Finestra sul contemporaneo - Boccaccio & Piero Chiara, Lo sguardo sugli uomini di uno scrittore boccaccesco

Finestra sul CONTEMPORANEO

Boccaccio & Piero Chiara

Lo sguardo sugli uomini di uno scrittore boccaccesco

Un letterato nato tardi

Lo scrittore italiano del Novecento che più di altri può essere accostato a Boccaccio, per i contenuti della sua produzione artistica e per la concezione stessa della letteratura, è Piero Chiara (1913-1983). Nato a Luino, sulla riva lombarda del Lago Maggiore, Chiara non nasce letterato: poco incline agli studi regolari, esercita svariati mestieri, tra l’Italia e la Francia, senza abbandonare però una passione da vero autodidatta per la lettura, in particolare quella dei grandi e meno grandi prosatori italiani e stranieri, dallo stesso Boccaccio a Dostoevskij, da Melville a Salgari, da Verne a Fogazzaro.

Impiegato, a partire dal 1931, nell’amministrazione giudiziaria, dopo una serie di avventure sentimentali (una costante della sua esistenza da donnaiolo impenitente), si sposa nel 1936 con la figlia di un importante medico di Zurigo, ma dopo un anno il matrimonio è già naufragato. Diffidente nei confronti del fascismo, che lo disturba su un piano estetico più che politico, durante la Seconda guerra mondiale, nel 1944, ripara in Svizzera per sfuggire a un ordine di cattura emesso dal Tribunale Speciale per aver improvvisato, nei panni teatrali di un Pubblico Ministero, una sorta di requisitoria contro Mussolini, dopo la caduta del suo governo, il 25 luglio del 1943. Al ritorno in Italia, inizia finalmente un’intensa attività letteraria, prima come traduttore e pubblicista, poi come narratore: dal 1962, suo esordio romanzesco con Il piatto piange, fino alla morte diventa uno degli scrittori più letti e amati dal pubblico italiano, anche se poco considerato dalla critica.

Sentimenti e risentimenti della provincia

Nei romanzi e nei racconti di Chiara (tra i primi, ricordiamo La spartizione, 1964; La stanza del vescovo, 1976; Il cappotto di astrakan, 1978), domina una costante attenzione alla quotidianità, scandita dalle maldicenze tipiche del mondo della provincia, da vivaci avventure amorose, dai desideri e dalle trasgressioni che ravvivano e insaporiscono un’esistenza altrimenti monotona. A emergere è un mondo di scandali, ipocrisie, beffe e pettegolezzi, che Chiara sa restituire con una particolare vocazione mimetica nell’ambientazione e nella smagliante resa del dialogo: il suo modo di descrivere contesti, uomini, donne e relazioni umane rimanda alla tradizione del racconto orale, proprio come accadeva alle novelle di Boccaccio, che erano per l’appunto “raccontate” dai ragazzi e dalle ragazze dell’«onesta brigata».

Sfilano così i protagonisti di un microcosmo conosciuto in prima persona e ritratto con ghigno ironico e con un piglio satirico bonario, mai acre. Geometri, pretori, ragionieri, professori, barbieri, sagrestani, facchini, orologiai: una sterminata galleria di caratteri, una commedia umana fatta di lavoratori e fannulloni, onesti e canaglie, ricchi e poveri, gente di campagna e di città. Si tratta di prototipi tutti rintracciabili tra le pagine del capolavoro boccacciano trecentesco, molti dei quali, come scrive il critico Mauro Novelli, «riescono a farsi emblemi della mediocrità e finanche della spregevolezza della natura umana, senza per ciò alienarsi le simpatie del lettore». Sulle loro bassezze, Chiara preferisce non infierire, evitando di biasimare debolezze o malefatte, nella convinzione che le ragioni più autentiche del nostro istinto finiscano per corrompersi con le ipocrisie e con i falsi comportamenti indotti dalla morale piccolo-borghese, perbenista e meschina. Un destino balordo ma puntuale che attende al varco ogni uomo, condannato a finire ingabbiato tra le maglie delle convenienze sociali.

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Il modello boccacciano

Per questa ragione, il fondo di allegria e divertimento che il lettore percepisce nelle storie raccontate da Chiara non conduce mai all’idillio: inquietudini e infelicità si colgono facilmente sotto l’apparente frivolezza di vite spese alla rincorsa del piacere o almeno della spensieratezza. Reinterpretando in chiave moderna la lezione boccacciana, Chiara arriva non a caso a definire la letteratura come il frutto di «un’attenzione alla vita» e come «un tentativo di verità», a cui si unisce però «la speranza di un luogo di delizie, di un giardino incantato dove non possa entrare la morte». In quanto «specchio della umana condizione», il Decameron non può quindi che essere un modello imprescindibile: come scrive nell’introduzione alla riscrittura in italiano contemporaneo di dieci novelle, portata a termine da Chiara nel 1984, Boccaccio è il primo «a cominciare un processo di ridimensionamento dell’uomo e della sua immagine», rovesciandone «quasi la pelle per mostrarlo in tutta la sua sostanza».

La rappresentazione dei comportamenti umani

Tuttavia questo studio della natura umana non avviene mai con l’occhio e l’atteggiamento del censore, anzi. Nell’opera di Chiara troviamo spesso una singolare mescolanza di comico e serio: persino eventi tragici (per esempio, quelli della Seconda guerra mondiale) diventano oggetto di una rilettura leggera, addirittura derisoria. Basso e alto vengono accostati senza ritegno e reticenze proprio per creare il corto circuito inatteso, il riso che affiora dalle contraddizioni delle vita, spesso tra le pieghe dell’eros o addirittura del blasfemo.

Anche su questo versante il Decameron rappresenta un riferimento essenziale come una insostituibile, «perenne lezione sull’uomo»: nelle novelle di Boccaccio dunque «la storia di quel che capita stando al mondo, viaggiando o rimanendo nella propria casa, è tratteggiata in cento casi, dentro i quali si esaminano i vari caratteri degli uomini, la loro fondamentale insipienza e l’incomprensibile gioco del destino, o di Dio, che dei viventi fa strazio e ludibrio, con una sola salvezza possibile: quella, per le vittime, di vedersi allo specchio e di ridere di se stesse e della loro sorte».

È proprio quello che accade al narratore del racconto che qui riproduciamo, La valigia del barone Viterbo, edito per la prima volta sul «Corriere della Sera» nel 1973 e poi nella raccolta Ora ti conto un fatto, pubblicata nel 1980. Chi scrive non viene gabbato da frate Cipolla, ma da un anziano e distinto professore universitario di ascendenze ebraiche, il barone Anania Viterbo, conosciuto nei drammatici mesi della guerra.

Se fosse ancora vivo il barone Anania Viterbo, e posto che il protagonista di questa
storia si chiamasse davvero con tal nome e non con altro che è debito tacere,
riconoscendosi nei fatti che sto per riferire potrebbe solo sorridere benevolmente,
come soleva anche davanti alle traversie dell’esilio, da lui sopportate in parte 

5      con me, in Svizzera, tra il 1943 e il 1945.

Sorrise infatti il Viterbo sotto gli occhiali d’oro, quando un sergente ci annunciò,
nel campo di raccolta per internati di Bellinzona,1 che dovevamo sottoporci
tutti allo “spidocchiamento”. Precauzione igienica prescritta per i militari e anche
per i profughi politici e razziali che provenivano dall’Italia in guerra, mescolati a disertori, 

10    prigionieri, carcerati evasi e ad ogni altra sorte di uomini.

Lo “spidocchiamento” consisteva in una doccia calda disinfestante, in fondo
piacevole, alla quale ci sottoponemmo a gruppi, giovani e vecchi, dentro un macello
pubblico. Purtroppo la disinfestazione si estese anche agli oggetti personali e
ai bagagli, che vennero passati a un getto bollente di formalina2 vaporizzata. Chi, 

15    come me, era giunto in salvo coi soli abiti che indossava, ebbe a lamentare soltanto
il restringimento del marocchino3 interno del cappello, l’accorciamento della
cintura dei pantaloni e una minima riduzione delle scarpe, in quanto sul cuoio e
sui pellami la formalina aveva un effetto riduttivo. Ma quelli che avevano bagaglio,
come il barone Viterbo, dovettero subire oltre ai comuni restringimenti, l’avaria di 

20    altri effetti che tenevano nelle valigie e il ridimensionamento delle valigie stesse.

In un locale del macello, mentre cominciavo a rivestirmi, vidi infatti il barone
perplesso davanti alla sua gran valigia di cuoio bulgaro,4 che gli era stata riconsegnata
insieme a un fagotto di indumenti e oggetti vari.

Appena vestito, cercai di aiutarlo nell’impresa di ricollocare ogni cosa al suo posto 

25    nella valigia. Ma non vi era modo di venirne a capo: almeno un terzo del suo corredo
rimaneva fuori. Il barone Viterbo, che era professore universitario di scienze
esatte, non si dava per vinto: «Sarà questione» diceva «di ripiegare gli abiti in modo
diverso, di utilizzare gli angoli e soprattutto di pigiare un poco». E svuotava la valigia,
per ricominciare da capo a riempirla.

30    Nel passargli pantaloni, scarpe, camicie, fazzoletti, calze, astucci, scatolette e involti
d’ogni genere che egli cercava di stivare in modo sempre più appropriato, mi
venne alle mani un disco pesantissimo, del diametro di circa trenta centimetri e dello
spessore di almeno dieci, chiuso in una fodera di satin5 nero. Non riuscendo a
capire di cosa si trattasse e non osando slacciare la fodera, istintivamente avvicinai 

35    al naso il misterioso oggetto.

«Sì» disse benevolmente il barone. «È una specie di Asiago, una toma. Uno dei tanti
formaggi che si fanno dalle nostre parti, in Friuli. Dovendo affrontare la fuga, ho
pensato anche a una scorta di viveri, per il caso che avessi dovuto star nascosto
dei giorni in qualche luogo».

40    Prese dalle mie mani l’involto, lo ripose con cura nella valigia e lo ricoprì con maglie,
mutande, calzini e fazzoletti. Ma con un paio di scarpe, un abito scuro e una
pila di biancheria, dovette confezionare un pacco a parte, perché gli era divenuto
impossibile ricollocare tutto nell’ordine e nello spazio di prima. Di lasciar fuori il formaggio,
come gli consigliai, non volle neppure sentir parlare.

45    Quando i soldati ci misero in fila e ci avviarono verso l’oratorio di San Biagio dove
eravamo alloggiati, per rispetto al rango e all’età del mio compagno lasciai a lui il
pacco e gli portai la valigia, reggendola faticosamente per le strade di Bellinzona,
sotto lo sguardo dei passanti. Era una giornata d’inverno, rigida e cristallina, che ci
faceva rimpiangere le nostre case abbandonate.

50    Avere a quei tempi e in quelle circostanze un formaggio simile, stagionato e sopraffino,
era quasi come essersi portato dietro un pezzo di casa: una fortuna alla quale
pensavo di partecipare, perché una legge tacita dei campi e degli infelici che vi
stazionavano prescriveva, all’internato venuto in possesso di viveri fuori assegnazione,
di dividerli con chi avesse cognizione della sua buona ventura. Non perdevo 

55    d’occhio quindi il barone, che presto o tardi avrebbe certo intaccato la sua forma
di formaggio.

La nostra giornata di gente in attesa, sfaccendata, chiusa in un solo grande locale,
mi permetteva di sorvegliare ogni mossa del Viterbo, che teneva la valigia tra il mio e
il suo pagliericcio,6 come un comodino da notte o un divisorio. Il formaggio, che era 

60    sul fondo della valigia, veniva a trovarsi dalla mia parte, e di notte, quando non mi riusciva
di dormire, ne percepivo l’odore attraverso il cuoio, o credevo percepirlo, morso
come ero dalla fame. Una notte pensai di fare un taglio nel fianco della valigia e di
staccare una fetta di formaggio. Il barone se ne sarebbe accorto solo in occasione di
un cambiamento di posto, quando ormai gli avevo mangiato tutto il formaggio. Ma 

65    fu più che altro un sogno: mai avrei fatto una cosa simile a un gentiluomo di tal fatta.

Passò una settimana e il barone, pur avendo aperto due o tre volte la valigia con la
chiave che teneva in un taschino del panciotto, ne aveva tolto solo dei fazzoletti e
una sciarpa di lana. La forma di Asiago era come se non esistesse e mi domandavo
se non fosse stata un’allucinazione a farmela sentire in quelle notti.

70    Improvvisamente, a seguito di un ordine da Berna, il nostro gruppo fu trasferito
a Lugano. Aiutai il professore nel trasloco, portandogli ancora la valigia, che sentii pesante,
come se avesse delle pietre nell’interno.

“È il formaggio” pensavo “ancora intatto, che il barone ha riservato per quando
avremo davvero fame. E se la valigia mi pare più pesante di prima, è perché mi sono 

75    indebolito.”

Ma neppure a Lugano, dove il nostro vitto era scarsissimo, egli ritenne opportuno
ricorrere al formaggio.

Da Lugano, compiute ormai tutte le formalità prescritte dai regolamenti di polizia, si
partì sotto scorta verso l’interno. Viaggiammo insieme in treno, sempre con la valigia 

80    dietro, alla quale ormai mi sentivo attaccato come se fosse stata mia.

Dalla stazione di Zwingen nel Cantone di Solothurn al paese di Büsserach, sotto la
neve e lungo strade ridotte a un pantano, quel carico divenne una croce sotto la quale,
debole Cireneo,7 caddi un paio di volte. Ma era il nostro unico bene in quei deserti,
e soprattutto ciò che al povero barone rimaneva di una lunga vita finita nell’esilio.

85    A Büsserach, dove la scarsità del vitto era aggravata da un freddo intenso, ebbi la
certezza che il buon formaggio friulano ci avrebbe salvati entrambi, anche se il vecchio
Viterbo, malato e stanco, mi andava continuamente ripetendo che aveva poco
da vivere e che mi avrebbe lasciato, morendo, erede della sua valigia.
Dopo un mese, durante il quale resistette eroicamente ad ogni male e anche alla

90    tentazione d’intaccare il formaggio, venne una commissione a selezionare i validi al
lavoro. Fu la volta della nostra separazione.

Al momento dell’addio, quando vidi che il barone mi metteva nelle mani un pacco,
sperai che mi assegnasse come viatico8 almeno una fetta del suo formaggio.
Ma si trattava solo di una Bibbia, che aveva avuto in regalo da un pastore protestante 

95    e che a lui non serviva, dal momento che sapeva a memoria quella ebraica.

L’internamento in Svizzera durò quasi due anni, durante i quali riuscii sempre ad avere
notizie del barone, che passando da un luogo all’altro era finito a Huttwil9 come
professore in un campo universitario. Ma negli ultimi mesi, quando a guerra finita si
aspettava il rimpatrio, non seppi più nulla sul suo conto e immaginai che fosse riuscito 

100 a rientrare in Italia anticipatamente, come Einaudi10 e altri personaggi d’importanza,
sempreché non fosse morto, vecchio e malandato com’era.

Il 25 aprile 194511 e nei giorni successivi, alcuni internati impazienti di rivedere le
famiglie o frettolosi d’inserirsi nel tessuto della nuova Italia, ripassarono le frontiere
senza aspettare il rimpatrio ufficiale. Gli altri seguirono a gruppi, nel corso di tre 

105 o quattro mesi. Venivano concentrati a cinquanta per volta nelle scuole elementari
di Chiasso,12 dove i militari alleati arrivavano dall’Italia a prelevarli ogni mattina
con degli autocarri.

Un giorno di agosto, mentre facevo la coda alla dogana di Chiasso per sottoporre
i bagagli alla visita prescritta, sentii qualche posto più avanti una voce che mi pareva 

110 di conoscere e una frase, già udita un’altra volta forse in sogno:

«È una specie di Asiago... Uno dei tanti formaggi che si fanno dalle nostre parti,
in Friuli».

Era il barone Anania Viterbo che stava passando la visita. Lo raggiunsi, lo abbracciai
e mi offersi di portargli la valigia.

115 «Grazie» mi disse dopo avermi fatto ogni sorta di complimenti. «E mi scusi per il formaggio.
Ma non fu per ingordigia che non gliene feci parte. Le dirò che quella toma
in verità è un forziere: l’avevo fatta impastare includendovi trecento marenghi».13

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Un ingegno boccacciano

Il protagonista è un perfetto personaggio boccacciano: uomo di severi costumi, costretto a fuggire dall’Italia sconvolta dalla guerra, conserva inalterata la sua aria di filosofo aggirandosi con enigmatico distacco tra le rovine del suo tempo, sempre in compagnia con un misterioso tesoro, la sopraffina toma friulana che porta con sé in ogni spostamento. Il suo tratto distintivo è l’intelligenza, la capacità di sopravvivere alle disavventure e ai drammi dell’esistenza, quell’ingegno candido ma finissimo che gli permette di salvare la propria vita e i propri averi.

Anania Viterbo sembra avaro: ma anche in questo caso, proprio come nelle novelle di Boccaccio, bisogna fare attenzione a non dare troppo credito alla facciata esteriore delle cose. L’apparente avarizia del proprietario si rivela in ultimo dovuta alla necessità di difendere le monete d’oro che aveva fatto impastare nella toma, trasformandola in un forziere. Il narratore non si indigna; anzi, nel suo sguardo sembra di riconoscere una punta di ammirazione nei confronti di chi, con tanta abilità, è riuscito a imbrogliarlo, uscendo indenne dalle tempeste di un’immane tragedia, sempre provvisto della sua toma.

Il tesoro della letteratura - volume 1
Il tesoro della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento