L’opera

Ricordi

Solo quattordici anni separano la nascita di Francesco Guicciardini da quella di Niccolò Machiavelli. Eppure sembra passata un’epoca, tanto la stessa lezione di Machiavelli è stata assimilata e, al tempo stesso, almeno in parte superata. La passione, il carattere militante del Principe, la fiducia nell’uomo e nella sua capacità di determinare il proprio destino: sono le caratteristiche di Machiavelli che la Storia, la crisi italiana e lo scetticismo di Guicciardini dimostrano come ormai inattuali e impraticabili. Nell’opera di Machiavelli abbiamo incontrato un realismo senza consolazioni, ma ancora sostenuto dalle illusioni. In quella di Guicciardini lo stesso realismo conduce ormai al disincanto. Il primo sogna grandi progetti, con l’urgenza di chi sente la frana avvicinarsi. Il secondo vi ha rinunciato, perché il crollo è già avvenuto.

La redazione e la struttura

Una scrittura privata Scritti in un arco di tempo molto lungo (la prima redazione risale al 1512, l’ultima al 1530), i Ricordi sono una serie di brevi riflessioni, condensate in 221 testi, che contengono il succo del pensiero guicciardiniano. Inizialmente considerati il frutto di una divagazione o degli «ozi» tra un incarico politico e l’altro, essi tuttavia presentano di stesura in stesura un’argomentazione sempre più serrata e analitica: nella redazione definitiva, l’autore ridimensiona i riferimenti alla realtà fiorentina e all’attualità per meditare invece sui problemi universali del comportamento umano. Il titolo non va inteso nel significato che diamo oggi alla parola, ma nel senso di “ammonimenti, consigli da ricordare”. Pubblicati postumi, i Ricordi nascono come una scrittura privata, stimolata dalla riflessione su diversi argomenti e aspetti della vita (in primo luogo la politica).

Un antitrattato: la struttura frammentaria L’opera ha una natura frammentaria e non sistematica e presenta talvolta una certa contraddittorietà, dovuta sia all’arco temporale in cui i pensieri vengono scritti, sia alla visione del mondo dell’autore, tutt’altro che prestabilita e dogmatica. I Ricordi sono perciò l’opera che meglio esemplifica l’insofferenza di Guicciardini verso ogni tentativo di ricomporre le diverse sfaccettature della realtà, che si presentano sempre in forme specifiche e peculiari.

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Il pensiero e la visione della realtà

Nei meandri della realtà L’obiettivo che si propone Guicciardini è fare ordine nella complessità del reale per uscire dal confuso labirinto dei comportamenti umani. Le antiche certezze sono svanite per sempre ma questo non implica la rinuncia alla conoscenza o un abbandono al fatalismo: al contrario, tale consapevolezza lo induce a registrare l’aspetto mutevole della realtà («la varietà delle circunstanze»), ad analizzarlo senza sovrastrutture per quello che è, e a coglierne la natura specifica attraverso singole ricognizioni, per frammenti, tenendo presente che forze ingovernabili (la «fortuna») esercitano il proprio dominio sulle cose umane.

La lontananza di Dio e la critica alla Chiesa Anche sul piano etico-religioso, Guicciardini si basa su una prospettiva personale. Egli non nega l’esistenza di Dio, ma la religione rappresenta per lui una serie di dogmi incontrollabili: la Provvidenza divina non può essere afferrata dalla nostra mente; Dio rimane sullo sfondo, artefice di un disegno che occorre accettare senza farsi domande.

Le poche parole che Guicciardini dedica a tematiche religiose sono di aspra critica alla Chiesa, giudicata colpevole di aver tradito il messaggio evangelico.

L’importanza sociale e politica che Machiavelli affidava alla religione viene meno del tutto. Come tutti gli altri modelli ideali di riferimento, anche l’orizzonte spirituale finisce con Guicciardini per ridursi a una problematica tutta individuale.

«Discrezione» e «prudenza» In questo ripiegamento nella sfera privata, la missione decisiva per l’individuo è salvaguardare la propria identità e dignità. Per riuscirvi, l’uomo deve sapersi orientare sulla base della «discrezione», un insieme di concretezza e moderazione, qualità che non si ricava dalla lettura dei libri, ma dalla «prudenza naturale», cioè da una disposizione innata, a sua volta esercitata e rafforzata grazie all’esperienza. La «discrezione» permette di cogliere lo sviluppo e il modificarsi degli avvenimenti senza proiezioni ideali nel futuro, ma solo attraverso un serrato confronto con il presente. È senza dubbio un atteggiamento difensivo, che vuole evitare i rischi e le avventure e invita invece a soppesare le circostanze, a impedire forzature, a far coincidere «saviezza» con «prudenza» e oculatezza.

Il «particulare» In assenza di ideali collettivi, Guicciardini esorta a inseguire il «particulare», l’altro concetto chiave del suo pensiero. Tale concezione non consiste nell’egoistica ricerca del beneficio personale e materiale, ma nel tentativo di salvaguardare, in mezzo a una realtà caotica, la capacità di «mantenersi la riputazione e el buono nome» (ricordo 218). Anche se questo non esclude la possibilità di cogliere vantaggiose opportunità di cariche, onori e retribuzioni, Guicciardini nobilita il concetto del «particulare» facendo sì che convenienza e benefici privati non siano in contrapposizione con gli interessi della comunità e il bene dello Stato. Ciò non toglie che una tale visione abbia poco o nulla di epico: lo stesso autore, per esempio, ammette senza remore di aver fatto carriera nello Stato pontificio seguendo il proprio «particulare», pur sognando un mondo affrancato dalla «tirannide di questi scelerati preti».

Una prassi opportunistica? Forse, ma fare politica per Guicciardini significa accet­tare anche il compromesso e non disdegnare di collaborare con il potere tirannico, sia esso rappresentato dai Medici o dai «preti». È questo il prezzo, inevitabile, da pagare per agire davvero nel proprio tempo, senza condannarsi all’irrilevanza o a una sterile testimonianza.

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Un lucido pessimismo

Guicciardini maestro di egoismo e passività? Nel 1869 il critico Francesco De Sanctis, da uomo del Risorgimento qual era, diede un giudizio molto severo sul pensiero di Guicciardini. Cogliendovi le tracce di una malattia morale che avrebbe contagiato gli italiani fino all’Ottocento, egli condannava Guicciardini come l’emblema del dissidio tra pensiero e azione e come degno rappresentante italico di un’antica tendenza al compromesso e al conformismo. Al generoso Machiavelli, profeta e anticipatore dell’Unità d’Italia (con tutte le forzature del caso), veniva contrapposto il Guicciardini freddo calcolatore e abile trasformista. Ciò che ripugnava a De Sanctis (e, con lui, a un’intera generazione di patriottici idealisti) era lo scetticismo verso ogni ipotesi di cambiamento, nonché la mancanza di slancio appassionato e di carattere.

L’ineluttabilità degli eventi non esclude l’ambizione Su un punto almeno possiamo concordare con De Sanctis: Guicciardini non è in grado di concepire alternative positive né di lanciare un messaggio di risoluto antagonismo; atti di fede o gesti eroici non correggono, secondo lui, il corso degli eventi. Nella civiltà umana, tutto è destinato a cambiare e a perire, ma la sostanza del mondo rimane immodificabile: «El mondo fu sempre di una medesima sorte; e tutto quello che è e sarà, è stato in altro tempo, e le cose medesime ritornano, ma sotto diversi nomi e colori». Tuttavia, questo pessimismo che lo pervade non comporta la rinuncia a operare. Anzi, è avvertibile, nei Ricordi, l’autoritratto di un intellettuale sospinto dalla ricerca dell’«onore», della «riputazione», della «degnità». L’ambizione non è «dannabile» e non è biasimevole l’«ambizioso» se, stimolato da «appetito» di «gloria», a questa punta con «mezzi onesti e onorevoli». Non solo legittima, l’ambizione è persino virtuosa quando è caratterizzata da un forte valore civico; diventa invece riprovevole se chi detiene il potere non si fa scrupolo, per realizzare i propri scopi, di calpestare i valori fondamentali dell’uomo, quali la coscienza, l’onore e l’umanità.

Per Guicciardini, però, le possibilità di incidere sulla realtà e modificarla sono pressoché nulle. Da qui si alimentano una dolorosa percezione della vanità della vita e uno sconsolato esame dei comportamenti umani, in cui dominano egoismi e interessi personali. A differenza di Machiavelli, che lo reputava spregevole per natura, Guicciardini ritiene che l’uomo sia «inclinato» al bene, ma che la sua coscienza debole finisca per deviarlo verso il male.

