I grandi temi

I grandi temi

1 Tra politica e letteratura: l’autoritratto

La politica, passione di una vita La scrittura epistolare svolge per Machiavelli la funzione del diario, in cui riversare idee e stati d’animo, aggiungendo di volta in volta qualche spunto, serio o giocoso, con cui descrivere sé stesso e manifestare agli amici la passione con cui ha alimentato la propria unica, vera vocazione: la politica.

Dunque, per iniziare a conoscere più da vicino Machiavelli, proponiamo la lettura di una lettera. Si tratta di un’epistola scritta in un momento di grande amarezza: con la fine della repubblica e la restaurazione medicea, egli si trova relegato nella condizione di esiliato, costretto a svolgere attività di poco conto e a frequentare uomini di basso livello.

L’autobiografia di un uomo in prima linea Tuttavia, Machiavelli non rinuncia allo studio degli storici antichi. Smessi gli abiti della giornata, sporchi del fango della campagna, indossa abiti eleganti. Il dialogo – Niccolò parla di «conversazione» – con i suoi autori esige serietà e rispetto. Le difficoltà della vita reale vengono così dimenticate: la missione da compiere è scrivere e dimostrare con il suo «opuscolo», Il Principe, che gli anni vissuti in prima linea, lui, il segretario Machiavelli, non se li è «né dormiti né giuocati».
Un curioso osservatore della vita Esistenza privata e militanza politica si trova­no, del resto, sempre intrecciate nell’insieme tragico e comico della vita. Tuttavia anche la comicità, la beffa, le fantasie meno edificanti e più terrene fanno parte di quella realtà composita e contraddittoria che la curiosità di Machiavelli investiga e considera come una parte di sé. Per questo non dobbiamo stupirci se in tutta la sua opera troviamo anche risvolti più bassi e quasi degradanti e se lo studio degli ingranaggi dell’alta politica si accompagna all’osservazione di un mondo reale meschino e apparentemente privo di interesse: è la capacità di Machiavelli di indagare con sottigliezza e profondità la natura degli esseri umani.

T1

L’epistola a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513

Epistolario

È la lettera più nota dell’Epistolario machiavelliano: vi ritroviamo un quadro vivace e colorito della vita semplice che l’autore, estromesso dalla politica, è costretto a condurre nella sua casa di campagna, all’Albergaccio, nel piccolo borgo di contadini vicino a San Casciano. Tuttavia, pur a contatto con gente rozza e incolta, non si è esaurita la passione intellettuale di Machiavelli, che annuncia all’amico Francesco Vettori (ambasciatore di Firenze a Roma) l’avvenuta stesura del Principe.

Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine.1 Dico questo, perché  
mi pareva haver perduta no, ma smarrita2 la grazia vostra, sendo3 stato voi assai  
tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione.4 E di tutte  
quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io 

5      dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi,5 perché vi fussi suto scritto6 che io  
non fussi buon massaio7 delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in 
fuora,8 altri per mio conto9 non le haveva viste. Hònne rihaùto per l’ultima vostra 
de’ 23 del passato,10 dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e 
quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico;11 e io vi conforto a seguire12 così, 

10    perché chi lascia i sua comodi13 per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non 
li è saputo grado.14 E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla 
fare,15 stare quieto e non le dare briga,16 e aspettar tempo che la lasci fare qualche 
cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar17 più le cose, 
e a me partirmi di villa18 e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari 

15    grazie,19 dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate 

         che sia a barattarla20 con la vostra, io sarò contento mutarla. 
Io mi sto in villa; e poi che seguirono21 quelli miei ultimi casi,22 non sono 
stato, ad accozzarli23 tutti, venti dì a Firenze. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di 
mia mano.24 Levavomi innanzi dì,25 impaniavo,26 andavone oltre con un fascio di

20    gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Amphitrione;27 
pigliavo el meno28 dua, el più sei tordi. E così stetti tutto settembre. Di 
poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano,29 è mancato con mio dispiacere:  
e quale30 la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene31
in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere32 del giorno

25    passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura 
alle mani33 o fra loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle34
cose che mi sono intervenute,35 e con Frosino da Panzano e con altri che voleano 
di queste legne. E Frosino in spezie mandò per36 certe cataste senza dirmi nulla; e 
al pagamento, mi voleva rattenere37 dieci lire, che dice aveva havere da me quattro 

30    anni sono,38 che mi vinse a cricca39 in casa Antonio Guicciardini.40 Io cominciai 
a fare el diavolo, volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro.41

Tandem42 Giovanni Machiavelli43 vi entrò di mezzo,44 e ci pose d’accordo. Batista  
Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando 
quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese45 una catasta. Io promessi a tutti; 

35    e manda’ne una a Tommaso, la quale tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi 
era lui, la moglie, la fante, i figlioli,46 che pareva el Gaburra quando el giovedì con 
quelli suoi garzoni bastona un bue.47 Dimodoché, veduto in chi48 era guadagno, 
ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso,49 e in 
specie Batista, che connumera50 questa tra le altre sciagure di Prato. 

40    Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare.51
Ho un libro sotto,52 o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori,53 come Tibullo, 
Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori ricordomi de’ 
mia:54 gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada, nell’hosteria;  
parlo con quelli che passono, dimando delle nuove55 de’ paesi loro; intendo 

45    varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie56 d’huomini. Viene in questo mentre57
l’hora del desinare, dove con la mia brigata58 mi mangio di quelli cibi che questa povera  
villa e paululo patrimonio comporta.59 Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: 
quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio,60 un mugnaio, dua fornaciai. Con questi 
io m’ingaglioffo61 per tutto dì giuocando a cricca, a trich-trach,62 e poi dove nascono 

50    mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un 
quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano.63 Così, rinvolto in tra 
questi pidocchi,64 traggo el cervello di muffa,65 e sfogo questa malignità di questa mia 
sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.66
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio;67 e in sull’uscio mi 

55    spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto,68 e mi metto panni reali 
e curiali;69 e rivestito condecentemente,70 entro nelle antique corti delli antiqui 
huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum 
è mio e ch’io nacqui per lui;71 dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli72 
della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; 

60    e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non 
temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.73 E 
perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso74 – io ho 
notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale,75 e composto uno 
opuscolo De principatibus;76 dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni 

65    di questo subietto,77 disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come 
e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai 
alcuno mio ghiribizzo,78 questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e 
massime79 a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però80 io lo indirizzo

alla Magnificentia di Giuliano.81 Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare  

70    in parte e della cosa in sé e de’ ragionamenti ho hauto seco, ancora che tutta 
volta io l’ingrasso e ripulisco.82
Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a 
godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta83 hora è 
certe mie faccende, che fra sei settimane l’harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, 

75    che sono costì quelli Soderini, e quali sarei forzato, venendo costì, visitarli e parlar 
loro.84 Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi 
nel Bargiello; perché, ancora che questo stato habbia grandissimi fondamenti e 
gran securità, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti, 
che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono 

80    el pensiero a me.85 Pregovi mi solviate86 questa paura, e poi verrò in fra el tempo 
detto a trovarvi a ogni modo.  

Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo
dare;87 e, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi.
El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non che altro, letto; 

85    e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia fatica.88 El darlo mi faceva89
la necessità che mi caccia,90 perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare
così che io non diventi per povertà contennendo,91 appresso al desiderio harei92 che
questi signori Medici mi cominciassino adoperare,93 se dovessino cominciare a farmi
voltolare un sasso;94 perché, se poi io non me gli guadagnassi,95 io mi dorrei di me; 

90    e per questa cosa,96 quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni, che io sono
stato a studio all’arte dello stato, non gli ho né dormiti né giuocati;97 e doverrebbe
ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienza.98 
E della fede99 mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato 
la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono 

95    quarantatré anni, che io ho, non debbe poter100 mutare natura; e della fede e bontà
mia ne è testimonio la povertà mia. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi
quello che sopra questa materia101 vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.102
Die103 10 Decembris 1513.

