gli artisti
Lucio Fontana e Alberto Burri
L’esplorazione della materia e della forma per una nuova concezione dello spazio
L’esplorazione della materia e della forma per una nuova concezione dello spazio
Proseguendo e ampliando le ricerche artistiche del cosiddetto “Informale”, due italiani, Lucio Fontana e Alberto Burri, lasciano un segno profondo nell’arte: la loro pittura è ancora fatta di gesti più che di forme e composizioni, ma la loro particolarità sta nell’esplorare, in modi diversi, le possibilità offerte dalla materia usata per le loro opere.
Lucio Fontana (1889-1968) è uno dei protagonisti dell’arte italiana ed europea del secondo Novecento: anche se la sua produzione, vasta e sperimentale, è difficile da definire, i critici lo hanno accostato all’Informale per l’importanza attribuita nelle sue opere alla materia e al gesto dell’artista. A differenza di molti artisti informali, però, Fontana non vede l’arte come un modo per esprimere l’interiorità o i suoi tormenti, ma piuttosto per esplorare la forma e lo spazio.
Le sue opere più famose sono costituite dalla serie Concetti spaziali (69), chiamati “tagli”, un gruppo di opere che l’artista sviluppa negli ultimi anni della sua produzione, tra il 1958 e il 1968. Si tratta di larghe superfici monocrome, dipinte in modo uniforme con colori forti – rosso, blu, giallo, verde o bianco – e poi tagliate, una o più volte, con un rasoio che crea profondi squarci verticali.
In questo modo la tela si apre nello spazio: si alza verso lo spettatore in corrispondenza del taglio e spezza l’illusione che sia una superficie piana. Tagliata e incisa, l’opera si proietta nella terza dimensione e rende visibile all’osservatore un mondo sconosciuto.
L’arte di Fontana è ancora caratterizzata da un gesto preciso – quello con cui l’artista taglia la tela – ma diventa qualcosa di nuovo, profondamente simbolico: nasce in questi anni l’Arte concettuale (vedi p. 510), che, invece di focalizzarsi sul procedimento artistico, diventa lo strumento per esprimere idee e concetti astratti.
Alberto Burri (1915-1995), un artista di origine umbra, nelle sue opere mescola materiali differenti. Anche se la sua arte è molto diversa da quella di Fontana, entrambi sono accomunati dal desiderio di usare non solo i colori ma anche la tela stessa come spazio dell’espressione artistica.
Burri utilizza materiali diversi e poveri: invece di usare la tela in maniera tradizionale, predilige i sacchi di iuta, a cui attacca pezzi di plastica sciolta con il calore o legno. Le sue opere spesso hanno proprio il titolo Sacco (70), accompagnato da un codice.
I tessuti rovinati o bruciati si dispongono liberamente, secondo un ritmo solo in apparenza casuale, e alludono – con i loro buchi e le loro fratture – al disagio dell’uomo contemporaneo.
I suoi esperimenti anticipano per certi versi alcune correnti dell’arte statunitense contemporanea che mette insieme oggetti di uso quotidiano per creare opere d’arte (vedi p. 502).
Nel 1968 un violento terremoto distrugge la valle del Belice, tra Agrigento, Trapani e Palermo, facendo scomparire la città di Gibellina: il sindaco vede nell’arte una possibilità di riscatto per la città distrutta e invita nella cosiddetta Gibellina vecchia molti artisti, tra cui Burri, mentre Gibellina nuova viene ricostruita a venti chilometri di distanza dall’antico sito.
Burri decide di creare un immenso monumento, il Grande Cretto (71): compatta le macerie con il cemento armato e poi le cretta, cioè crea, seguendo l’andamento della collina, una serie di tagli e percorsi che corrispondono alle strade e agli isolati della città distrutta. Trasformando le macerie in cemento e ricreando con fenditure larghe dai due ai tre metri i vecchi percorsi di Gibellina, Burri ha lasciato una memoria forte e tragica della distruzione causata dal terremoto.
Le vie dell'arte - volume B
Dalla preistoria a oggi