Un secolo “leopardiano”
In quali forme si manifesta l’incidenza di Leopardi nella cultura novecentesca sia nel campo della poesia, della narrativa, della saggistica, e delle arti in generale, sia nel campo delle idee (filosofiche, politiche, estetiche) che hanno attraversato il “secolo breve”? È molto difficile rispondere a questa domanda, dal momento che la presenza del poeta di Recanati nel pensiero e nell’opera dei letterati italiani del Novecento è pressoché costante, a partire dall’Ermetismo: i poeti legati a questa corrente rileggono i suoi testi in opposizione all’oratoria di Carducci, all’eloquenza di d’Annunzio, all’ingenuità infantile di Pascoli, ai toni dimessi dei Crepuscolari o a quelli roboanti dei Futuristi. La parola di Leopardi diventa il segno misterioso, puro e «innocente» (l’aggettivo è di Ungaretti) per mettere a fuoco un impegno autentico, etico ed esistenziale, nella ricerca della verità della condizione umana.
Nel secondo dopoguerra, il mito di Leopardi si rinnova senza perdere forza di suggestione: i suoi versi risuonano nelle poesie o nelle proposte critiche di quanti colgono in lui il modello di una poetica eroica, anti-idillica, capace di trasformare la scrittura in esperienza tutt’altro che autoreferenziale o consolatoria, ma al contrario vitale e utile nella vita come sprone alla partecipazione e alla responsabilità individuale nel proprio tempo. La sua visione del mondo riecheggia in molti autori: tra questi una scrittrice formidabile, Anna Maria Ortese, che considera Leopardi il «poeta più amato» e che apprende da lui la concezione filosofica del male, la presenza del dolore nel cosmo, il senso autentico dell’esistenza, il rifiuto dell’antropocentrismo e del mito del progresso.