Finestra sul contemporaneo - Dante & Primo Levi, Nell’inferno del lager

Finestra sul CONTEMPORANEO

Dante & Primo Levi

Nell’inferno del lager

Dante e le tragedie del Novecento

Fissata nella memoria collettiva nazionale, la poesia di Dante costituisce ancora oggi un formidabile serbatoio di suggestioni. Non basta sottolineare l’intramontabile sopravvivenza di immagini ed espressioni ancora presenti nel nostro quotidiano modo di esprimerci. Esiste infatti un vero e proprio “codice Dante” che oltrepassa la semplice citazione, occulta o allusiva, e tocca molte e variegate esperienze della cultura letteraria novecentesca, attraverso una rete fittissima di rimandi intertestuali. In particolare, la riappropriazione più intensa è quella delle atmosfere infernali, adatte a raccontare e descrivere il mondo contemporaneo e le sue tragedie.

La testimonianza di Primo Levi

L’esperienza vissuta all’interno dei campi di sterminio nazisti è al centro dell’opera letteraria di Primo Levi (1919-1987). Nato a Torino da famiglia ebraica, si laurea nel 1941 in Chimica e l’anno seguente è assunto in una fabbrica di medicinali, dove frequenta amici e lavoratori antifascisti. Entrato nel Partito d’azione, Levi inizia a prendere parte alla lotta partigiana ma, nel dicembre del 1943, nel corso di un rastrellamento è arrestato dalla milizia fascista, trasferito nel campo di concentramento di Fòssoli, presso Modena, e poi internato ad Auschwitz, in Polonia. Qui rimane fino al gennaio del 1945, quando viene liberato dall’arrivo delle truppe russe e può quindi iniziare il lungo viaggio di ritorno verso casa.

Il desiderio di testimoniare gli orrori vissuti nel lager spinge Levi a realizzare la difficile impresa di narrare l’inesprimibile, ovvero il progetto, folle e al tempo perseguito con lucida scientificità, di annientare milioni di ebrei (e, con essi, altre minoranze etniche e religiose), considerati dai nazisti di “razza” inferiore. Il frutto di questo impegno è Se questo è un uomo, un libro a metà tra il romanzo e il documento, concepito durante i mesi di prigionia e poi scritto febbrilmente tra il dicembre del 1945 e il 1946.

I riferimenti danteschi in Se questo è un uomo

Il dramma storico e personale di Levi richiama più volte il racconto dell’Inferno dantesco, a partire dal campo di raccolta a Fòssoli: una sorta di limbo, un vestibolo dove si radunano uomini senza parola, attanagliati dalla paura, avvolti nell’atmosfera silenziosa di una straniante incertezza. Da qui inizia il drammatico percorso verso il “fondo”: lo stesso viaggio che porta lo scrittore e i deportati, ammassati come bestie su treni che percorrono mezza Europa, è assimilabile alla discesa degli abissi nella voragine infernale, in un inesorabile tragitto che conduce dall’umanità alla disumanità. Arrivato a destinazione, Levi viene caricato su un camion, che lo trasporta insieme agli altri prigionieri come l’imbarcazione che, nel terzo canto dell’Inferno, traghetta le anime dei dannati al di là del fiume Acheronte verso la loro pena eterna. L’accostamento non è casuale: ad accompagnare il deportato c’è infatti un soldato tedesco di scorta che assomiglia al traghettatore dantesco al punto di meritarsi l’appellativo di «nostro caronte». Non si tratta però dell’originale, del quale – come segnala la lettera iniziale minuscola – non possiede la stesso grandioso e rabbioso furore. Nel buio che avvolge uomini e cose, egli sa rivelarsi addirittura inaspettatamente gentile: «accende una pila tascabile, e invece di gridare “Guai a voi, anime prave”, ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo denari od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è un regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo».

Il conforto di avere davanti un uomo e non un vero demonio ha però breve durata. Come le anime incontrate da Dante, i prigionieri del lager patiscono la sete, la fame, il freddo, indicibili supplizi. Anche il conforto del linguaggio e della comunicazione è negato, sopraffatto da un confuso e assordante rumore di fondo, una «perpetua Babele in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai udite e guai a chi non afferra al volo». L’atmosfera ricorda il caos che investe Dante quando, superata la porta infernale, incontra la schiera degli ignavi, immersi in un «aere senza stelle» da cui provengono urla, lamenti e imprecazioni («Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira / voci alte e fioche, e suon di man con elle / facevano un tumulto il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta / come la rena quando turbo spira», Inferno, canto III, vv. 25-30). Nessun legame è dunque possibile, nessuna solidarietà: impedire la parola è il primo passo verso la degradazione e l’oblio di sé.

 >> pagina 311 
Il canto di Ulisse

Tutto il romanzo di Levi è disseminato di riferimenti alla Commedia: con grande lucidità psicologica, con un lessico chiaro e con un tono oggettivo sempre controllato emotivamente, l’autore si serve del modello per indagare i meccanismi che regolano quell’infallibile macchina della morte e descriverne gli effetti sulla psiche dei prigionieri. A differenza che nell’Inferno, nel quale tutto obbedisce a un principio di giustizia divina, nel lager dominano l’arbitrio, l’insensatezza, la casualità: nessuna legge del contrappasso giustifica la sorte dei condannati, tutti ugualmente – senza un perché, senza aver commesso alcun peccato – destinati all’annientamento. Non rimane loro che un unico appiglio: restare umani, cercando di sottrarsi alla barbarie e di conservare intatte la ragione e la dignità.

Su quest’ultimo aspetto insiste proprio il capitolo più dantesco di Se questo è un uomo , intitolato Il canto di Ulisse. La chiara allusione è all’eroe omerico immortalato nel XXVI canto dell’Inferno e incontrato da Dante nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, tra i consiglieri fraudolenti. Anche in questo caso il riferimento contiene un preciso valore: l’“orazion picciola” con la quale Ulisse convince i propri compagni a proseguire il cammino verso la conoscenza simboleggia la più profonda essenza dell’uomo, chiamato a salvaguardare la propria natura e a spingersi verso gli spazi sconfinati del sapere.

L’episodio dantesco viene in mente al deportato Levi quando un compagno di origine alsaziana di nome Jean, detto Pikolo, con il quale deve ritirare il grosso recipiente del rancio per trasportarlo da una baracca del campo all’altra, gli confida il desiderio di imparare la lingua italiana. Levi non ricorda a memoria i versi, sbaglia la loro successione, è cosciente della difficoltà di far comprendere a uno straniero un testo antico, ma non rinuncia a recitarglielo, sfidando i vuoti di memoria. Troppo importante è farlo ora: il giorno dopo potrebbe essere troppo tardi.

…Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo
 tempo di scegliere, quest’ora già non è piú un’ora. Se Jean è intelligente capirà.
 Capirà: oggi mi sento da tanto.

…Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si

5      prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito
l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia.

Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:


Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando, 

10    pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
come fosse la lingua che parlasse
mise fuori la voce, e disse : Quando...1

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! 

15    Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della
lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica».

E dopo «Quando» ? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sí Enea la nominasse».
Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «... la piéta Del
vecchio padre, né ’l debito amore Che doveva Penelope far lieta...» sarà poi esatto?


20    …Ma misi me per l’alto mare aperto.


Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere
perché «misi me» non è «je me mis», è molto piú forte e piú audace, è un
vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene
questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, 

25    è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è
ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.

Siamo arrivati al Kraftwerk,2 dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere
l’ingegner Levi.3 Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno
colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giú di morale, non parla 

30    mai di mangiare.

«Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «... quella compagna
Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento piú se viene prima o dopo.
E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza,
sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, 

35    ma vale la pena di fermarcisi:


... Acciò che l’uom piú oltre non si metta.


«Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione
di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una
osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, 

40    mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.

Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:


Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.


45    Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come
la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.

Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo
del bene. O forse è qualcosa di piú: forse, nonostante la traduzione scialba
e il commento pedestre4 e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, 

50    che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi
due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.5


Li miei compagni fec’io sí acuti...


… e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti».
Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «... Lo lume era di sotto della luna» 

55    o qualcosa di simile; ma prima?... Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice
qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.

– Ça ne fait rein, vas-y tout de meme.6


...Quando mi apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto 

60    che mai veduta non ne avevo alcuna.


Sí, sí, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva.

E le montagne, quando si vedono di lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo,
di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano
nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!

65    Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono.
Pikolo attende e mi guarda.

Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi
sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma
non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «... la terra lagrimosa 

70    diede vento...»7 no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:


Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giú, come altrui piacque...


75    Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda
questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io
possiamo essere morti, o non vederci mai piú, devo dirgli, spiegargli del Medioevo,
del cosí umano e necessario e pure inaspettato anacronismo,8 e altro ancora,
qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, 

80    forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui9

Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata
dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle.
«Kraut und Rüben ?» «Kraut und Rüben». Si annunzia ufficialmente che oggi la
zuppa è di cavoli e rape : «Choux et navets». «Kaposzta és répak».10


85    Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso.11

 >> pagina 313 
Dante e il riscatto di un’umanità offesa

Per Levi, Dante non rappresenta un oggetto qualunque di una lezione di lingua italiana. La scelta suggerisce una motivazione ben più profonda connessa al ruolo incarnato dal Sommo Poeta nella sua memoria e nel suo immaginario. Seguire virtute e conoscenza significa riaffermare i valori della ragione, della cultura, della più intima natura umana proprio nel momento in cui essi sono negati. In tal modo l’alto messaggio della poesia costituisce un mezzo fondamentale per salvaguardare la propria vita spirituale. Non si tratta tanto di sopravvivere biologicamente quanto di sottrarsi al degrado e alla corruzione, arrestandosi prima della tragica soglia che riduce l’uomo al rango di bestia. Il poema dantesco finisce così per diventare il baluardo di quella soglia, lo squillo di tromba che risveglia le coscienze dal sonno e dall’abbrutimento, la voce di Dio che risuona nel silenzio della ragione.

Ciò spiega perché Levi senta il dovere di comunicare il messaggio a Jean: trasmettere la memoria e condividere la conoscenza, anche al di là delle frontiere linguistiche che li separano, costituiscono il viatico per interrogarsi sul senso della condizione umana e riannodare il filo che lega il passato e il presente degli individui e delle civiltà. Per compiere il miracolo, il deportato Levi sarebbe perfino disposto a rinunciare alle più elementari esigenze fisiologiche del vivere: darebbe il rancio del giorno pur di ricordare il finale del canto di Ulisse. Sa che anche lui affronterà, come l’eroe, un folle volo che lo porterà a soccombere: un’impresa però non empia, ma al contrario salvifica, capace cioè di spingere la sua coscienza oltre il limite della tragica situazione in cui si trova immerso. La realtà però incombe, attraverso il suono brutale Kraut und Rüben che annuncia la zuppa di cavoli e rape: la tregua è finita e, con essa, è svanito l’incantesimo del ricordo. Ma non il sentimento della libertà concesso da questa straordinaria avventura umana, con la quale Levi ha potuto spingersi nell’alto mare aperto della poesia e delle parole che continuano – nonostante tutto – a dare senso al mondo.

Il tesoro della letteratura - volume 1
Il tesoro della letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento