a nudo quell’infrazione dell’ordine razionale delle cose che egli individua nella società del suo tempo.

Una commedia umana disgustosa

Nella giornata-tipo di un “giovin signore”, rampollo esemplare della nobiltà della Milano del Settecento, l’autore del Giorno descriveva, con iperbolica ironia, una classe aristocratica viziata e scioperata, che conosceva bene poiché la frequentava quotidianamente. Allo stesso modo, Gadda getta lo sguardo velenoso su un ambiente a lui ben noto in quanto, in fondo, vi apparteneva: quella borghesia avida, frustrata e corrotta, di cui egli ambiva a essere una sorta di giustiziere o, se si preferisce, di moralizzatore (in una lettera scrisse che desiderava «essere il Robespierre della borghesia milanese»). Nella sua produzione narrativa, naturalmente, non troviamo più la dama sfaccendata, il vacuo cicisbeo e il servile cortigiano né leggiamo le direttive del «precettor d’amabil rito», intento a fornire al suo discepolo i mezzi per non sfigurare nel bel mondo dei palazzi neoclassici; vediamo invece speculatori e arricchiti, manichini impegnati in una vuota commedia di apparenze sociali, dove una falsa morale nasconde cumuli inconfessati di ipocrisie e opportunismi. Neppure il popolo, che traspare nei versi pariniani come una sobria e sana alternativa vivente all’arroganza dei nobili, si salva dal quadro impietoso fornito dai racconti e dai romanzi di Gadda, puntualmente affollati di squallidi borgatari e avidi maneggioni.

La parola feroce

Questa massa informe di uomini e donne, immersa nei rumori e nei cattivi odori della città (ma nessuna tentazione all’idillio campestre affiora nelle pagine di Gadda, a differenza che in quelle di Parini), viene descritta con un linguaggio esorbitante, che sperimenta soluzioni espressionistiche e intreccia arcaismi, termini desueti, espressioni dialettali e neologismi per dare conto di quell’«ordigno» caotico, deforme e magmatico che è la realtà. La parola si fa dunque strumento di critica: in Parini, ciò avviene attraverso la sproporzione tra le descrizioni altisonanti e la grettezza del contesto rappresentato e delle frivole stoltezze di chi lo abita; in Gadda, lo stile ampolloso e sovrabbondante costituisce lo specchio di un mondo ingarbugliato.

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Un ingegnere con il vizio della letteratura

Carlo Emilio Gadda nasce a Milano nel 1893. La sua è una famiglia illustre, che annovera tra gli antenati ministri, funzionari e professionisti di prim’ordine. Anche il padre è uno stimato imprenditore tessile che però inanella una serie di investimenti sbagliati: in particolare, la pretenziosa costruzione di una principesca villa per le vacanze in Brianza svuota il suo patrimonio. Spinto dalla madre, con la quale intrattiene un rapporto tormentato, Gadda si iscrive alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Milano, ma allo scoppio della Prima guerra mondiale abbandona momentaneamente gli studi e si arruola volontario nel reparto degli alpini. Catturato dai nemici e deportato in Germania, racconta la propria esperienza in un diario, pubblicato postumo con il titolo di Giornale di guerra e prigionia.

Rientrato a Milano e ottenuta la laurea, Gadda inizia a lavorare presso società e industrie elettriche e chimiche, per le quali viaggia molto, in Europa ma soprattutto in Sudamerica, dove si trattiene dal 1922 al 1924. Al 1931 risale la decisione che gli cambia la vita: abbandonare la professione di ingegnere che pure gli garantisce una solida posizione economica, per dedicarsi a tempo pieno alla letteratura. Nello stesso anno pubblica il primo romanzo, La Madonna dei filosofi, cui segue, nel 1934, la raccolta di racconti Il castello di Udine.

Un capolavoro autobiografico

La stesura del primo capolavoro di Gadda risale però al 1937, un anno dopo la morte della madre: La cognizione del dolore, romanzo nel quale i riflessi autobiografici sono evidenti. Il libro, pubblicato a puntate sulla rivista “Letteratura” dal 1938 al 1941, è ambientato in un immaginario paese sudamericano, dietro al quale si nascondono gli scenari brianzoli familiari allo scrittore. È difficile sintetizzarne la trama, che d’altro canto è molto labile: metafora, questa, dell’impossibilità di interpretare e circoscrivere la realtà con sistemi scientifici e architetture definite. Le vicende ruotano attorno al nevrotico rapporto del protagonista («il figlio», controfigura dell’autore) con la «madre» vedova, una figura tragica destinata a una morte violenta, di cui non si conoscerà mai il responsabile.

Un giallo atipico

La fama di Gadda presso il grande pubblico si deve però a un altro libro, pubblicato nell’immediato dopoguerra, tra il 1946 e il 1947, anch’esso a puntate su rivista e poi in volume, profondamente rimaneggiato, nel 1957. Si tratta di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, un romanzo che ha l’apparente struttura del giallo, visto che prende le mosse dall’assassinio di una ricca signora nei primi anni del fascismo. Diciamo “apparente” perché in realtà il mistero del fattaccio non sarà risolto, così come, secondo l’autore, non è risolto ogni atto umano, che è sempre il risultato ingarbugliato di un «sistema di cause e concause» o di una miriade di forze incastonate in un organismo contorto e irrazionale. Pertanto anche i fili della trama investigativa si slabbrano in una miriade di digressioni, depistaggi, pause analitiche, soste descrittive, meditazioni filosofiche che da un lato rendono impossibile la lineare ricerca del colpevole, dall’altro offrono la possibilità al narratore di dipingere o meglio mettere in caricatura riti e vizi di una schiera brulicante di personaggi e comparse di una grottesca commedia umana. Sotto la lente deformante della parola gaddiana finisce infatti la Roma del fascismo imperante: un vero e proprio baraccone di voci sguaiate, popolato da protagonisti o spettatori di una quotidiana e abietta carnevalata, al cui apice troneggia la sagoma del duce, oggetto anch’egli dell’irridente vis comica dell’autore.

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Il duce e l’esibizionismo maschilista

A Mussolini e al regime Gadda dedica anche le pagine di uno strano pamphlet, Eros e Priapo (Da furore a cenere), nel quale la lezione satirica di Parini è inasprita dai toni dell’invettiva e da una furiosa e incontenibile violenza verbale. L’autore, che pure era stato fascista, anche se più per conformismo che per adesione ideologica, comincia a scrivere quest’opera intorno al 1945, poi ne anticipa alcune parti sulla rivista “Officina” nel 1955-1956 (da cinque anni, intanto, Gadda si era trasferito a Roma, dove collabora con la RAI), infine la pubblica nel 1967, sei anni prima della morte, avvenuta nella capitale nel 1973.

Dopo aver delineato il contesto storico, lo scrittore si concentra sul capo di quella che egli definisce la «delinquente brigata», una masnada di gerarchi che ha tenuto per un ventennio l’Italia sotto scacco. Mussolini è ironicamente accostato a Priapo, l’antica divinità del sesso, simbolo della fecondità e della forza generatrice maschile, in quanto la venerazione di cui è stato oggetto si è basata, secondo l’analisi gaddiana, su una valenza erotica che ha legato il dittatore, come fosse una divinità, ai suoi sostenitori, ridotti alla stregua di adepti.

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La Italia la era padronescamente polluta1 dallo spiritato: lo spiritato l’era imperialmente

grattato e tirato a prurigine dal plauso d’un poppolo di quarantaquattro

milioni di miliardi d’animalini a cavatappo.2 Ch’era le millanta volte meglio... vo’ vu’

m’intendete sanza parole. Ergo: la Italia ventitré anni quello animalino la mandò.

5      E che il giudice mi tagli mano, se questo che qui non è sillogismo diritto, di misura

stretta. Il suggeritore fu lui il Ministro, Primo Ministro delle bravazzate, lui il Primo

Maresciallo (Maresciallo del cacchio), lui il primo Racimolatore e Fabulatore ed Ejettatore3

delle scemenze e delle enfatiche cazziate, quali ne sgrondarono giù di balcone

ventitré anni durante:4 sulle povere e macre spalle di una gente sudata,

10    convocata birrescamente5 a’ sagrati maledetti, a’ rostri delle future isconfitte,6 incitata

alle acclamazioni obbligative: compressa al raduno come la gente acciughiera in

nel barile, spersa, in fatto, tra i segni di demenza: a veder lontanare il futuro, il nutrimento

della carne, dello spirito futuro. Una istrombazzata di parole senza costrutto,

ch’erano i rutti magni di quel furioso babbèo,7 la risarciva de’ contributi sindacali

15    «in continuo e promettente sviluppo», cioè via via magnificati alla chetichella «per

legge», o «per decreto-legge», cioè ad arbitrio d’un tratto di penna di essi despoti.

La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia abbozzava: ingollava8 e defecava la legge.

Una sorta sozza di bugia, una mentira9 senza scampo e senza riscatto veniva

intessendosi e trapuntandosi in que’ raduni.10 Porgeva egli alla moltitudine l’ordito

20    della sua incontinenza buccale,11 ed ella vi metteva spola di clamori, e di folli gridi,

secondo ritmi concitati e turpissimi. Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè.12 La moltitudine,

che al dire di messer Nicolò13 amaro la è femmina, e femmina a certi momenti nottìvaga,14

simulava a quegli ululati l’amore e l’amoroso delirio, siccome lo suol mentire

una qualunque di quelle, ad «accelerare i tempi»: e a sbrigare il cliente: torcendosi

25    in ne’ sua furori e sudori di entusiasta, mammillona singultiva per denaro.15

Su issu’ poggiuolo16 il mascelluto, tronfio a stiantare,17 a quelle prime strida della

ragazzaglia e’ gli era già ebbro d’un suo pazzo smarrimento, simile ad alcoolòmane,

cui basta annasare il bicchiere da sentirsi preso e dato alla mercé del destino.

Indi il mimo d’una scenica evulvescenza,18 onde la losca razzumaglia si dava elicitare,

30    properare,19 assistere, spengere quella foja20 incontenuta. Il bombetta soltanto

avea nerbo, nella convenzione del mimo, da colmare (a misura di chella frenesia

finta) la tromba vaginale della bassàride.21 Una bugia sporca, su dalla tenebra

delle anime. Dalle bocche, una bava incontenuta. Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè.

Cuce il sacco delle sue vantardige22 un gradasso: capocamorra che distribuisce le

35    coltella a’ ragazzi, pronto sempre da issu’ poggiuolo a dismentire ogni cosa, a rimentire

ogni volta.

Questo, ventun anno! Ventun anni di boce 23 e di urli soli del frenetico, come ululati

di un bieco lupo in tagliola: o di que’ sinistri berci de’ sua compiacenti, in ogni piazza,

e de’ sua bravi acclamanti. E ’l rimanente... muto e scancellato di vita. Ventun

40    anno: il tempo migliore d’una generazione, che è pervenuta a vecchiezza a traverso

il silenzio. Per silentium ad senectutem.

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Il narcisismo erotico

Gadda concentra la propria energia creativa e analitica sul personaggio di Mussolini e sulla sua relazione con il popolo italiano, complice collettivo di ciò che accadde negli anni del regime fascista (Ergo: la Italia ventitré anni quello animalino la mandò, r. 4). Questo legame si stabilisce subito sull’asse maschio-femmina (La moltitudine, che al dire di messer Nicolò amaro la è femmina, rr. 21-22), assumendo l’aspetto della seduzione erotica e dell’amplesso: dopo aver paragonato la folla a una prostituta che simula l’orgasmo per accontentare il cliente, Gadda allude neanche troppo velatamente al fatto che solo Mussolini aveva il nerbo (da intendersi come “frustino” e “sferza”, come vigore ed energia, ma anche nel suo valore letterale di “muscolo”) per colmare […] la tromba vaginale (rr. 31-32) della folla stessa.

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L’amarezza di una grande illusione

Lo scrittore riprende poi il concetto di menzogna presente a metà brano (Una sorta sozza di bugia, r. 18) per associarlo direttamente al duce e all’illusione in cui il dittatore ha fatto vivere il popolo italiano nel Ventennio. Il disinganno, ora, è tale da far sorgere la triste consapevolezza di aver sprecato gli anni migliori di una generazione. La formula per silentium a senectute, posta a clausola, è infatti estrapolata da un passo dello storico latino Tacito e assume il valore memorabile ed esemplare della vita gettata via e dell’inutile sofferenza che conduce l’essere umano alla vecchiaia senza che questi se ne renda conto.

Il toscano: scelta dialettale e aulica

La patina dialettale toscaneggiante di questo brano e di tutto il resto del libro (l’uso continuo dell’elisione di articoli, preposizioni e pronomi: ne’, a’, que’ ecc.) rivela la volontà di omaggiare celebri scrittori e poeti del passato, utilizzando la lingua che più di altre ha fatto da base all’italiano contemporaneo. D’altro canto, come già in Parini, il lessico accoglie forme dotte (come il latinismo properare, r. 30), sia pure rivisitate in funzione parodica, forestierismi (mentira, r. 18, dallo spagnolo), altri dialettismi (è il caso del vocabolo di origine campana chella, r. 31), termini nuovi dalla valenza comica o erotica (gente acciugghiera, r. 11; mammillona singultiva, r. 25; scenica evulvescenza, r. 29) per rafforzare la dimensione del pastiche.

Dal suono al silenzio

Al di là dell’aspetto linguistico, il brano si fa notare per una sua ricca dimensione audiovisiva. Si direbbe quasi di assistere a uno di quei filmati dell’Istituto Luce che riprendevano i discorsi del duce. Prima viene messo in risalto l’aspetto auditivo, con la istrombazzata di parole senza costrutto (rr. 13-14) di Mussolini cui rispondono i folli gridi (r. 20) e i ritmi concitati e turpissimi (r. 21) della moltitudine. In un secondo momento, si passa all’aspetto coreografico/gestuale: il dittatore sembra dirigere la folla come fosse un’orchestra, con una serie di movimenti che mirano a elicitare, properare, assistere, spengere quella foja in contenuta (rr. 29-30) secondo i suoi desideri. Infine, si ritorna alla prevalenza del suono (la boce e gli urli soli del frenetico, r. 37, come ululati di un lupo), ma questa volta per introdurre il finale amaro del silenzio, in cui lo stile, fino a un certo punto eccessivo e grottesco, cede il posto a una purezza quasi lirica: il tempo migliore d’una generazione, che è pervenuta a vecchiezza a traverso il silenzio (rr. 40-41).

L’innominabile

Mussolini non viene mai chiamato per nome, e neanche con il suo appellativo “duce”: né qui, né altrove. Gadda si riferisce a lui o storpiandone il titolo (Ku-ce, r. 21, 33), o usando delle perifrasi (Primo Ministro delle bravazzate, r. 6; Maresciallo del cacchio, r. 7), oppure per mezzo di figure retoriche su un piano metonimico (lo spiritato, r. 1; del frenetico, r. 37) e metaforico (“capocamorra”, r. 34). Questa scelta è dovuta a dispregio e a sberleffo, per sminuire l’imponenza di quel nome, così sinistramente significativo soprattutto negli anni in cui queste pagine sono state scritte; ma questa insistenza nel dileggio cela forse, anch’essa, la volontà, da parte dell’autore, di liberarsi del senso di colpa di essere stato anch’egli uno dei tanti silenziosi sostenitori della dittatura.

Il tesoro della letteratura - volume 2
Il tesoro della letteratura - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento