La buona salute dello sberleffo
Che ne è stato della letteratura satirica nel Novecento italiano? Che fine ha fatto quel ricco universo che – da Cielo d’Alcamo e Cecco Angiolieri in poi passando per Burchiello Berni e Folengo e non trascurando grandi autori come Dante e Ariosto fino ad arrivare a Parini – da sempre rappresenta il grottesco nel mondo, irridendo potenti o presunti tali, castigando costumi con il sorriso o con l’indignazione, togliendo la maschera a ipocriti e perbenisti e mostrandone bassezza, miserie e viltà?
Il sapore ludico e sferzante dei versi o delle prose satiriche si gusta ancora in tutto il secolo scorso: grazie a maestri dell’irriverenza come Achille Campanile, Cesare Zavattini, Ennio Flaiano, Leo Longanesi, la letteratura italiana contemporanea ha continuato a versare il fiele del sarcasmo, ora irridendo ora dando sfogo all’astio dell’invettiva ora motteggiando più pietosamente e con sorridente indulgenza per le debolezze umane. In molti casi, sia che si percorra la strada della canzonatura dissacrante ma in fondo bonaria, sia che la riprovazione morale prorompa senza misura sui malcapitati bersagli della parola acuminata, gli autori satirici fanno sfoggio dell’invenzione verbale per divertire ma anche per beffare, smascherare e capovolgere buone ma immeritate reputazioni.