Un pessimismo che riflette un’epoca La perentorietà di questo pensiero è dettata anche dal contesto politico in cui esso matura. La tragica condizione italiana e gli alti e bassi della propria carriera politica accentuano il senso di sfiducia e di fallimento insito nel pensiero guicciardiano. La riflessione amara e disincantata dello storico, del politico e dell’analista dell’agire umano finisce per coincidere. Guicciardini è convinto che la crisi politico-militare italiana sia irreversibile; ha conosciuto in prima persona gli uomini che hanno dominato la scena politica del tempo; ha assistito a quella sconvolgente tragedia che è stato il sacco di Roma: come potrebbe condividere ancora la foga eroica e vibrante di Machiavelli?
Il moderatismo di un uomo d’ordine Rifiutando ogni prospettiva rivoluzionaria, a Guicciardini non rimane che cercare una condizione di dignitoso equilibrio, affidando lo scettro del comando agli «ottimati» (cioè ai cittadini di rango), a quegli uomini della sua stessa classe sociale che oggi definiremmo conservatori e che a suo giudizio sono gli unici dotati di esperienza e capacità amministrativa. Salvaguardare l’ordine e il buon senso, conoscendo dall’interno la macchina dello Stato: a questo programma, per quanto esclusivamente tecnico, Guicciardini è rimasto coerente per tutta la vita.

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Lo stile

Una forma che rispecchia il contenuto La tradizione a cui l’autore si ricollega è quella, tipicamente fiorentina, dei “ricordi domestici”, testi miscellanei (cioè composti da elementi molto diversi: dai resoconti patrimoniali a riflessioni generali sulla vita) con i quali i grandi mercanti fiorentini tramandavano alle generazioni future la narrazione delle proprie esperienze. Non si tratta certamente di una scelta stilistica solo esteriore: la forma del “ricordo” (oggi diremmo della massima o dell’aforisma) è infatti congeniale, nella sua secca frammentarietà, a esprimere una visione del mondo del tutto aliena da teorizzazioni schematiche.

La scelta dell’aforisma Guicciardini sottopone i Ricordi a un continuo lavoro di limatura e revisione, come dimostrano le varianti e le correzioni apportate ai singoli testi. La struttura dell’aforisma è per sua natura veloce e sintetica, e infatti le frasi guicciardiniane si contraddistinguono per uno stile vivace e immediato, che non rinuncia a incursioni nella lingua popolaresca. Non mancano i latinismi, ma ciò rientra nella pratica abituale della scrittura burocratica, usata nelle cancellerie per dare ai documenti un carattere di dignità e solennità.

I testi

I ricordi che antologizziamo conservano il numero e l’ordine che hanno nella raccolta, ma vengono qui raggruppati secondo un criterio tematico.

Temi e motivi dei testi antologizzati

T1

Empirismo e senso pratico

Ricordi, 35; 81; 110; 117; 125; 187; 207

il distacco fra teoria e pratica

• la negazione della Storia come fonte di insegnamento

la necessità di considerare ogni aspetto della realtà

T2

I concetti chiave del pensiero di Guicciardini

Ricordi, 6; 30; 66; 118; 186; 218

• la comprensione dei fatti umani attraverso la valutazione caso per caso

l’impossibilità di elaborare regole di condotta universali

la ricerca dell’interesse personale quale scopo dell’uomo saggio

il peso decisivo della fortuna nelle vicende umane

T3

La natura umana

Ricordi, 5; 15; 17; 24; 32; 41; 134; 145; 161

• la fragilità dell’uomo alla base delle contraddizioni del suo comportamento

• l’ambizione e la convenienza quali motori delle azioni umane

Per approfondire Quando il saggio sentenzia: la fortuna dell’aforisma

La parola aforisma viene dal greco aphorismós, che significa “definizione”. È una proposizione che riassu­me in modo chiaro il risultato di una precedente riflessione. In origine, l’aforisma concentrava ideali di saggezza riferiti soprattutto al campo medico: la prima raccolta di queste brevi massime fu attribuita al medico greco Ippocrate di Cos (ca 460-377 a.C.), autore di precetti nati dalla sua esperienza.

Un carattere etico, più in linea con i contenuti del­l’aforisma moderno, hanno i Ricordi dell’imperatore romano Marco Aurelio (121-180).

La scrittura aforistica si diffonde negli ambiti più diversi soprattutto nel Seicento e nel Settecento.

Nel corso dell’Ottocento, l’aforisma diviene anche lo strumento per esprimere in modo immediato il carattere soggettivo di un’illuminazione improvvisa: per frammenti, pensieri o aforismi scrivono i romantici tedeschi Friedrich Schlegel (1772-1829) e Novalis (1772-1801), oltre a Giacomo Leopardi (1798-1837), che fa dei Pensieri e in parte anche dello Zibaldone l’officina in cui riversare meditazioni. Maestro dell’aforisma è soprattutto il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), che si vanta di poter dire «in dieci proposizioni quel che ogni altro dice in un libro, quel che ogni altro non dice in un libro». Nel Novecento, il successo – anche commerciale – dell’aforisma diventa costante: maestri del genere, in Italia, sono stati Leo Longanesi (1905-1957) ed Ennio Flaiano (1910-1972).

Il tesoro della letteratura - volume 1
Il tesoro della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento