L’opera
Ricordi
Solo quattordici anni separano la nascita di Francesco Guicciardini da quella di Niccolò Machiavelli. Eppure sembra passata un’epoca, tanto la stessa lezione di Machiavelli è stata assimilata e, al tempo stesso, almeno in parte superata. La passione, il carattere militante del Principe, la fiducia nell’uomo e nella sua capacità di determinare il proprio destino: sono le caratteristiche di Machiavelli che la Storia, la crisi italiana e lo scetticismo di Guicciardini dimostrano come ormai inattuali e impraticabili. Nell’opera di Machiavelli abbiamo incontrato un realismo senza consolazioni, ma ancora sostenuto dalle illusioni. In quella di Guicciardini lo stesso realismo conduce ormai al disincanto. Il primo sogna grandi progetti, con l’urgenza di chi sente la frana avvicinarsi. Il secondo vi ha rinunciato, perché il crollo è già avvenuto.
La redazione e la struttura
Il pensiero e la visione della realtà
La lontananza di Dio e la critica alla Chiesa Anche sul piano etico-religioso, Guicciardini si basa su una prospettiva personale. Egli non nega l’esistenza di Dio, ma la religione rappresenta per lui una serie di dogmi incontrollabili: la Provvidenza divina non può essere afferrata dalla nostra mente; Dio rimane sullo sfondo, artefice di un disegno che occorre accettare senza farsi domande.
Le poche parole che Guicciardini dedica a tematiche religiose sono di aspra critica alla Chiesa, giudicata colpevole di aver tradito il messaggio evangelico.
L’importanza sociale e politica che Machiavelli affidava alla religione viene meno del tutto. Come tutti gli altri modelli ideali di riferimento, anche l’orizzonte spirituale finisce con Guicciardini per ridursi a una problematica tutta individuale.
Il «particulare» In assenza di ideali collettivi, Guicciardini esorta a inseguire il «particulare», l’altro concetto chiave del suo pensiero. Tale concezione non consiste nell’egoistica ricerca del beneficio personale e materiale, ma nel tentativo di salvaguardare, in mezzo a una realtà caotica, la capacità di «mantenersi la riputazione e el buono nome» (ricordo 218). Anche se questo non esclude la possibilità di cogliere vantaggiose opportunità di cariche, onori e retribuzioni, Guicciardini nobilita il concetto del «particulare» facendo sì che convenienza e benefici privati non siano in contrapposizione con gli interessi della comunità e il bene dello Stato. Ciò non toglie che una tale visione abbia poco o nulla di epico: lo stesso autore, per esempio, ammette senza remore di aver fatto carriera nello Stato pontificio seguendo il proprio «particulare», pur sognando un mondo affrancato dalla «tirannide di questi scelerati preti».
Una prassi opportunistica? Forse, ma fare politica per Guicciardini significa accettare anche il compromesso e non disdegnare di collaborare con il potere tirannico, sia esso rappresentato dai Medici o dai «preti». È questo il prezzo, inevitabile, da pagare per agire davvero nel proprio tempo, senza condannarsi all’irrilevanza o a una sterile testimonianza.
Un lucido pessimismo
L’ineluttabilità degli eventi non esclude l’ambizione Su un punto almeno possiamo concordare con De Sanctis: Guicciardini non è in grado di concepire alternative positive né di lanciare un messaggio di risoluto antagonismo; atti di fede o gesti eroici non correggono, secondo lui, il corso degli eventi. Nella civiltà umana, tutto è destinato a cambiare e a perire, ma la sostanza del mondo rimane immodificabile: «El mondo fu sempre di una medesima sorte; e tutto quello che è e sarà, è stato in altro tempo, e le cose medesime ritornano, ma sotto diversi nomi e colori». Tuttavia, questo pessimismo che lo pervade non comporta la rinuncia a operare. Anzi, è avvertibile, nei Ricordi, l’autoritratto di un intellettuale sospinto dalla ricerca dell’«onore», della «riputazione», della «degnità». L’ambizione non è «dannabile» e non è biasimevole l’«ambizioso» se, stimolato da «appetito» di «gloria», a questa punta con «mezzi onesti e onorevoli». Non solo legittima, l’ambizione è persino virtuosa quando è caratterizzata da un forte valore civico; diventa invece riprovevole se chi detiene il potere non si fa scrupolo, per realizzare i propri scopi, di calpestare i valori fondamentali dell’uomo, quali la coscienza, l’onore e l’umanità.
Per Guicciardini, però, le possibilità di incidere sulla realtà e modificarla sono pressoché nulle. Da qui si alimentano una dolorosa percezione della vanità della vita e uno sconsolato esame dei comportamenti umani, in cui dominano egoismi e interessi personali. A differenza di Machiavelli, che lo reputava spregevole per natura, Guicciardini ritiene che l’uomo sia «inclinato» al bene, ma che la sua coscienza debole finisca per deviarlo verso il male.
Lo stile
Una forma che rispecchia il contenuto La tradizione a cui l’autore si ricollega è quella, tipicamente fiorentina, dei “ricordi domestici”, testi miscellanei (cioè composti da elementi molto diversi: dai resoconti patrimoniali a riflessioni generali sulla vita) con i quali i grandi mercanti fiorentini tramandavano alle generazioni future la narrazione delle proprie esperienze. Non si tratta certamente di una scelta stilistica solo esteriore: la forma del “ricordo” (oggi diremmo della massima o dell’aforisma) è infatti congeniale, nella sua secca frammentarietà, a esprimere una visione del mondo del tutto aliena da teorizzazioni schematiche.
I testi
I ricordi che antologizziamo conservano il numero e l’ordine che hanno nella raccolta, ma vengono qui raggruppati secondo un criterio tematico.
Temi e motivi dei testi antologizzati |
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T1 |
Empirismo e senso pratico Ricordi, 35; 81; 110; 117; 125; 187; 207 |
• il distacco fra teoria e pratica • la negazione della Storia come fonte di insegnamento • la necessità di considerare ogni aspetto della realtà |
T2 |
I concetti chiave del pensiero di Guicciardini Ricordi, 6; 30; 66; 118; 186; 218 |
• la comprensione dei fatti umani attraverso la valutazione caso per caso • l’impossibilità di elaborare regole di condotta universali • la ricerca dell’interesse personale quale scopo dell’uomo saggio • il peso decisivo della fortuna nelle vicende umane |
T3 |
La natura umana Ricordi, 5; 15; 17; 24; 32; 41; 134; 145; 161 |
• la fragilità dell’uomo alla base delle contraddizioni del suo comportamento • l’ambizione e la convenienza quali motori delle azioni umane |
Per approfondire Quando il saggio sentenzia: la fortuna dell’aforisma
La parola aforisma viene dal greco aphorismós, che significa “definizione”. È una proposizione che riassume in modo chiaro il risultato di una precedente riflessione. In origine, l’aforisma concentrava ideali di saggezza riferiti soprattutto al campo medico: la prima raccolta di queste brevi massime fu attribuita al medico greco Ippocrate di Cos (ca 460-377 a.C.), autore di precetti nati dalla sua esperienza.
Un carattere etico, più in linea con i contenuti dell’aforisma moderno, hanno i Ricordi dell’imperatore romano Marco Aurelio (121-180).
La scrittura aforistica si diffonde negli ambiti più diversi soprattutto nel Seicento e nel Settecento.
Nel corso dell’Ottocento, l’aforisma diviene anche lo strumento per esprimere in modo immediato il carattere soggettivo di un’illuminazione improvvisa: per frammenti, pensieri o aforismi scrivono i romantici tedeschi Friedrich Schlegel (1772-1829) e Novalis (1772-1801), oltre a Giacomo Leopardi (1798-1837), che fa dei Pensieri e in parte anche dello Zibaldone l’officina in cui riversare meditazioni. Maestro dell’aforisma è soprattutto il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), che si vanta di poter dire «in dieci proposizioni quel che ogni altro dice in un libro, quel che ogni altro non dice in un libro». Nel Novecento, il successo – anche commerciale – dell’aforisma diventa costante: maestri del genere, in Italia, sono stati Leo Longanesi (1905-1957) ed Ennio Flaiano (1910-1972).
Il tesoro della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento