14.1 La crisi “occidentale”

Per riprendere il filo…

Alle tensioni dell’immediato dopoguerra fra Usa e Urss, che avevano portato il mondo sull’orlo di un nuovo confitto, subentrò una fase di distensione internazionale. Il mondo occidentale fra anni Cinquanta e Sessanta attraversò una fase di eccezionale sviluppo economico, che segnò la fine della tradizionale società contadina e l’avvento di una moderna società dei consumi. L’affermazione del Welfare State consentì forme di ridistribuzione delle ricchezze che determinarono un forte abbattimento delle diseguaglianze. Nonostante questo, erano emerse contraddizioni crescenti soprattutto nel rapporto tra generazioni, sfociate nei movimenti di contestazione della seconda metà degli anni Sessanta, che avevano assunto forme e motivazioni diverse: mentre nel mondo occidentale si contestava il sistema capitalista, borghese e imperialista, a Varsavia e a Praga si rivendicava un socialismo diverso, compatibile con le libertà individuali.

14.1 La crisi “occidentale”

Il declino della leadership americana
All’inizio degli anni Settanta, la leadership americana cominciò a sembrare meno indiscussa di quanto non fosse stata fino ad allora, a causa del fallimento politico-militare in Vietnam. Inoltre, dopo il boom degli anni Cinquanta e Sessanta, l’economia americana cominciò a rallentare, entrando in una fase di recessione. Nell’ultimo scorcio degli anni Sessanta, gli Stati Uniti cominciarono a imbattersi in difficoltà che avevano origine negli investimenti sempre più massicci per la guerra in Vietnam e nei costi enormi della Great Society voluta da Lyndon Johnson [▶ cap. 12.3]. Per evitare di compromettere il proprio consenso politico, il presidente Johnson si era rifiutato di alzare il livello delle tasse, finendo col perdere il controllo del debito pubblico. L’economia statunitense, nel suo complesso, soffriva inoltre gli squilibri di un sistema monetario internazionale fondato sulla centralità del dollaro, che, proprio a causa della sua forza, tendeva a comprimere le esportazioni americane e rischiava di alimentare una spirale inflazionistica. Perciò, gli Stati Uniti importavano più di quanto esportavano, mentre i paesi che esportavano molto come Germania e Giappone erano indisponibili a rivalutare la propria moneta, nel timore che questa mossa scoraggiasse gli scambi commerciali.
Nel pieno di una tempesta finanziaria, il 15 agosto 1971, il presidente statunitense Richard Nixon decise di sospendere la convertibilità del dollaro con l’oro: così facendo la valuta americana era libera di fluttuare rispetto alle altre monete e, quindi, di svalutarsi per favorire le esportazioni. La decisione di Nixon segnò la fine del sistema che era stato architettato a Bretton Woods nel 1944 [▶ cap. 10.1] e che aveva costituito la premessa fondamentale della ricostruzione postbellica e del boom economico dei due decenni precedenti. Essa impose alle altre valute, a partire da quelle europee, di uscire dal sistema di cambi fissi con il dollaro (e di conseguenza con l’oro), spingendole a loro volta verso la svalutazione rispetto ai loro valori precedenti, aprendo così una competizione più accesa tra le economie nazionali. Nondimeno, la fine del sistema di Bretton Woods incoraggiò la ricerca di nuove forme di collaborazione internazionale, che, attraverso la riunione di Rambouillet del 15 novembre 1975 [ 1], portarono alla costituzione di un governo economico informale dei sei grandi paesi industrializzati: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Giappone, Germania e Italia, noto come “G7” dopo l’inclusione del Canada.

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La crisi energetica del 1973
Il secondo grave shock per l’economia internazionale riguardò il settore energetico. Alla crescita economica del dopoguerra aveva contribuito in misura sempre più importante il consumo di petrolio, che era diventato la principale fonte energetica occidentale, anche grazie al suo prezzo basso e stabile. Lo sviluppo economico dell’Europa occidentale e del Giappone era dunque dipendente dalla possibilità di sfruttare i giacimenti in Medio Oriente, ma, col tempo, anche gli Stati Uniti erano diventati un paese importatore di greggio dall’Arabia Saudita. I rapporti di dipendenza dei paesi occidentali e al contempo la svalutazione del dollaro indussero i paesi Opec, cioè i paesi esportatori di petrolio (Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Libia e Algeria), ad alzarne il prezzo fin dal 1971.
A questo rialzo contribuì poi in modo decisivo la crisi petrolifera innescata dalle tensioni in Medio Oriente che, come vedremo, sfociarono nella guerra dello Yom Kippur scoppiata il 6 ottobre 1973, quando Egitto e Siria attaccarono Israele. Per punire le potenze occidentali del sostegno prestato a Israele, i paesi dell’Opec decisero di ridurre la produzione e poi di sospendere le loro forniture, provocando una grave crisi petrolifera. Nel dicembre 1973, il prezzo del petrolio grezzo era raddoppiato rispetto all’inizio dell’anno, avendo forti ripercussioni sulle economie occidentali [ 2].
La mossa dell’Opec gettò i paesi importatori nel panico, suscitando incertezze sulle prospettive di crescita economica e spingendo a un ripensamento dei modelli di sviluppo occidentale. Infatti, la crisi petrolifera determinò un aumento dei prezzi del petrolio al barile, che, innalzando il prezzo dei trasporti, contribuì ad accelerare la crescita dell’inflazione. Perciò favorì i paesi produttori ed esportatori di petrolio su quelli importatori, i quali dovettero varare politiche di austerità tese a ridurre i consumi energetici, con limitazioni nell’apertura dei cinema e degli esercizi commerciali, nonché con la minore circolazione di auto. In questo senso, la crisi petrolifera conferì impulso alla razionalizzazione dell’uso delle risorse, incentivò lo sviluppo di forme alternative di energia per una trasformazione delle economie occidentali: dalla produzione industriale all’erogazione dei servizi. Al tempo stesso, l’innalzamento del prezzo del petrolio creò le premesse per un enorme spostamento di risorse verso i paesi dell’Opec, che erano da sempre subordinati economicamente alle esportazioni del greggio verso le potenze occidentali. La crisi energetica dimostrò quanto stretta fosse la dipendenza di queste ultime dal petrolio svelandone un punto debole, che indusse i paesi arabi a credere di poter sfidare l’Occidente.
Stagflazione e monetarismo

Fino alla fine degli anni Sessanta, nelle fasi di espansione dell’economia, cioè di aumento della produzione e della circolazione dei beni di consumo, la domanda tendeva a prevalere sull’offerta, innescando una dinamica di aumento dei prezzi. Nelle fasi di contrazione dell’economia, invece, l’offerta finiva col prevalere sulla domanda, spingendo per un calo dei prezzi. Per la prima volta nella storia dell’economia europea occidentale, gli anni Settanta furono però caratterizzati dalla “stagflazione”, ossia da una combinazione di  stagnazione della produzione e di inflazione. Le lotte sindacali della fine del decennio precedente determinarono un allineamento dei salari al costo della vita e un aumento del loro potere di acquisto; però, a seguito della crisi energetica del 1973, crebbero i costi di produzione e i prezzi dei prodotti e, di conseguenza,diminuì l’offerta e si disincentivò la domanda, portando a una fase acuta di rallentamento economico.

Proprio allora, con la crisi del sistema del Welfare State, si sviluppò il cosiddetto neoli­berismo: si affermò così il successo della “scuola di Chicago”, dominata da Milton Friedmann, il principale fautore del ▶ monetarismo. Secondo questa teoria, esiste una perfetta corrispondenza fra quantità di moneta e livello dei prezzi: all’aumento della moneta circolante, dunque, coincide l’aumento dei prezzi. Questa visione neoliberista tendeva a screditare e a rigettare ogni forma di intervento pubblico nell’economia e a massimizzare gli incentivi per la competizione e l’iniziativa delle imprese private (come il taglio delle tasse). Il governo era sempre meno percepito come una soluzione e sempre più come un problema.