 >> pagina 836 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

La lettera si apre con i convenevoli di rito. Eppure, già possiamo cogliere una punta di bonaria canzonatura, che anticipa il carattere colloquiale della missiva nel suo complesso. Il destinatario (chiamato ampollosamente Magnifico, come imporrebbe un cerimoniale ufficiale) si è fatto attendere a lungo, visto che ha scritto e inviato una lettera con un certo ritardo. Ma – ironizza Machiavelli con una citazione petrarchesca – Tarde non furon mai grazie divine (r. 1), come a dire “meglio tardi che mai”. Quindi il mittente lo esorta, scherzosamente, a essere soddisfatto del suo incarico politico (che ha solo una rilevanza di facciata) e a vivere ordinatamente e quietamente (rr. 8-9), cioè alla giornata, senza avere altre – troppe – pretese.

Dopo l’ironia, il tono però cambia e si fa serio. Lo impone l’argomento, che tocca personalmente l’animo dell’autore: la fortuna, contro la cui malignità sembrerebbe che non ci siano antidoti. Ella si vuole lasciarla fare (rr. 11-12), cioè è necessario lasciare che faccia come vuole. Si tratta di una dichiarazione di impotenza contraddetta nel Principe, dove Machiavelli invece sottolinea la possibilità che la virtù individuale dimezzi almeno il raggio d’azione della fortuna.

Tuttavia, Machiavelli evita di rimpiangere con nostalgia gli anni operosi in cui esercitava un importante ruolo pubblico. Egli infatti non esclude che la sorte possa girare e riammetterlo nel gioco politico: starà a lui in tal caso farsi trovare pronto a mettersi a disposizione dello Stato, come sottolinea la forza dell’espressione conclusiva (eccomi, r. 14).

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Dal secondo capoverso Machiavelli inizia a descrivere la propria vita quotidiana nell’esilio forzato di San Casciano: dopo il periodo settembrino dell’uccellagione, adesso è solito recarsi al bosco per controllare il lavoro dei tagliatori di legna, e lì c’è un primo momento di ritiro intellettuale. L’autore si riposa vicino a una fonte, in compagnia di testi amorosi dei poeti latini Tibullo e Ovidio (rr. 40-42): una specie di ozio rilassante, una divagazione leggera, presto interrotta da un’attività più utile, la conoscenza degli uomini.

Egli infatti, dopo una prima sosta e il pranzo, si reca in osteria. È qui che la sua curiosità lo spinge a mischiarsi con gli abitanti del contado. Si “ingaglioffa” giocando a carte, condividendo umori plebei, umiliandosi al più infimo livello, quasi a farsi beffe del destino che lo ha costretto a tale degradazione (sfogo questa malignità di questa mia sorta, rr. 52-53). E, tuttavia, Machiavelli non rinuncia a fare tesoro anche di questa situazione: immergersi nella realtà dell’osteria significa entrare in contatto con un’umanità semplice, che gli fornirà l’occasione per investigare le relazioni e i comportamenti umani, anche quelli più vili e animaleschi. L’autore guarda a questo universo con un filo di paternalistico snobismo: le espressioni usate (m’ingaglioffo, appunto, r. 49, ma anche pidocchi, r. 52) suggeriscono una sorta di presa di distanza dell’intellettuale da quell’umile regno di modesti lavoratori manuali (il macellaio, il mugnaio, i fornai).

Al racconto autoironico delle attività diurne subentra poi quello serale, più serio e intellettuale. Ma sono due facce della stessa medaglia: la conversazione con i frequentatori dell’osteria è infatti sostituita da quella con gli antiqui huomini (rr. 56-57), dai quali egli si attende di ricavare preziosi insegnamenti. Di questa lezione Machiavelli ha colto i frutti nell’opuscolo che ha finito di redigere: grazie al Principe, pur tra mille titubanze (espresse in forma di dilemma: se gli era ben darlo o non lo dare; […] che io lo portassi, o che io ve lo mandassi, rr. 82-83), spera di essere riammesso nei luoghi ufficiali della politica, che più gli spettano in virtù delle competenze tecniche acquisite e delle qualità di disinteressato servitore dello Stato da lui già mostrate, pur in un regime politico diverso da quello presente. Eppure, la speranza è venata dal dubbio: il destino dell’ex segretario dipende da altri, non da lui (una condizione di drammatica incertezza sottolineata dagli ultimi verbi della lettera, quasi tutti al modo condizionale: harei, mi dorrei, si vedrebbe, doverrebbe per due volte, Desidererei).

Le scelte stilistiche

Le due facce della personalità di Machiavelli si riverberano anche nello stile. Con grande capacità mimetica di adattare la lingua al contesto, l’autore alterna con disinvoltura una forma più bassa, quando narra dell’episodio all’osteria, e una più alta, quando descrive il proprio colloquio con i classici.

Nel primo caso, abbiamo modi popolari e gergali quali fare el diavolo (r. 31) e hanno fatto capo grosso (r. 38). Anche la rappresentazione di sé stesso che l’autore sviluppa adotta immagini caricaturali dal forte sapore espressivo, come quando si paragona al servo di Anfitrione o descrive la propria condizione (m’ingaglioffo, r. 49; rinvolto in tra questi pidocchi, rr. 51-52).

Ben diverso è il procedimento stilistico utilizzato per ritrarre il raccoglimento interiore a contatto con gli amati classici. In questo caso la forma si fa solenne, si addensano le figure retoriche e il lessico si fa più elaborato, a supporto dell’autoritratto, ora non più ironico ma elevato (mi metto panni reali e curiali, rr. 55-56; entro nelle antique corti delli antiqui huomini, rr. 56-57).

 >> pagina 838 

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Chi sono gli interlocutori ideali con cui l’autore si intrattiene nei suoi incontri notturni?


2 Che significato assume per Machiavelli il cambiamento serale degli abiti?


3 Per quale motivo Machiavelli è restio a recarsi a Roma?


4 Nella parte finale dell’epistola, Machiavelli accenna chiaramente alla stesura di un’opera. Di quale opera si tratta? Di che natura sono i dubbi dell’autore sulla sua diffusione?

Analizzare

5 Individua le sei sequenze della lettera, assegna a ciascuna di esse un titolo e riassumine il contenuto, specificando per ogni situazione descritta dall’autore il tempo in cui essa si svolge, il luogo, lo stile e la lingua impiegati nel racconto della circostanza.


6 Individua e registra le espressioni popolaresche presenti nella lettera.

INTERPRETARE

7 Quali inclinazioni emergono nell’indole di Machiavelli quando si dedica a comportamenti futili e viene a contatto con uomini di modesta cultura?

Produrre

8 Scrivere per esporre. Dopo la lettura dell’epistola, possiamo dire di sapere tutto (o quasi) della vita quotidiana di Machiavelli nel suo esilio all’Albergaccio. Nelle vesti fittizie di giornalista, immagina di intervistarlo, facendolo esprimere nel linguaggio di oggi, senza rinunciare al colore e alla vivacità del suo stile.

Dibattito in classe

9 Machiavelli afferma che la lettura dei grandi autori del passato e il dialogo che essa instaura con loro costituiscono l’unico sollievo alle ansie e alle amarezze della vita quotidiana. Anche per te la lettura (o un’altra attività) ha la stessa funzione? Confrontati con i compagni.

2 Alla ricerca delle regole della politica: la lezione della Storia

Un’opera pratica… Lo scopo di tutta l’opera machiavelliana è fornire indicazioni utili a superare la crisi che sta vivendo l’Italia, frammentata in una serie di deboli Stati regionali o cittadini, e incapace – politicamente, militarmente e moralmente – di emanciparsi dalla crescente ingerenza delle potenze europee. Da questa finalità pratica deriva la scelta di concentrarsi invece sugli avvenimenti contemporanei, nel tentativo di capire il presente e fornire gli strumenti per mettere fine alle contese particolaristiche e per rendere così possibile la formazione di uno Stato unitario forte e sicuro, sia all’interno sia all’esterno.
… ma anche un’opera teorica Tuttavia, se l’opera di Machiavelli – Il Principe, in particolare – è legata a uno specifico momento storico, va detto che non si esaurisce in esso. È vero che la sua riflessione nasce dal rapporto diretto che l’autore – politico impegnato in prima persona – vive con la real­tà storica, ma le soluzioni proposte indicano norme e strategie che hanno una validità universale, al di là delle circostanze che le hanno generate.
Il realismo adottato nell’indagare la realtà rappresenta il cardine di un nuovo principio teorico e la base di una metodologia empirica, affidata cioè allo studio realistico delle circostanze e all’esperienza, sia quella diretta e personale del testimone della vita politica del tempo sia quella assimilata dalle fonti storiche antiche e moderne.

 >> pagina 839

Imparare dalla Storia Machiavelli è convinto che una valida dottrina politica possa venire alla luce «facendo profitto» dei comportamenti umani, sin dall’antichità. La Storia acquisisce quindi una valenza pedagogica: essa è, secondo la concezione umanistica, “maestra di vita”. Questa visione della Storia si fonda sul presupposto che, pur in epoche lontane e apparentemente diverse, l’uomo conservi sempre il medesimo comportamento e sia animato dalle stesse pulsioni (Machiavelli parla di «appetiti», con evidente riferimento alla natura animale delle insaziabili ambizioni umane).

Come prescriveva la concezione naturalistica tipica del Rinascimento, anche secondo Machiavelli gli uomini non si trasformano con il succedersi dei secoli, ma rimangono immobili in ogni tempo e latitudine.

Si deve imitare il passato, ma non passivamente Per questo, il principe «prudente» deve trovare negli «esempli» del passato i rimedi per risolvere crisi e difficoltà. Con questo invito Machiavelli riafferma un criterio, tipico della cultura umanistica: il principio dell’imitazione. In particolare, gli intellettuali dell’Umanesimo civile fiorentino avevano cercato nell’antichità riferimenti validi per l’impegno pubblico, rivissuto grazie alla fede in una politica animata da virtù individuali e collettive. Machiavelli si colloca a conclusione di questa tradizione: la drammatica coscienza della rovinosa decadenza italiana lo porta a «biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri» (Discorsi, II, Proemio). Ciò spiega la sua forte carica polemica nei confronti del proprio tempo, carica polemica che non risparmia anche la tendenza a imitare passivamente e in modo indiscriminato i classici.

Anche l’imitazione perciò deve essere selettiva: non deve ridursi a essere fine a sé stessa, né comportare uno sterile rifugiarsi nel passato. In particolare nella politica, l’imitazione deve configurarsi come il motore del rinnovamento, la spinta decisiva a recuperare «nuova vita e nuova virtù» (Discorsi, III, 1). Perché ciò sia possibile, è necessario che essa non sia astratta, generica o libresca, bensì che diventi concreta e operativa, in grado cioè di incidere sulla realtà adattandosi alle specifiche ed effettive condizioni civili, politiche, economiche del presente.

Repubblica o principato: una scelta che dipende dalle circostanze Per questo Machiavelli evita di indicare una forma di governo perfetta, poiché la soluzione politica e istituzionale giusta è solo quella che meglio sa conformarsi alle particolari e contingenti circostanze del momento.

Ciò non toglie che l’autore, nei Discorsi, esprima la sua personale preferenza per la repubblica, capace più del principato di coinvolgere i diversi gruppi sociali nella gestione del potere, sottraendolo al monopolio e all’arbitrio dei pochi sui molti. Ma la repubblica non sempre si rivela la forma migliore: essa infatti può prosperare solo dove le basi del vivere civile siano salde e regolate da buone leggi. Quando invece la corruzione dilaga, l’organismo dello Stato è destinato alla rovina e la repubblica può degenerare in anarchia: allora i vecchi ordinamenti non bastano più e ne occorrono di nuovi. In questo caso (che è poi il caso dell’Italia che ha sotto gli occhi) il repubblicano Machiavelli afferma la necessità dell’assolutismo: soltanto un principe, che gestisca da solo il potere e sia indipendente dai vecchi gruppi egemoni, può salvare dalla rovina un’Italia disunita e priva di guida.

Il tesoro della letteratura - volume 1
Il tesoro della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento