Eccoci al centro del poema, con quello che è l’episodio più celebre e da cui l’opera stessa prende il titolo. Dopo un aspro duello sostenuto con il saraceno Mandricardo, Orlando erra due giorni, finché arriva sulle rive di un fiumicello, tutto costeggiato da prati, fiori, alberi. Senza saperlo, il paladino, innamorato di Angelica e sempre alla sua ricerca, è giunto proprio nei luoghi in cui la donna aveva curato e guarito il fante saraceno Medoro, del quale poi si era innamorata ed era divenuta moglie (canto XIX): lei che aveva rifiutato i più grandi re del Levante, che era sfuggita ai più valenti paladini, si era unita a un semplice soldato.
Invitato dalla luminosità primaverile dei luoghi, Orlando smonta da cavallo e si gode la frescura e la vegetazione. Ma, purtroppo per lui, lo attende una vista terribile: mentre contempla i prati e il fiumicello, scorge, intagliati nella corteccia di diverse piante, i nomi di Angelica e Medoro, e, per di più, vede quei nomi strettamente accostati l’uno all’altro e tra loro intrecciati. Egli ne resta turbato, ma pensa – illudendosi – che Medoro possa essere un vezzeggiativo attribuito da Angelica proprio a lui. Poi però, allontanatosi di poco dal boschetto, scorge, all’ingresso di una grotta, un’incisione in cui Medoro canta il suo felice amore per Angelica. L’epigrafe è scritta in arabo, e per sventura il conte capisce tanto bene quella lingua quanto la propria. I suoi stessi occhi leggono dunque la rivelazione di quella che lui considera una gravissima infedeltà da parte della sua amatissima Angelica. È questo il motivo per cui la mente di Orlando viene sconvolta dalla pazzia.