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L’invecchiamento dell’Occidente
Gli anni Settanta furono segnati da ansie e preoccupazioni che turbarono profondamente l’ottimismo progressista dei due decenni precedenti e che trovarono le proprie radici non solo sul terreno economico, ma anche su quello demografico. Al “baby boom” del 1945-64 seguì un drastico rallentamento della crescita della popolazione, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta: salì l’età media in cui le persone si sposavano, così come l’età delle madri al loro primo parto. Questo profondo mutamento sociale e culturale era legato all’emancipazione femminile, alle nuove forme di controllo e di programmazione della fecondità (anzitutto attraverso la pillola contraccettiva), al maggiore investimento nella realizzazione individuale, alla diffusione del divorzio e di modelli più liberi di convivenza. Intorno alla metà degli anni Settanta la somma di natalità e mortalità cominciò rapidamente a convergere verso la “crescita 0, ossia quell’equilibrio che determina la stabilità della popolazione. Al calo delle nascite coincise un allungamento delle aspettative di vita, dovuto al miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie ed alimentari, che causò un invecchiamento sensibile delle società occidentali. Questo fenomeno demografico fu particolarmente visibile nei paesi europei e in Giappone, meno negli Stati Uniti.
Nixon e il Watergate
La credibilità della presidenza del repubblicano Richard Nixon fu minata dallo scoppio dello “scandalo Watergate, dal nome dell’hotel che ospitava il quartier generale del Partito democratico, in cui furono eseguite intercettazioni illegali da parte di uomini vicini al Partito repubblicano. Il caso esplose nel giugno 1972, quando cinque uomini furono scoperti a introdurre microspie e a fotografare materiale nella sede del Comitato nazionale democratico (l’organizzazione che si occupava della raccolta fondi per la campagna elettorale del Partito democratico). Grazie all’inchiesta giornalistica del Washington Post, affidata a Bob Woodward e Carl Bernstein [ 3], con il passare delle settimane si venne a scoprire che il complotto era stato concepito alla Casa Bianca e che mirava a screditare il Partito democratico. Il caso Watergate contribuì a minare, nell’opinione pubblica americana degli anni Settanta, la fiducia nella democrazia e nella possibilità di controllare il potere attraverso la legge.
Il Watergate, uno degli scandali politici più noti della storia contemporanea, suggellò il nuovo ruolo della stampa nel controllo e nella denuncia del potere. Infatti, dopo oltre due anni di tentativi sempre più difficili e disperati di coprire il proprio coinvolgimento nella vicenda, Nixon fu costretto a cedere. Di fronte alla prospettiva pressoché certa di una messa in stato d’accusa del presidente (impeachment), rassegnò le dimissioni l’8 agosto 1974.

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14.2 Fra distensione internazionale e crisi delle superpotenze

La distensione internazionale

All’inizio degli anni Settanta, lo sforzo di cooperazione negoziata tra le due superpotenze fu importante, ma circoscritto all’Europa [▶ cap. 12.2]; altrove, in Africa e in Asia, divampavano invece conflitti locali in cui le forze contrapposte profittavano dello scontro fra Occidente e blocco comunista, per riceverne il supporto e il sostegno.

Le difficoltà americane nel Sud-Est asiatico erano percepite come sintomo di una crisi generale, rispetto alla quale le forze del comunismo locale apparivano più vitali e intraprendenti. La percezione della debolezza dell’Occidente di fronte all’ascesa comunista convinse il segretario di Stato americano del presidente Richard Nixon, Henry Kissinger, a seguire fin dal 1970 una linea politica di distensione. Con la sua Realpolitik (politica realistica), egli preparò il terreno a una serie di importanti passi diplomatici. In particolare, il viaggio del presidente Nixon a Pechino nel febbraio 1972 e l’incontro con Mao concretizzarono la politica di avvicinamento tra Stati Uniti e Cina [ 4], che si concluse con il riconoscimento ufficiale nel 1979.

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Anche l’Unione Sovietica di Brežnev adottò una linea favorevole alla stabilità internazionale, senza con questo rinunciare all’idea di un irriducibile antagonismo con il sistema capitalista. Anzi, era convinzione dei dirigenti sovietici che l’allentamento delle tensioni internazionali avrebbe consentito di affermare la superiorità del socialismo. Nonostante ciò, il significato antisovietico dell’avvicinamento sino-americano spinse Mosca verso una politica di distensione con Washington per evitare un completo isolamento. Nell’ambito di questo nuovo indirizzo politico, nel maggio 1972, Nixon si recò nella capitale sovietica per firmare il Trattato Salt I (Strategic Armaments Limitations Talks), che prevedeva di fissare a cento unità il numero di nuovi vettori di armi nucleari strategiche (i missili con testate nucleari a lunga gittata) e sanciva la parità strategica fra le due superpotenze. In altri termini, Usa e Urss decisero di limitare il posizionamento dei vettori a due luoghi strategici concordati: uno a protezione delle rispettive capitali, l’altro a protezione di una base missilistica

[ 5]. Non si trattava di una vera e propria scelta di disarmo, ma di un significativo tentativo di regolamentare la corsa agli armamenti. Peraltro, la distensione dei rapporti fra le due superpotenze non spense la competizione tra i due sistemi, quello occidentale e quello socialista, che trovò uno dei suoi ambiti privilegiati nella prosecuzione della corsa allo spazio [▶ cap. 12.2], per esempio con lo sviluppo delle stazioni spaziali e delle missioni per esplorare Marte.

La stagione della distensione fu sancita dalla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa iniziata a Helsinki nel luglio 1973. L’accordo finale [▶ FONTI], firmato il 1° agosto 1975 da tutti gli Stati europei, dall’Unione Sovietica, dal Canada e dagli Stati Uniti, suggellava formalmente il riconoscimento dei confini tracciati dopo la Seconda guerra mondiale e l’impegno al non intervento negli affari interni degli altri Stati, ma anche l’accettazione da parte dei firmatari del principio di rispetto dei diritti dell’uomo. Proprio quest’ultimo punto avrebbe alimentato nel corso degli anni successivi le accuse da parte dei paesi occidentali all’Urss di violare la Dichiarazione universale dei diritti umani [▶ cap. 10.1], facendo crescere il dissenso e la ricerca del cambiamento all’interno dell’Unione Sovietica.

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FONTI

Il Trattato di Helsinki (1975)

La Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, aperta il 3 luglio 1973 a Helsinki e proseguita a Ginevra dal 18 settembre 1973 al 21 luglio 1975, si concluse a Helsinki il 1° agosto 1975. Il documento finale fu ratificato dai rappresentanti di 35 Stati europei e americani, tra i quali le due Germanie, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.

I. Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità

Gli Stati partecipanti rispettano reciprocamente la loro eguaglianza sovrana e la loro individualità, nonché tutti i diritti inerenti alla loro sovranità ed in essa inclusi, ivi compreso in particolare il diritto di ciascuno Stato alla eguaglianza giuridica, alla integrità territoriale, alla libertà ed indipendenza politica. Essi rispettano inoltre il diritto di ciascuno di loro di scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale, nonché quello di determinare le proprie leggi e regolamenti.


II. Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza

Gli Stati partecipanti si astengono nelle loro relazioni reciproche, nonché nelle loro relazioni internazionali in generale, dalla minaccia o dall’uso della forza sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite e con la presente Dichiarazione. Nessuna considerazione potrà essere invocata per servire da giustificazione al ricorso alla minaccia o all’uso della forza in violazione di questo principio.


III. Inviolabilità delle frontiere

Gli Stati partecipanti considerano reciprocamente inviolabili tutte le loro frontiere nonché le frontiere di tutti gli Stati in Europa e pertanto si astengono ora e in futuro dall’attaccare tali frontiere. Di conseguenza, essi si astengono anche da ogni pretesa o atto per impadronirsi o usurpare parte o tutto il territorio di ogni altro Stato partecipante.

[…]


VII. Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo

Gli Stati partecipanti rispettano i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo, per tutti senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione. […] Gli Stati partecipanti riconoscono il significato universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il cui rispetto è un fattore essenziale della pace, della giustizia e del benessere necessari ad assicurare lo sviluppo di relazioni amichevoli e della cooperazione fra loro, come fra tutti gli Stati. Essi rispettano costantemente tali diritti e libertà nei loro reciproci rapporti e si adoperano congiuntamente e separatamente, nonché in cooperazione con le Nazioni Unite, per promuoverne il rispetto universale ed effettivo.

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La vittoria del Vietnam comunista

La guerra statunitense in Vietnam, nonostante gli sforzi militari e il dispendio di risorse, non poteva essere vinta sul piano politico. Il fronte interno mostrava segni di cedimento verso l’impegno di un esercito di leva che coinvolse in totale due milioni e mezzo di uomini (alla fine i caduti militari statunitensi saranno oltre 58 000) [▶ altri LINGUAGGI p. 590].

Nixon adottò pertanto un approccio pragmatico alla guerra, accantonando l’idea della crociata ideologica anticomunista e avviando una strategia di graduale disimpegno. Per evitare lo smacco di una sconfitta sul campo, ordinò una progressiva ritirata dei marines e la loro sostituzione con le truppe sudvietnamite che avrebbero dovuto costituire il nucleo fondamentale della lotta ai guerriglieri comunisti vietcong. Al tempo stesso, per convincere Hanoi al negoziato, cominciò una campagna di bombardamenti su vasta scala contro il Vietnam del Nord e i paesi circostanti, Laos e Cambogia, dove i vietcong trovavano spesso rifugio. L’azione dei bombardieri B-52, che ricorrevano ad armi bandite dalle convenzioni internazionali come le bombe a frammentazione e quelle al napalm, fu devastante. Con la diffusione delle immagini di guerra attraverso i mass media, la stanchezza della guerra si associò dunque all’indignazione dell’opinione pubblica per i comportamenti di alcuni reparti americani.

A Parigi, nel gennaio 1973, Stati Uniti, sudvietnamiti, nordvietnamiti e vietcong siglarono un accordo per il cessate il fuoco che imponeva alle parti di cercare una soluzione diplomatica al conflitto. Tuttavia, la fine dell’impegno statunitense in Vietnam, con il ritiro di truppe e consiglieri, spinse i nordvietnamiti e i vietcong a un’imponente offensiva verso sud. Nell’aprile del 1975 l’ingresso delle forze comuniste a Saigon sancì l’unificazione del Vietnam [ 6].

Presto le nuove autorità comuniste avviarono una politica di repressione basata soprattutto sui “campi di rieducazione attraverso il lavoro” volti a sradicare ogni forma di dissenso e di opposizione con la tortura, la denutrizione e il lavoro forzato. La conquista di Saigon provocò un’ondata di rifugiati in fuga dal regime comunista, che raggiunse un totale di oltre due milioni di persone. Fra il 1978 e il 1979 il fenomeno si ripeté con i boat people, circa 800 000 persone che usarono mezzi navali di fortuna per raggiungere Hong Kong, Malesia, Indonesia, Thailandia e Filippine.

La “stagnazione” brežneviana

Nonostante il dinamismo militare in politica estera, che la indusse a intervenire in molte zone “calde” del mondo (dall’Africa all’Asia), l’Unione Sovietica era quanto mai isolata sul piano internazionale, e stava dilapidando le sue risorse. Dopo aver proclamato l’avvento del “socialismo sviluppato” e conseguito una notevole crescita economica fino alla seconda metà degli anni Sessanta, alla fine del decennio il paese entrò infatti in una fase più incerta e difficile [▶ cap. 12.2]. Lo scarto tecnologico e produttivo con l’Occidente non si era colmato: la società si era trasformata e urbanizzata, ma l’agricoltura non riusciva a migliorare i propri rendimenti. In questo quadro, un effetto positivo ebbe l’aumento dei prezzi del petrolio in seguito alla crisi energetica del1973, che favorì le esportazioni sovietiche ritardando l’esplodere delle disfunzioni del sistema.

L’Unione Sovietica aveva conosciuto un limitato e ritardato baby boom (rispetto a quello occidentale), che aveva in parte compensato le gravissime perdite del 1941-45; ma dopo alcuni passi in avanti durante gli anni Cinquanta e Sessanta, la mortalità infantile era tornata ad aumentare negli anni Settanta. Per di più l’alcolismo, che riguardava soprattutto gli uomini, causò una crisi delle famiglie, poiché l’abuso di bevande alcoliche generava liti violente all’interno delle case, diminuiva la fertilità dell’uomo così come aumentava il rischio di mortalità infantile nelle donne incinte, oltre ad abbattere la lunghezza della vita media per il sopraggiungere di malattie specifiche, come la cirrosi epatica [ 7].

Sul piano politico, l’invecchiamento della classe dirigente non lasciava intravvedere prospettive di rinnovamento, mentre si facevano strada correnti nazionaliste e conservatrici all’interno del partito. Infatti, sembrarono raggiungere un parziale successo gli sforzi del governo centrale per formare un homo sovieticus (come venne sarcasticamente definito l’uomo medio sovietico dal sociologo Aleksandr Zinov’ev), il cui senso di lealtà e di appartenenza dipendesse dal legame con l’Unione Sovietica più che con le singole repubbliche. Questo progetto fu sviluppato per contenere la spinta alla nazionalizzazione che era stata promossa in passato dalle repubbliche, mentre cresceva il peso demografico delle popolazioni non slave, soprattutto nelle repubbliche dell’Asia centrale. Tuttavia, il ruolo prepotente che nella costruzione dell’homo sovieticus giocarono i processi di russificazione, ossia di trasmissione della lingua e della cultura russa, resero l’intero progetto più ambiguo, finendo col nutrire il sospetto e il rigetto da parte delle classi dirigenti non russe.

Emergevano inoltre nuove forme di dissenso nei confronti del potere sovietico, soprattutto da parte di intellettuali come lo scrittore Aleksandr Solženicyn, premio Nobel per la letteratura nel 1970 e noto per il suo Arcipelago Gulag, pubblicato in Occidente nel 1973, e il fisico Andrej Sacharov, uno degli artefici della bomba atomica sovietica, poi attivista per i diritti umani e premio Nobel per la pace nel 1975. Mentre Sacharov fu arrestato e costretto al confino interno, Solženicyn fu esiliato in Germania e visse in seguito negli Stati Uniti fino alla caduta dell’Unione Sovietica.

altri linguaggi

Il Vietnam al cinema

«Mi piace l’odore del napalm di mattina», così il colonnello Bill Kilgore, personaggio di Apocalypse Now, si esprime al termine di una battaglia di elicotteri. Lo stesso cinismo si ritrova nel sergente istruttore Hartman, protagonista di Full Metal Jacket, che si rivolge così alle sue reclute: «Oggi è il Santo Natale. Il grande varietà religioso comincerà alle ore nove e trenta: il cappellano Charlie vi farà sapere come il mondo libero riuscirà a far fuori il comunismo con l’aiuto di Dio e di alcuni marines».

Hollywood attese che la guerra americana in Vietnam fosse finita, prima di trarne film che sapessero combinare lo spettacolo bellico all’esame di coscienza occidentale. Inoltre, poiché la guerra era stata già ampiamente documentata e divulgata dalla televisione, i primi film prodotti al termine del conflitto evitarono di restituirne una visione realistica. Alla fine degli anni Settanta, Il cacciatore di Michael Cimino (1978) e Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979) cercarono di offrire una rappresentazione simbolica della guerra, astraendo dalla concreta vicenda storico-politica una serie di interrogativi fondamentali sull’uomo e sulla civiltà. Il primo si concentrava sull’impossibilità di superare la traumatica esperienza bellica, che svuotava i soldati della loro umanità e li consegnava a un destino cieco, esemplificato dalla roulette russa. Il secondo trasfigurava in chiave epica e allucinata l’esperienza del Vietnam attraverso il riadattamento e la trasposizione del romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, proponendosi così di esplorare le zone d’ombra della civiltà occidentale e muovendosi su un ambiguo crinale al di là del bene e del male.

L’esplosione del genere cinematografico dedicato al Vietnam avvenne negli anni Ottanta. Rambo di Ted Kotcheff (1982) fu la pellicola che raggiunse il maggior pubblico, raffigurando la difficoltà di un reduce a ritornare alla vita civile e presentandosi in consonanza con la retorica reaganiana che cercava di restituire orgoglio patriottico all’opinione pubblica. A contrastare la temperie nazionalista di quel periodo, coincidente con la recrudescenza della Guerra fredda, intervennero Platoon di Oliver Stone (1986) e Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987), che si proposero di illustrare con realismo l’ottusità e la brutalità dell’addestramento e l’orrore del combattimento.

L’Ostpolitik
Dopo una lunga fase di contrapposizione fra Est e Ovest, alla fine degli anni Sessanta in Europa si inaugurò una nuova fase che trovò espressione nella cosiddetta Ostpolitik (“politica orientale”).
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In Germania Ovest, sciolta la grande coalizione fra cristiano democratici e socialdemocratici retta dal democristiano Kurt Kiesinger, il governo passò nelle mani del socialdemocratico Willy Brandt, grazie al sostegno del Partito liberale. Brandt, che era ministro degli Esteri e vicepremier nel governo Kiesinger, in precedenza aveva ricoperto la carica di borgomastro (sindaco) di Berlino Ovest. Più interessato alla politica internazionale che a quella economica, egli proseguì la strategia di avvicinamento a Est (anzitutto alla Repubblica democratica tedesca), che aveva già avviato da ministro degli Esteri. Essa si basava sull’ammissione delle responsabilità tedesche verso il passato nazista [ 8] e si articolò nel riconoscimento dei confini esistenti fra Germania Est e Polonia lungo la linea Oder-Neisse e in un trattato di relazioni di buon vicinato con la Rdt.

Il suo successore Helmut Schmidt, più pragmatico, continuò a seguire la strada dell’accordo, che però fu oggetto di crescenti discussioni e perplessità. Gli oppositori più intransigenti del comunismo ritenevano infatti che l’Ostpolitik tendesse a consolidare l’Unione Sovietica e i regimi dell’Est Europa. Se questo fu vero nel breve periodo, a lungo termine la politica del compromesso, che come vedremo implicava anche aiuti economici e finanziari, si rivelò capace di erodere alla base il “socialismo reale”.

14.3 Violenza politica e transizioni democratiche

La fine delle transizioni mediterranee
All’inizio degli anni Settanta, con le sole eccezioni di Francia e Italia, il bacino europeo del Mediterraneo era caratterizzato dalla presenza di dittature. Nonostante fossero membri della Nato, Portogallo e Grecia erano governati da regimi autoritari, caratterizzati da arretratezza economica, tradizionalismo religioso e isolamento culturale. Ancora più isolata risultava la Spagna, che entrò nella Nato solo nel 1982. Intorno alla metà del decennio, tuttavia, tutti e tre i paesi imboccarono la via della transizione alla democrazia parlamentare.

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Il Portogallo era governato dalla metà degli anni Venti dal regime autoritario e corporativo di António Salazar [▶ cap. 8.4]. La morte del dittatore nel 1970 portò al potere, senza troppe scosse, il suo successore Marcelo Caetano.

Le guerre con cui il Portogallo cercò di mantenere i suoi possedimenti coloniali in Angola, Mozambico, Goa, Capo Verde e Guinea Bissau [▶ cap. 11.3], causarono tuttavia la rivolta dell’esercito. Nell’aprile 1974, Caetano fu deposto e sostituito dalla Giunta di salvezza nazionale, una giunta militare dell’ala progressista dell’esercito che effettuò un colpo di Stato per avviare e garantire il processo di democratizzazione del paese. Furono organizzate le prime libere elezioni, vennero rilasciati i prigionieri politici e instaurate le libertà fondamentali: fu la cosiddetta “rivoluzione dei garofani” [ 9]. 

Fra le prime riforme dei governi presieduti dalla giunta militare, l’adozione della riforma agraria e di un vasto programma di nazionalizzazioni, sollecitate dal Partito comunista, sembravano spingere il Portogallo verso un sovvertimento dell’ordine sociale. Ma le elezioni che si svolsero nel 1976 sancirono la vittoria del Partito socialista guidato da Mario Soares, riportando il cambiamento entro un quadro più moderato e aprendo la strada al varo della Costituzione, approvata nello stesso anno.

In concomitanza con gli eventi portoghesi, anche nell’altra parte della penisola iberica giungeva alle ultime battute la dittatura di Francisco Franco, salito al potere nel 1939 quando aveva vinto la guerra civile [▶ cap. 8.6]. Da anni la società spagnola attraversava un lento ma significativo cambiamento, che aveva consentito un relativo miglioramento delle condizioni di vita, anche grazie alle rimesse degli emigrati e alle entrate del turismo. Alla morte del caudillo (duce) nel novembre 1975, si aprì una fase che restaurò le istituzioni liberaldemocratiche e la monarchia costituzionale. A guidare la Spagna dal 1975 fu designato il re Juan Carlos, che era stato nominato dal dittatore e che aveva affiancato Franco negli ultimi periodi di governo. Le debolezze della giovane democrazia spagnola vennero in luce nel 1981, quando una parte dell’esercito tentò un colpo di Stato, poi fallito [ 10]. Negli anni successivi le istituzioni democratiche si consolidarono, anche grazie al contributo del Partito socialista di Felipe Gonzalez. La Spagna, insieme con il Portogallo, fu ammessa nella Comunità economica europea nel 1986.

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In Grecia, dopo la fase drammatica della guerra civile del 1944-47 fra le forze comuniste e quelle anticomuniste [▶ cap. 10.1], era seguito un periodo di esistenza incerta delle istituzioni democratiche. Nel paese che si trovava sul confine con il blocco sovietico ed era strettamente condizionato dall’ingerenza degli Usa, l’esercito aveva sempre svolto una funzione di tutela dell’ordine contro la “minaccia comunista”. Nel 1967 la situazione era sfociata nel colpo di Stato militare che aveva portato al potere un gruppo di ufficiali dell’esercito (i cosiddetti “colonnelli”). La dittatura ebbe termine nel 1974 a causa della questione di Cipro, che da anni era contesa fra la Turchia e la Grecia: il regime di Atene nel luglio 1974 rovesciò militarmente il governo di Cipro, scatenando l’immediata reazione dell’esercito turco che invase l’isola del Mediterraneo orientale. Le divisioni interne alla giunta militare greca e il timore di una guerra con la Turchia avviarono il processo di transizione dalla dittatura alla Repubblica: nel giro di un anno fu approvata la Costituzione democratica e nel 1981 la Grecia fece il suo ingresso nella Comunità economica europea.
Il terrorismo
L’Europa occidentale fu scossa in questi anni dal ritorno della violenza politica, che era sembrata se non scomparsa, almeno marginalizzata negli oltre due decenni del dopoguerra. Dall’Irlanda del Nord all’Italia [▶ cap. 13.7], dalla Spagna alla Germania Ovest, sorsero gruppi armati che non esitarono a ricorrere al terrorismo per affermare le proprie rivendicazioni politiche. In Italia e Rft, i due paesi in cui, seppure in modo diverso, erano più ingombranti le eredità della Seconda guerra mondiale, i gruppi terroristi si presentavano come avanguardie rivoluzionarie che combattevano per un sovvertimento anticapitalista e antimperialista. In Spagna e in Irlanda del Nord invece, l’Eta (l’Organizzazione indipendentista basca) e l’Ira (l’Esercito repubblicano irlandese) erano caratterizzate da una commistione di marxismo e nazionalismo che mirava a risolvere in un sol colpo la questione sociale e quella nazionale.

In Irlanda del Nord si fronteggiavano i repubblicani di fede cattolica, favorevoli all’integrazione alla Repubblica d’Irlanda, e gli unionisti di fede protestante, sostenitori della lealtà a Londra, appoggiati dalle unità regolari dell’esercito britannico.

Dall’agosto 1969 si innescò una dinamica di guerriglia e controguerriglia che lasciò una tragica scia di sangue negli scontri e negli attentati che coinvolsero l’Ira e l’esercito britannico: in quasi trent’anni si contarono 3500 morti. L’apice della violenza fu raggiunto nella città di Derry, in Irlanda del Nord, il 30 gennaio 1972, nella cosiddetta “Bloody Sunday” (“domenica di sangue“), quando i paracadutisti britannici spararono contro una manifestazione pacifica uccidendo 14 persone [ 11].

In Germania occidentale prese forma una violenza politica di ispirazione marxista-leninista. La Rote Fraktion Armee, o gruppo Baader Meinhof dal nome di due suoi fondatori (Andreas Baader e Ulrike Meinhof) era una formazione terrorista di estrema sinistra fondata nel 1970 [ 12]. Dedito a colpire i simboli del “sistema imperialista”, il gruppo muoveva da una diagnosi pessimista della società tedesca e dei suoi legami con l’eredità del nazismo, identificata con il capitalismo avanzato. L’autunno del 1977, o “autunno tedesco”, segnò la degenerazione finale della lotta armata in una deriva irrazionale di episodi di pura e semplice violenza criminale, svincolata dagli ideali politici.

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La frantumazione politica
I paesi dell’Europa occidentale, durante gli anni Settanta, furono attraversati da un senso di sfiducia nei confronti della politica. I programmi delle forze che avevano governato apparivano realizzati e perciò esauriti, così anche i partiti politici che si erano affermati dopo il 1945 cominciarono a perdere i loro consensi o a rivolgersi a interlocutori sociali nuovi. Da un lato, la progressiva laicizzazione della società ridusse il potere e il prestigio delle chiese ed erose la base elettorale dei partiti democristiani. La loro capacità di adattare la tradizione religiosa cristiana alle esigenze della modernità era ormai superata dalle tendenze alla liberalizzazione che aveva animato i movimenti della fine degli anni Sessanta. D’altro canto, il mito della classe operaia si andava frantumando, mentre le classi lavoratrici delle grandi fabbriche si riducevano e si profilava una nuova struttura economica, basata sulla prevalenza del settore terziario. Ben distinto da quello primario (agricoltura) e secondario (industria), il terziario si riferisce a un ampio spettro di servizi nel settore turistico e commerciale (alberghi, ristoranti, esercizi pubblici), nelle assicurazioni, nell’insegnamento, nella ricerca e nella comunicazione. Si apriva così la stagione della “nuova sinistra”, che riprendeva le forme di mobilitazione sperimentate intorno al 1968. Nuovi soggetti sociali come le donne, le minoranze culturali, i giovani tendevano a imporsi sulla scena, organizzandosi in forme inedite, maggiormente svincolate dalle logiche della lotta di classe. Nelle manifestazioni venivano scanditi slogan ispirati al maoismo e ad altre ideologie rivoluzionarie esotiche, che rimpiazzavano i miti ormai usurati del comunismo sovietico. La difesa della natura dall’inquinamento e dallo sfruttamento intensivo alimentò una nuova forma di impegno: l’ambientalismo [ 13].
I partiti comunisti dell’Europa occidentale erano divisi fra la volontà di prendere le distanze da una politica sovietica che, soprattutto dopo la repressione della Primavera di Praga del 1968 [▶ cap. 12.4], appariva sempre più screditata e l’impossibilità di sciogliere il vincolo con il mito della rivoluzione russa. Tuttavia, nel quadro delle nuove tensioni internazionali, le forze comuniste occidentali, guidate dall’italiano Enrico Berlinguer, dal francese Georges Marchais e dallo spagnolo Santiago Carrillo, cercarono di darsi una forma sempre più autonoma da Mosca, lanciando il cosiddetto “eurocomunismo”. Ma le prospettive erano destinate a rovesciarsi nel breve giro di qualche anno: se intorno alla metà degli anni Settanta le forze comuniste apparivano in espansione, già all’inizio del decennio successivo sembravano aver esaurito la propria spinta propulsiva.

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14.4 Rivoluzioni “neoliberiste” ed Europa

La seconda crisi petrolifera e la fine del fordismo

La prima crisi energetica aveva contributo a definire la fisionomia di una nuova economia, che marcava la fine dei “trent’anni gloriosi” segnati dal boom economico e demografico e dalla gestione di un debito pubblico di bassa entità (tra il 30 e il 40% del prodotto interno lordo). Una seconda crisi petrolifera, provocata nel 1979 dallo scoppio della rivoluzione khomeinista in Iran, causò una nuova recessione.

La recessione accelerò il declino delle vecchie strutture industriali, specie di quelle basate su carbone e acciaio. Si profilò un superamento del sistema produttivo fordista, finalizzato alla produzione di beni di consumo di massa e fondato sulla grande fabbrica gerarchicamente organizzata e integrata nel tessuto economico territoriale.

Il postfordismo era invece caratterizzato da forme di produzione più flessibile e differenziata, anche grazie all’alta tecnologia che si concentrava su un numero limitato di prodotti specializzati. D’altro canto, l’automazione della produzione tendeva a marginalizzare l’apporto del fattore umano, contribuendo a creare una nuova frammentazione del mercato del lavoro in figure professionali molto diversificate. L’introduzione di robot che sostituivano il lavoro operaio nelle fabbriche fu accelerato dalla rivoluzione informatica. A partire dalla metà degli anni Settanta sorsero aziende importanti nel settore dei computer, come la Microsoft (fondata nel 1975 da Bill Gates) e la Apple (fondata nel 1976 da Steve Jobs), che avrebbero reso disponibile la tecnologia informatica sul mercato dei beni privati

[ 14].

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La crisi del Welfare State fu la conseguenza del suo stesso successo. Tutto il sistema di garanzie e diritti sociali si basava infatti su tassi di crescita economica e demografica misurati sul boom degli anni Cinquanta e Sessanta. L’aumento dei posti di lavoro garantito dall’espansione industriale doveva garantire le entrate fiscali, mentre le nuove generazioni avrebbero assicurato il pagamento delle pensioni di quelle precedenti. La recessione economica e la caduta della natalità, congiunte al declino del sistema industriale fordista e all’invecchiamento della popolazione, incrinarono le basi stesse su cui poggiavano i sistemi pensionistici dei paesi occidentali. Dopo aver toccato l’apice del grado di eguaglianza economica, che era il prodotto delle devastazioni delle due guerre mondiali e delle politiche redistributive, le società europee occidentali ripresero ad accumulare diseguaglianza ed emarginazione, mentre il marxismo cedeva il passo al postmodernismo [▶ idee].

  idee

La narrazione postmoderna

Nell’ultimo scorcio degli anni Settanta, sullo sfondo della grande trasformazione sociale dal fordismo al postfordismo, si formarono correnti intellettuali definite po­stmoderne, che mettevano in discussione la visione unitaria della realtà e della conoscenza, così come era stata definita dalle concezioni positiviste e marxiste.

Questo nuovo approccio di analisi privilegiò una critica radicale che si espresse attraverso la decostruzione di ogni grande narrazione storica in eventi non per forza correlati fra loro ma che vivevano di una propria indipendenza strutturale. Di qui scaturiva una predilezione per le narrazioni basate sul frammento, testimonianza dell’impossibilità di costruire una visione complessiva della realtà.

Gli intellettuali francesi, a partire da Jean-François Lyotard, cominciarono dunque a riflettere sulla “condizione postmoderna” e sulla frammentazione soggettivistica e relativistica del sapere. Il postmodernismo, applicato a vari campi della cultura (dalla filosofia alla letteratura, dalla storia all’architettura), tendeva a lavorare sulle contaminazioni e sulle ibridazioni fra stili e tradizioni, intesi come rappresentanti di diverse prospettive sul mondo.

Le correnti più radicali del po­stmodernismo contestavano addirittura l’idea stessa di verità e di realtà e finirono col caricarsi di un forte slancio antilluminista.

La “rivoluzione” thatcheriana
Negli anni Settanta l’Inghilterra, governata prima dai conservatori e poi dai laburisti, fu in balia di proteste sociali sostenute dai sindacati, che generarono preoccupazione circa la governabilità del paese. Alle elezioni del 1979 vinse il Partito conservatore guidato da Margaret Thatcher (poi nota come “Lady di ferro”), la prima donna a ricoprire la carica di primo ministro nel Regno Unito [ 15]. Il programma di governo prevedeva di invertire la tendenza al compromesso sociale e alla ricerca di alleanze politiche di centro che aveva caratterizzato il periodo successivo al 1945.

Il nuovo corso “conservatore” imputava al Welfare State l’espansione eccessiva della spesa pubblica; perciò il governo mirò a un taglio netto delle tasse. La massima di Margaret Thatcher, in cui un radicale individualismo si combinava al tradizionalismo, era: «La società non esiste. Esistono solo singoli uomini e donne, e famiglie».

Negli anni successivi la scoperta di giacimenti petroliferi nel Mare del Nord, proprio nella fase più acuta della seconda crisi energetica, favorì in Inghilterra una certa ripresa economica. La politica economica fu quindi centrata su un vasto programma di privatizzazioni di servizi (come energia, trasporti aerei e ferroviari, rete delle telecomunicazioni), con lo scopo di abbatterne i costi e di migliorarne l’efficienza, ma al prezzo di tagliare l’occupazione in questi settori strategici. La Thatcher adottò quindi uno stile di governo centralistico e autoritario per contrastare le organizzazioni sindacali considerate ostacoli alla libertà d’impresa individuale e fautrici di una struttura produttiva obsoleta: in particolare lo scontro più forte fu quello che il governo intraprese con i minatori di carbone. Il cambiamento delle risorse energetiche aveva ormai reso inutile e superato l’utilizzo del carbone: fu prevista quindi la chiusura progressiva di 20 miniere di carbone, che avrebbe comportato il taglio di un grande numero di posti di lavoro (circa 20 000). Fra il 1984 e il 1985, nonostante le forti opposizioni dei minatori e gli scioperi di massa, il governo represse, anche con la forza, le proteste e chiuse le miniere [ 16].

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La spesa pubblica e il carico fiscale sotto la Thatcher, tuttavia, non diminuirono in modo significativo; al contrario, alla riduzione di alcune voci del Welfare State fece da contrappeso l’aumento delle spese militari, che si intrecciò con una nuova ondata patriottica. In particolare, la guerra delle Falkland che erano contese fra Argentina (che ne rivendicava l’appartenenza col nome Malvinas) e il Regno Unito (in quanto l’isola fece parte dell’Impero britannico a partire dal 1830), risvegliò per qualche mese le ambizioni imperiali britanniche. Nell’aprile 1982, le isole al largo delle coste sudamericane furono conquistate dalle truppe argentine, con una mossa a sorpresa della giunta militare che guidava il paese sudamericano e che mirava a risollevarsi dalla crescente impopolarità interna. Con un intervento rapido ed efficace, conclusosi dopo dieci settimane, nel giugno 1982 le forze britanniche ripresero il controllo delle Falkland/Malvinas, infliggendo una severa sconfitta ai generali argentini, che furono così costretti a lasciare il potere a favore di elezioni democratiche.
L’era reaganiana
Nel corso degli anni Settanta, la società statunitense attraversò una fase critica, segnata dalla chiusura di grandi fabbriche e dalla disoccupazione diffusa soprattutto nel Midwest (regione che comprende gli Stati dal Michigan al Kansas), che a loro volta generarono la sfiducia nelle istituzioni democratiche e la diffusione della criminalità nelle grandi città. In particolare, l’aumento del debito pubblico e dell’inflazione crearono le condizioni per un periodo di recessione, che fu aggravato dall’innalzarsi del prezzo del petrolio in occasione delle due crisi energetiche del 1973 e del 1979. Già nell’autunno del 1979 la Banca centrale americana (la Federal Reserve Bank) decise di limitare l’offerta di moneta e di rialzare i tassi di interesse per rivalutare il dollaro e per abbattere la spinta dell’inflazione, alimentata dalla nuova crisi petrolifera. Per cercare di rilanciare l’economia, il presidente democratico Jimmy Carter adottò per la prima volta misure di riduzione del carico fiscale e di liberalizzazione dei principali servizi, così da favorire la libera concorrenza.
Nel 1980, in seguito alla crisi degli ostaggi statunitensi in Iran, la figura del presidente Carter subì un grave danno d’immagine e alle elezioni venne sconfitto dal candidato repubblicano, l’ex attore di Hollywood e governatore della California, Ronald Reagan [ 17]. Una volta insediatosi alla Casa Bianca, Reagan confermò le politiche di deregolamentazione attuate dalla precedente presidenza, dando avvio al nuovo decennio con lo slancio di una rinnovata fiducia nel mercato, sotto la spinta delle forze più conservatrici della società statunitense. Furono adottate politiche di restringimento della spesa pubblica destinata al Welfare State e di ampliamento della spesa militare nel nuovo contesto di antagonismo con l’Unione Sovietica, che portarono a esiti contraddittori. Queste misure determinarono una recessione che significò anzitutto la compressione dei consumi, ma avviarono anche una fase di deflazione che, insieme al taglio delle tasse, consentì di attrarre investimenti e stimolare la ripresa economica. Nonostante i pesanti costi sociali di queste politiche e la crescita vertiginosa del debito pubblico, derivanti soprattutto dalla spesa militare, Reagan fu un presidente piuttosto popolare, tanto che nel 1984 vinse un secondo mandato presidenziale. Proprio negli anni della presidenza Reagan si diffuse, prima negli Stati Uniti e poi in tutto l’Occidente, la paura per il contagio dell’Aids, la “peste del Duemila” [▶ fenomeni].

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  fenomeni

L’Aids

L’Aids (Acquired Immune Deficiency Syndrome, “sindrome da immunodeficienza acquisita”) è una malattia virale provocata dall’infezione da parte del virus dell’immunodeficienza umana, l’Hiv (Human Immunodeficiency Virus). L’azione dell’Hiv causa la perdita di efficienza del sistema immunitario ed espone chi ha contratto il virus a ulteriori infezioni (come la tubercolosi) o a particolari forme tumorali. L’Aids è stata clinicamente osservata per la prima volta nel 1981, su pazienti ricoverati negli Stati Uniti, ma la malattia era già nota da tempo.

Un gruppo di scienziati ha recentemente stabilito che il primo contagio umano da parte di un virus simile a quello dell’Hiv risale al 1920, nella città di Kinshasa (al tempo Leopoldville nel Congo belga) e fu trasmesso da uno scimpanzé. La grandezza della città, in piena espansione anche per via del grande afflusso di persone (oltre un milione l’anno) dovuto alla nuova rete ferroviaria, le scarse condizioni igieniche delle strutture sanitarie locali e la diffusione della prostituzione costituirono le premesse per il contagio che cominciò a dilagare fra gli anni Quaranta e Sessanta dapprima in Africa e poi nel resto del mondo.

All’inizio degli anni Ottanta, il rapido decorso della malattia e l’alta percentuale di morti fra chi la contraeva suscitarono l’allarme generale in Occidente, in un’epoca in cui l’opinione pubblica pensava che le più gravi malattie infettive fossero state debellate. In una prima fase l’epidemia sembrò riguardare solo omosessuali e tossicodipendenti, alimentando i pregiudizi verso queste categorie, ma presto divenne evidente la sua capacità di colpire chiunque, trasformandosi in una pandemia globale. Solo nel 1986 fu identificato con certezza il virus dell’Hiv, trasmissibile attraverso l’attività sessuale non protetta, le trasfusioni di sangue infetto, le siringhe, il contagio di madre in figlio durante la gravidanza e l’allattamento.

A scuotere l’opinione pubblica fu, nel 1985, la diffusione della notizia della malattia dell’attore americano Rock Hudson, che attirò l’attenzione mediatica sulla malattia. Il caso più celebre fu quello del cantante Freddie Mercurie, il frontman dei Queen, morto nel novembre 1991, il giorno dopo aver comunicato pubblicamente di esser affetto dalla malattia.

Si calcola che dall’inizio degli anni Ottanta a oggi siano state infettate dall’Aids circa 76 milioni di persone e ne siano morte circa 35 milioni in tutto il mondo. Si sono fatti notevoli progressi nella prevenzione e nella cura di questa malattia, anche se nel 2016 risultano ancora infette circa 37 milioni di persone. Il continente di gran lunga più colpito resta l’Africa (soprattutto quella subsahariana), dove, secondo i dati del 2016, sono oltre 25 milioni le persone contagiate (quasi il 60% donne); quasi un terzo della popolazione mondiale infettato e ucciso dal­l’Aids è di origine africana.

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Mitterrand-Kohl, l’asse franco-tedesco
Le trasformazioni radicali promosse tanto nell’Inghilterra della Thatcher quanto negli Stati Uniti di Reagan trovarono un’eco nel vecchio continente soprattutto sul piano ideologico, diffondendo la convinzione che la funzione dello statalismo socialista e socialdemocratico si stesse esaurendo. Al tempo stesso, il declino demografico e la vasta spesa sociale facevano aumentare i debiti pubblici, che finivano col gravare sulle spalle delle generazioni future. Nei primi anni Ottanta però, l’impatto delle politiche liberiste e monetariste sul vecchio continente fu limitato, anche se sarebbe presto aumentato.
In Francia, il presidente Charles De Gaulle, dopo essersi imposto sui movimenti del Maggio francese [▶ cap. 12.5], subì la sconfitta al referendum del 1969 sulla riforma del Senato e sulla costituzione delle regioni e perciò si ritirò dalla scena pubblica. Il potere passò prima al primo ministro sotto lo stesso De Gaulle, Georges Pompidou, e poi al liberale Valéry Giscard d’Estaing. François Mitterrand, un ex cattolico conservatore che negli anni Trenta aveva militato in formazioni nazionaliste, si era intanto assicurato la guida del Partito socialista. Nel 1981, con l’appoggio del Partito comunista, egli fu capace di portare i socialisti alla vittoria alle elezioni presidenziali, che sembrarono preludere a una fase “rivoluzionaria”. Nei primi due anni furono varate nazionalizzazioni di settori chiave del sistema economico e bancario e furono adottate radicali riforme sociali riguardo a salari, orari di lavoro ed età pensionabile. Tuttavia, la crescita del debito pubblico e dell’inflazione, insieme alla stagnazione della produzione, indusse un brusco cambio di direzione, che provocò la rottura fra socialisti e comunisti. Mitterrand dovette così adattarsi a politiche di rigore finanziario e a promuovere una serie di privatizzazioni che consentissero di modernizzare il paese, riuscendo a riconfermarsi presidente della Repubblica alle elezioni del 1988.
In Germania Ovest, il Partito cristiano democratico (Cdu) cercò di conservare una tradizione che valorizzava gli strumenti della mediazione e del consenso sociale. Il politico renano Helmut Kohl, dopo una lunga carriera politica all’interno della Cdu, fu eletto cancelliere della Repubblica federale nel 1982, carica che avrebbe conservato fino al 1998. Egli assunse una serie di provvedimenti volti a rafforzare il Welfare State (indennità di disoccupazione, nuove forme di assicurazione, regime di pensionamento anticipato), pur varando incentivi fiscali che stimolassero l’iniziativa e la competizione individuale.
Intorno alla metà degli anni Ottanta, Mitterrand e Kohl diedero poi vita all’asse franco-tedesco, con cui riuscirono a chiudere definitivamente un passato di conflitti che aveva opposto i due paesi dal 1870 e attraverso le due guerre mondiali. Nel contesto della riacutizzazione della Guerra fredda, il presidente francese e il cancelliere della Rft avviarono quindi il percorso verso una più stretta integrazione della Comunità economica europea [ 18].
Nuovi passi per la Cee
La Comunità economica europea, fondata nel 1957 [▶ cap. 10.6], continuava il suo processo di integrazione e di allargamento. Nel 1973, furono ufficialmente ammesse Irlanda, Danimarca e Regno Unito, anche se queste ultime due continuarono ad affermare la propria autonomia all’interno del progetto europeo.
In un quadro di incertezza globale, in cui la politica sembrava perdere strumenti capaci di governare l’economia, l’Europa cercò di rafforzare le forme di coordinamento soprattutto in materia economica e monetaria, attraverso un fitto calendario di incontri governativi. In particolare, la Comunità economica europea decise di dotarsi di uno strumento di regolazione dei cambi, inteso a rimpiazzare la centralità del dollaro. Fu quindi varato nel 1979 il Sistema monetario europeo (Sme), che assegnò al marco tedesco una posizione decisiva per determinare i rapporti con le altre monete europee.

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Dopo l’ammissione di Grecia, Spagna e Portogallo, negli anni Ottanta, si procedette quindi alla creazione di fondi strutturali, che venivano stanziati dagli organi della Comunità economica europea e che permisero un ingente trasferimento di risorse dalle regioni più ricche alle aree più depresse, promuovendone lo sviluppo in modo tale da diminuire il più possibile il divario fra Stati all’interno della Cee.

Nel momento in cui la contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica conosceva una nuova fase di irrigidimento, nella prima metà degli anni Ottanta, si aprirono spazi per un rafforzamento dell’edificio istituzionale europeo. La presidenza francese della Comunità economica europea, rappresentata dall’economista socialista Jacques Delors, fu artefice dell’Atto unico (firmato in Lussemburgo nel febbraio 1986), che ▶ emendava i Trattati di Roma del 1957 [▶ cap. 10.6-13.4] con il proposito di realizzare «un concreto progresso verso l’unità europea», come recitava il testo ufficiale. I suoi principi di libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone erano però già stati stabiliti da tempo. A integrarli intervenne il Trattato di Schengen, firmato nel 1985 ma entrato in vigore solo nel 1995.

14.5 Nuove tensioni internazionali

La fine della distensione

Una serie di sviluppi, legati al quadro internazionale, segnò la fine della distensione avviando la “seconda Guerra fredda”.

La politica del presidente americano Carter, ispirata all’affermazione dei diritti dell’uomo sanciti dal Trattato di Helsinki, ebbe effetti destabilizzanti sul quadro di relazioni distensive che si era fatto strada a fatica negli anni precedenti. Si trattava di un netto scarto rispetto alla Realpolitik di Kissinger, per avviare un nuovo corso funzionale a recuperare il senso di superiorità morale che gli Stati Uniti sembravano aver perduto inVietnam. Maturarono quindi una serie di divergenze fra la politica di Carter, che condannava l’Urss e i paesi del blocco sovietico per la violazione dei diritti umani, e quella più distensiva dei leader europei. Fra questi, a opporsi, fu soprattutto il socialdemocratico tedesco Schmidt, che continuava a promuovere la linea dell’Ostpolitik.

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Nel 1976 i sovietici pianificarono la sostituzione di armi nucleari obsolete con nuovi missili, tecnologicamente più efficienti, gli SS-20. Questa mossa inattesa inasprì le relazioni con la Nato, in un contesto in cui riprendeva la competizione fra le due superpotenze soprattutto nello scacchiere extraeuropeo. Le crescenti tensioni del periodo scatenarono la cosiddetta “crisi dei missili” che si sarebbe sviluppata negli anni seguenti: nel 1983 la Nato optò per l’installazione in Europa occidentale di missili Pershing II e Cruise (i cosiddetti “euromissili”), in risposta allo schieramento degli SS-20 a medio-lungo raggio in Ucraina. Questa scelta, avvallata dal cancelliere tedesco Schmidt e dal presidente del Consiglio italiano, il socialista Bettino Craxi, incrinava la supremazia missilistica sovietica. La nuova corsa alle armi suscitò ampi movimenti pacifisti in Europa occidentale, non privi di frange spiccatamente antiamericane, che protestarono contro l’installazione dei missili di entrambe le parti e rivendicarono la costituzione di uno spazio politico neutrale nella contesa tra Est e Ovest.
A causa del peggioramento delle relazioni internazionali e soprattutto in risposta all’invasione sovietica dell’Afghanistan, gli Stati Uniti decisero di boicottare i Giochi olimpici di Mosca del 1980. I sovietici risposero con una misura analoga in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, mentre si acuiva la contrapposizione militare e ideologica fra le due superpotenze. Lo “scudo spaziale” e le “guerre stellari” diventarono le parole d’ordine della prima presidenza Reagan, che promosse la lotta contro l’Urss come una lotta contro l’“Impero del male”. Anche se nel frattempo furono avviati nuovi colloqui per la riduzione degli armamenti strategici e convenzionali, le politiche di riarmo adottate da Reagan puntavano a spingere l’Urss a imboccare la stessa via, aggravandone le difficoltà economiche e finanziarie.
La guerra in Afghanistan
Alla metà degli anni Settanta, convinta di un prossimo crollo del capitalismo, l’Unione Sovietica perseguiva con vigore una politica di attivo sostegno alle forze rivoluzionarie in Africa e in Asia.

L’Afghanistan, che fin dall’Ottocento era stato al centro di una serie di conflitti militari e trame diplomatiche tra le grandi potenze (soprattutto Impero russo e britannico), si dimostrò il più aspro dei terreni di battaglia su cui si misurò l’Armata rossa.

Nell’aprile del 1978 a Kabul, capitale afghana, un gruppo di ufficiali rivoluzionari prese il potere fondando una Repubblica democratica filocomunista, ma divisa in fazioni interne. Essa promosse una politica di riforme radicali, accompagnata da una dura repressione delle opposizioni, rendendosi così invisa a una società tradizionale e tribale. Nacque, perciò, un’opposizione armata che metteva a rischio la sopravvivenza del nuovo regime. A quel punto, nonostante i timori che l’Afghanistan potesse trasformarsi in una trappola politica e militare, Mosca decise di intervenire con la forza. Nel dicembre 1979 l’Armata rossa entrò a Kabul, inscenando un colpo di Stato con cui sostituì il governo locale, instaurandone uno di sicura fedeltà.

Nel paese cominciò allora a organizzarsi una forte resistenza, composta per lo più di guerriglieri islamici (mujahiddin), finanziati, armati e addestrati non solo dal Pakistan, ma anche dagli Stati Uniti. La conduzione della guerra da parte di Mosca fu disastrosa: le truppe sovietiche infatti risucirono ad assumere il controllo soltanto delle città e delle principali vie di comunicazione, in un paese per lo più rurale e montuoso. La popolazione dei villaggi forniva appoggio e rifugio ai guerriglieri, che operavano in piccoli gruppi attraverso imboscate e sabotaggi. Di conseguenza, l’Armata rossa cercò di sradicare le cellule islamiste attraverso il ricorso massiccio ai bombardamenti e disseminando il territorio di mine, che colpivano soprattutto la popolazione civile. I combattimenti si concentrarono nella valle del Panjshir al confine con il Pakistan, roccaforte dei mujahiddin guidati dal comandante Ahmad Shāh Massoūd: con dieci offensive tra il 1980 e il 1985, i sovietici cercarono di conquistare la valle senza riuscire tuttavia ad avere la meglio sulla resistenza della guerriglia [ 19]. I metodi brutali dell’Armata rossa, che comprendevano anche rastrellamenti di civili nei villaggi che davano rifugio ai mujahiddin, alienarono alle autorità di occupazione sovietiche ogni possibilità di costruire un proprio consenso.

Solo nella seconda metà degli anni Ottanta, anche grazie alle aperture del nuovo segretario del Partito comunista sovietico Michail Gorbačev, fu possibile avviare una serie di trattative che portarono al ritiro delle forze sovietiche, nel febbraio 1989. In dieci anni di guerra, il conflitto causò la morte di un numero altissimo di civili (fino a due milioni) e di oltre 15 000 soldati sovietici.

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La successione a Brežnev
Nel 1977 fu varata una nuova Costituzione sovietica, che secondo i proclami della propaganda coronava l’avvento del “socialismo sviluppato” [▶ cap. 12.2]. Tuttavia, segni di degrado economico e sociale affioravano ovunque, con la tendenza all’inerzia e alla perdita di efficienza degli apparati produttivi e amministrativi, mentre una classe dirigente in cui era scarso il ricambio generazionale [ 20]  impediva ogni iniziativa di rinnovamento. Furono proseguite le politiche di russificazione, con l’intento di consolidare l’Unione, soprattutto nelle repubbliche occidentali come Ucraina e Bielorussia, anche se la guerra in Afghanistan contribuì a destabilizzare l’Asia centrale sovietica.

Il bilancio del lungo dominio di Brežnev, associato ormai all’idea di “stagnazione”, era tutt’altro che positivo, sia in politica interna sia in politica estera; tuttavia, neanche la sua morte nel 1982 sembrò scuotere l’Unione Sovietica. Al suo posto si susseguirono, in veloce sequenza, Jurij Andropov (1982-84) e Konstantin Černenko (1984-85), entrambi anziani ed entrambi morti poco tempo dopo aver assunto l’incarico, rendendo ancora più evidente l’esigenza di una riforma radicale del sistema, che però sembrava ormai attraversare una crisi senza via d’uscita.

I primi segnali di crisi del blocco sovietico
I regimi comunisti dell’Est Europa avevano seguito strade in parte diverse. La Cecoslovacchia, dopo il fallimento della Primavera di Praga, aveva puntato soprattutto sulla normalizzazione autoritaria, con cui furono abolite le riforme liberali anche attraverso l’uso della repressione, mentre la Polonia e l’Ungheria si erano parzialmente aperte alla produzione di beni di consumo per soddisfare la domanda della popolazione. Tuttavia, per sostenere gli investimenti, questi paesi erano ricorsi a ingenti prestiti internazionali, finendo così schiacciati dal peso del debito estero. Contemporaneamente, cominciò a salire l’inflazione che colpì soprattutto i beni di consumo, alimentando il mercato nero e provocando un crescente malcontento sociale. La situazione fu catastrofica in Romania, dominata da un regime sempre più isolato, che tendeva a identificare comunismo e nazionalismo e che si era in parte allontanato dal Patto di Varsavia. Dopo aver contratto un enorme prestito per lanciare un programma di sviluppo economico, il dittatore Ceausescu mirò a raggiungere a ogni costo il pareggio del debito pubblico, devolvendo larghissima parte della produzione all’esportazione e riducendo in miseria la propria popolazione.

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Fu soprattutto in Polonia che si creò uno scenario nuovo, anche grazie alla personalità carismatica del nuovo papa, il polacco Karol Wojtyla. Eletto col nome di Giovanni Paolo II nell’ottobre 1978, più giovane rispetto all’età consueta dei suoi predecessori (aveva 58 anni), era stato in precedenza arcivescovo di Cracovia ed era entrato in rotta con il regime comunista. Insediatosi a Roma, egli intese far propria l’eredità del Concilio Vaticano II [▶ cap. 12.1], che assegnava alla Chiesa una nuova missione pastorale nella società moderna. Intransigente in materia teologica e morale, si presentava come un irriducibile avversario tanto del comunismo quanto del capitalismo, che ai suoi occhi rappresentavano due versioni della stessa tendenza al materialismo. La sua ascesa al soglio pontificio ebbe un effetto particolarmente dirompente nei paesi comunisti, a partire dalla Polonia, dove un profondo substrato cattolico era sopravvissuto alla repressione comunista: Giovanni Paolo II fece visita al suo paese natale nel giugno successivo (1979) e celebrò la messa di fronte a un milione di fedeli a Varsavia [ 21], sfidando il regime di Edward Gierek. La Chiesa polacca diventò quindi il nucleo di un vasto fronte di opposizione al sistema comunista che avrebbe presto trovato forma organizzata.
Durante i dieci anni (1970-80) alla guida del Partito comunista polacco, Gierek aveva cercato di controllare le agitazioni con la polizia e i prestiti dall’estero. Nell’agosto del 1980, anche a causa dell’aumento del prezzo della carne, si giunse alla proclamazione di uno sciopero nelle città industriali, che si estese ai cantieri navali di Danzica. Grazie ad un accordo firmato alla fine di agosto con il governo di Gierek che prevedeva un riconoscimento del diritto a formare sindacati liberi e indipendenti e un allentamento della censura, Lech Wałesa, già protagonista dei moti del dicembre 1970 [▶ cap. 12.4] costituì il movimento sindacale di Solidarność [ 22], che riuscì a unificare intellettuali e operai, laici e cattolici, raggiungendo i nove milioni e mezzo di iscritti. La sua prospettiva di riforma insieme morale, economica e sociale attingeva soprattutto alla concezione cattolica di solidarietà, ma era aperta al contributo del socialismo laico non marxista, pur lasciando da parte le questioni più apertamente politiche, per evitare uno scontro diretto con il regime.

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Tuttavia, il timore di un intervento militare sovietico, che sull’esempio di quanto era accaduto a Praga nel 1968 mirasse a riportare l’ordine in Polonia, impresse una svolta alla situazione. Il 13 dicembre 1981, il generale Wojciech Jaruzelski assunse il potere esautorando Gierek e proclamando la legge marziale, senza incontrare troppa resistenza nelle strade e nelle piazze. In virtù del proclamato “stato di guerra” i leader di Solidarność furono arrestati, il sindacato fu messo fuori legge e le speranze di rinnovamento che aveva suscitato furono per il momento archiviate. La legge marziale fu abolita nel luglio 1983.
Con la sua posizione indipendente rispetto all’Urss, la Iugoslavia, fra gli anni Sessanta e Settanta, era stata una delle società più sviluppate e aperte del mondo socialista. Tuttavia, le due crisi energetiche del 1973 e del 1979 provocarono un drastico rallentamento dell’economia, inflazione e disoccupazione. La Costituzione del 1974 avrebbe dovuto garantire un equilibrio soddisfacente fra le varie repubbliche ma la morte di Tito, nel maggio del 1980, aggravò ulteriormente la situazione e alimentò le tensioni interne dando origine a una grave crisi istituzionale. Alla crescente incapacità della Federazione iugoslava di garantire una gestione collegiale, corrispose, nel corso degli anni Ottanta, il peso crescente del nazionalismo serbo, che cercava di riformulare le basi dello Stato in senso più unitario e favorevole a Belgrado. Il primo lacerante punto d’attrito fu la provincia autonoma del Kosovo, formalmente appartenente alla Repubblica serba di Iugoslavia, ma popolato da una maggioranza albanese. Nel marzo-aprile 1981 si verificarono gravi scontri, alimentati da un crescente nazionalismo albanese e soffocati con la forza dalle autorità iugoslave. La successiva repressione non riuscì però a piegare le spinte degli albanesi del Kosovo che intendevano conseguire lo status di Repubblica.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi