La vita

La vita

La passione letteraria Primogenito di un conte, Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474, primogenito di dieci fratelli, dal conte ferrarese Niccolò e da Daria Malaguzzi Valeri. A Reggio il padre ricopre la carica di capitano della cittadella, una delle molte della sua carriera di funzionario dei duchi d’Este, la nobile famiglia regnante a Ferrara. Ludovico inizia i primi studi grammaticali e giuridici a Ferrara: come primogenito, è infatti destinato a intraprendere la carriera pubblica del padre.

Ludovico preferisce lo studio delle lettere a quello della giurisprudenza, cui il padre voleva avviarlo; e al genitore non resta che accettare la volontà del figlio. Tra il 1495 e il 1500 Ariosto trascorre così anni spensierati tra amicizie, amori e studi.

La morte del padre e le incombenze familiari Nel 1500 muore il padre, lasciando una discreta eredità, ma anche dieci figli, e tocca a Ludovico, come primogenito, assumersi le cure della famiglia. Intraprende quindi la carriera militare: nel 1502 è capitano di Canossa, una rocca sperduta tra i calanchi dell’Appennino reggiano; l’anno dopo entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este.

Da questo momento la vita di Ludovico sarà divisa tra due attività: quella fastidiosa, ma necessaria alla sussistenza della famiglia, di funzionario alla corte del cardinale Ippolito d’Este, che gli affida missioni diplomatiche sempre più importanti e delicate, e quella prediletta di poeta, che lo impegna nella stesura di un’opera che sviluppa le vicende dell’Orlando innamorato del conterraneo Boiardo.

Nel 1513 Ludovico incontra, a Firenze, Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, e verso di lei nasce un amore che durerà fino alla morte: rimasta vedova nel 1515, diventerà la sua compagna (più avanti si sposeranno in segreto).

La pubblicazione del capolavoro Nel 1516, dopo un lavoro durato circa dieci anni, esce la prima edizione dell’Orlando furioso, un poema cavalleresco in ottave, che conosce subito un successo eccezionale in Italia e in Europa, tanto da essere ben presto tradotto e pubblicato anche in altre lingue. Durante la stesura del suo capolavoro, Ariosto scrive anche le Satire e quattro commedie.

Dal cardinale al duca I suoi rapporti con il cardinale sono quelli del dipendente che ubbidisce e borbotta: gli impegni legati alla sua attività di funzionario di corte non gli piacciono, tanto più quando il successo dell’Orlando furioso lo autorizza a sperare in una vita più quieta e consona al suo genio.

Nel 1517 si rifiuta di seguire il cardinale, nominato vescovo di Buda, in Ungheria e deve abbandonarne il servizio. Questi lo accusa di malvagità e ingratitudine, ma troppe cose trattenevano il poeta a Ferrara: l’età, la salute, i fratelli, l’amore per Alessandra. La rottura risulterà definitiva, con grande rammarico di Ariosto, che al cardinale aveva dedicato il suo poema, consacrandone il nome nei secoli futuri: quando, dopo tre anni, Ippolito tornerà malato a Ferrara per morirvi, nel suo testamento ricorderà tutti, anche i più umili servitori, tranne Ariosto.

Nel 1518 Ludovico è alla corte di Alfonso I d’Este duca di Ferrara: è contento del nuovo incarico che di rado lo costringe ad allontanarsi dalla città. Alfonso è molto meno esigente del fratello e lascia Ariosto piuttosto libero. Tuttavia nel 1522, tornata la Garfagnana in possesso del duca, questi lo manda a governarla con l’incarico di “commissario”: impresa difficile per la rozzezza degli abitanti, la violenza dei contrasti tra le fazioni e la ferocia dei banditi che infestavano questa regione montagnosa. Ariosto fa comunque del suo meglio per portarvi ordine e sicurezza, ottenendo diversi risultati positivi.

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La quiete degli ultimi anni Dopo tre anni torna a Ferrara, dove trascorre serenamente l’ultima parte della sua vita e si costruisce una casa in contrada Mirasole, sulla facciata della quale si legge l’iscrizione in latino: “Una casa piccola, ma adatta a me; non molesta ad alcuno, né / indecorosa; acquistata con il mio denaro”. Qui trascorre gli ultimi anni, felice dell’affetto della moglie Alessandra e del figlio Virginio, nato da una relazione precedente, dedicandosi agli studi e all’esercizio letterario fino al 1533, anno in cui muore.

il CARATTERE

  Un uomo tranquillo

L’immagine tradizionale di Ariosto è quella di una persona amante della quiete (era detto “Ludovico della tranquillità”), di un poeta svagato e sognante, perso dietro alle proprie fantasie. «Il suo ideale», scriveva Francesco De Sanctis, «è la tranquillità della vita, starsene a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere». Egli ci appare dunque, innanzitutto, come un uomo bonario, riflessivo, dotato di sentimenti onesti e delicati, forse privo di profonde passioni morali, religiose, politiche. Insomma, saggio di una saggezza serena.

Il senso della famiglia

Ludovico però è anche un uomo dotato di un grande senso di responsabilità. La vita lo costringe a crescere in fretta. Ha solo ventisei anni quando, nel 1500, morto il padre, si trova a fare da genitore a quattro fratelli e cinque sorelle, con anche la madre a carico, unico in grado di guadagnarsi da vivere. Narra lo scrittore in una satira: «Muore mio padre e bisogna che sposti il mio pensiero dalla vita contemplativa (Maria) a quella attiva (Marta) e che lasci la poesia per gli scartafacci e i registri contabili (detti vacchette perché rilegati in pelle di vacca); che trovi marito a una sorella e dopo a un’altra, e che l’eredità non soffra troppo per le doti da preparare; con i fratelli più piccoli, per i quali ricoprivo il ruolo di padre, devo svolgere il compito educativo che il dovere e l’affetto mi avevano affidato. Devo proporre a uno il servizio di corte, a un altro lo studio, a un altro ancora l’esercizio della mercatura e vigilare affinché non pieghi il cedevole animo dalle virtù al vizio».

L’impegno sociale

L’umana disponibilità di Ariosto si vede bene anche nei tre anni trascorsi in Garfagnana. Se all’inizio è turbato dall’asprezza dei luoghi e dei costumi, a poco a poco prende in simpatia la condizione di quella povera gente, avvilita dalla prepotenza dei pochi che la comandano e abituata, per antica consuetudine, a chinare il capo di fronte ai soprusi. Scrive in una lettera: «Finch’io starò in questo officio, non sono per havermi alcuno amico, se non la giustitia». Tale dichiarazione d’intenti, concretizzata nella quotidiana azione di governo, determina nei suoi confronti l’odio dei prepotenti che vedono in pericolo i propri privilegi.

Quel che è certo è che Ariosto possiede sì fini doti intellettuali, ma non grandi capacità di gestione politica. È lui stesso a scoprirsi, periodicamente, incapace di severità, anche là dove tale atteggiamento sarebbe necessario. Al contrario, il contatto personale lo spinge a comprensione e compassione nei riguardi degli stessi colpevoli: «Io ’l confesso ingenuamente, ch’io non son omo da governare altri omini, che ho troppo pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata». Chissà quanti hanno provato ad approfittarsi di questa debolezza del funzionario Ludovico Ariosto!

Il tesoro della letteratura - volume 1
Il tesoro della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento