13.6 La crisi degli anni Settanta

13.6 La crisi degli anni Settanta

La crisi economica
La crisi economica globale, che nel 1971 pose fine al primato del dollaro, si aggravò con la guerra dello Yom Kippur nel 1973 in Palestina e con la conseguente decisione da parte dei paesi arabi dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) di aumentare in modo rilevante il prezzo del petrolio. Le ripercussioni sull’Italia furono gravi e durature, portando a una lunga fase di stagnazione e di disoccupazione che mandò in frantumi le prospettive di crescita. In particolare, si verificò un aumento esponenziale dell’inflazione, che diventò la più alta del mondo occidentale (nel 1974 sfiorò il 20%), conducendo alla svalutazione della lira e al rincaro dei prezzi delle importazioni. In concomitanza con la crisi delle grandi industrie, affiorava lentamente un nuovo tessuto produttivo composto da piccole imprese, concentrate soprattutto nel Nord-Est del paese, che riuscirono a sfruttare le condizioni favorevoli all’esportazione di prodotti di alta specializzazione, grazie alla svalutazione della lira italiana che rendeva molto bassi, per il mercato estero, i prezzi dei prodotti italiani.
Mentre in Italia si valutava l’opportunità di investire nelle centrali nucleari per affrontare il fabbisogno energetico, si ricorreva alla restrizione forzata dei consumi, con l’introduzione di una serie di provvedimenti che riducevano l’illuminazione pubblica, le insegne pubblicitarie, la programmazione degli spettacoli teatrali, cinematografici e televisivi, e la circolazione delle macchine nei giorni festivi (le “domeniche a piedi”) [ 15]. Gli italiani scoprivano l’appello morale all’austerità, che mirava a contenere il consumismo che si era diffuso nel decennio precedente. D’altro canto, in questo nuovo contesto si faceva più acuta la sensibilità dell’opinione pubblica nei confronti di alcuni gravi scandali che facevano emergere prassi di corruzione ampiamente radicate nella classe dirigente. Molti di questi scandali dipendevano infatti da canali illegali di finanziamento dei partiti, che produssero gravi distorsioni nei rapporti fra politica ed economia, come il cosiddetto “scandalo dei petroli” (1974), in cui esponenti di spicco dei partiti di governo furono indagati per aver ricevuto tangenti da parte dell’Enel (la compagnia elettrica di Stato) e da alcune compagnie petrolifere, affinché disincentivassero lo sviluppo di centrali nucleari nel paese. Proprio in quegli anni si avanzavano le prime accuse di “consociativismo”, ossia di un sistema in cui la maggioranza e l’opposizione tendevano a stringere accordi informali per spartirsi cariche e risorse pubbliche secondo una logica di “lottizzazione” del potere.

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Riforme e trasformazioni sociali
Negli anni delle agitazioni sociali a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, i governi si adoperarono per portare avanti l’attuazione della Costituzione, di cui rimanevano incompiuti molti articoli. Tra le riforme più importanti vi fu la realizzazione nel 1970 del nuovo ordinamento regionale. Con esso il governo centrale di Roma delegava alcuni poteri di amministrazione territoriale ai Consigli regionali, i nuovi organi amministrativi i cui rappresentanti venivano scelti tramite elezioni.
Un’altra riforma di grande importanza fu l’istituzione, nel 1978, del Servizio sanitario nazionale, un organismo incaricato dell’assistenza sanitaria esteso su tutto il territorio e articolato in sedi distaccate (Unità sanitarie locali) in ogni comune e in ogni quartiere delle principali città. In questo modo fu possibile garantire un livello di prestazioni sanitarie più omogeneo sul piano nazionale, che però si caricò di costi e di sprechi crescenti. Al tempo stesso, la gestione delle Usl fu affidata a figure spesso legate alla politica, alimentando l’invadenza dei partiti, senza che perciò migliorasse i rapporti fra cittadini e Stato. La riforma sanitaria, insieme al sistema pensionistico, contribuì infine a un pesante aggravio del debito pubblico, anche perché degenerò in forme di assistenzialismo, a causa del quale la tutela individuale e la coesione sociale nel presente avvenivano a discapito delle generazioni future.

Gli anni Settanta furono caratterizzati anche dalla lotta per i diritti civili [ 16], portate avanti per aggiornare la legge italiana ai cambiamenti delle relazioni sociali consolidati nel dopoguerra. La legge sul divorzio fu approvata dal parlamento alla fine del 1970 e sancì la spaccatura interna al governo: la Dc e la componente cattolica di governo, contraria al divorzio, furono messi in minoranza nella votazione grazie al sostegno alla proposta di legge dei socialisti e dei repubblicani (allora al governo con la Dc) insieme con i liberali e i comunisti. Come consentito dalla Costituzione, la Dc raccolse le firme per poter indire un ▶ referendum abrogativo della legge sul divorzio. Il primo ricorso all’istituto del referendum catalizzò la vita pubblica, opponendo all’attiva campagna da parte del Partito radicale di Marco Pannella quella contraria da parte della Chiesa, aprendo una profonda frattura culturale nella società italiana. Il referendum, che si tenne nel maggio 1974, confermò la legge sul divorzio con una larga maggioranza (59%). Similmente, anche la legge sull’aborto, approvata nel 1978, fu sottoposta a referendum nel maggio 1981 e confermata da una larghissima maggioranza (68%).

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Tra le conseguenze dei cambiamenti sociali e culturali, che trovarono riflesso nell’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto, dalla metà degli anni Settanta in poi si avviò un repentino e inatteso crollo della natalità, certamente favorito dall’uso della contraccezione e dal declino della religione tradizionale. Rispetto all’aumento demografico del dopoguerra fu una drastica inversione di tendenza, comparabile soltanto a quello che avvenne in altri paesi dalla tradizione cattolica, come la Spagna durante gli anni successivi al crollo del regime franchista nel 1975. Il sistema di Welfare State, che secondo i suoi sostenitori doveva tutelare i cittadini “dalla culla alla bara” [▶ cap. 10.3], creò dunque le condizioni perché diminuisse il numero delle nascite e si allungassero altrettanto le aspettative di vita, provocando un significativo invecchiamento della società e originando in prospettiva gravi squilibri anche sociali ed economici.

13.7 Terrorismo, strategia della tensione e compromesso storico

Il terrorismo nero
All’interno delle dinamiche della Guerra fredda, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, in Italia, che era un paese di confine tra il blocco sovietico e quello occidentale, si profilò la cosiddetta “strategia della tensione”, secondo la definizione coniata dal giornale inglese The Observer.
A ben vedere, i gruppi sovversivi di estrema destra avviarono una serie di azioni che non si concretizzarono mai in una strategia organica. Si trattava di un insieme eterogeneo di atti terroristici attribuiti di volta in volta ai “comunisti” o agli “anarchici”, intesi a diffondere la paura tra la popolazione, screditando i movimenti di sinistra, destabilizzando le istituzioni democratiche e legittimando la dichiarazione dello stato d’emergenza. Questa minaccia appariva tanto più credibile in un contesto mediterraneo in cui l’Italia era circondata da dittature di destra come il Portogallo di Salazar [▶ cap. 8.4], la Spagna di Franco [▶ cap. 8.6] e la Grecia, dove un colpo di Stato militare aveva instaurato la “dittatura dei colonnelli” per arginare l’espansione del Partito comunista greco [▶ cap. 10.1].
Il primo di questi atti fu la bomba fatta esplodere in piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura, che causò la morte di 17 persone. Fin da subito le indagini si rivolsero erroneamente a cercare i responsabili tra i gruppi anarchici (Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, durante l’interrogatorio in questura venne defenestrato dal quarto piano morendo sul colpo), mentre cominciava a cristallizzarsi l’idea che vi fosse una regia occulta dietro l’attentato che coinvolgesse anche alcuni organi dello Stato: per questo venne coniata la formula “strage di Stato” [ 17]. Dopo un processo andato avanti per quasi trent’anni (a causa dei numerosi depistaggi) e conclusosi senza condanne per la prescrizione dei reati, i giudici hanno infine dimostrato che l’attentato di piazza Fontana fu compiuto da militanti di “Ordine nuovo”, un gruppo dell’estrema destra neofascista con la copertura o la collaborazione di settori dei servizi segreti, per contrastare l’espansione delle lotte e delle conquiste sindacali.

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Nei mesi successivi si susseguirono voci intorno ai preparativi di un colpo di Stato, in un clima sconvolto a solo due anni di distanza dalla pubblicazione dei documenti che comprovavano l’esistenza del “piano Solo”. Nel dicembre 1970, i timori di azioni eversive furono confermati dal tentato golpe, subito interrotto, da parte di Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas (formazione paramilitare della Repubblica di Salò [▶ cap. 9.8] e presidente onorario dell’Msi. La notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970 infatti Borghese mobilitò i cospiratori, infiltrati nell’esercito e nell’Arma dei Carabinieri, ma, temendo di esser stato scoperto, diede l’ordine di fermare il colpo di Stato, di cui l’opinione pubblica conobbe l’esistenza solo tre mesi dopo.
Dalla metà degli anni Settanta, nello stesso periodo in cui si scatenava il terrorismo di sinistra, ebbe luogo una serie di gravissimi attentati compiuti da esponenti dell’estrema destra: il 28 maggio 1974, durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista, in piazza della Loggia a Brescia, scoppiò una bomba che provocò la morte di 8 persone; poco più di due mesi dopo, nella notte fra il 3 e il 4 agosto, un’altra bomba esplose sul treno Italicus, uccidendo 12 persone. L’escalation di violenza raggiunse il suo apice il 2 agosto 1980, quando fu fatta esplodere una bomba posizionata in una sala d’attesa della stazione ferroviaria di Bologna [ 18], in quella che fu l’azione terroristica più efferata e sanguinosa compiuta da un gruppo neofascista e in cui persero la vita 85 persone.
Il terrorismo rosso
Dai primi anni Settanta, in un quadro di crescente insofferenza e ostilità verso i partiti politici, i movimenti della sinistra extraparlamentare, sorti intorno al 1968, si inquadrarono in forme sempre più organizzate e strutturate. Prese vita così una galassia quanto mai frammentata di formazioni estremiste suddivise però lungo due linee fondamentali: da una parte i movimenti di massa come Lotta continua, che puntavano a un rinnovamento culturale radicale, pur senza esitare di fronte agli scontri di piazza; dall’altra i piccoli gruppi che si concepivano come avanguardie rivoluzionarie, organizzandosi in cellule clandestine sempre più disponibili a ricorrere alla lotta armata. Su questi ultimi esercitarono un grande fascino i modelli di guerriglia terzomondista così come la memoria della lotta partigiana in Italia.

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Il più importante gruppo terrorista, le Brigate rosse (Br) costituite nel 1970, inizialmente si dedicò alla “propaganda armata”, con l’intenzione dichiarata di rovesciare il cosiddetto “Stato imperialista delle multinazionali” (ovvero lo Stato democratico italiano) e di instaurare in Italia la dittatura del proletariato. La propaganda armata si basava sul motto «colpirne uno, per educarne cento»; nell’atto pratico esso si traduceva nel minacciare, sequestrare o uccidere personaggi di spicco delle istituzioni e dell’imprenditoria, considerati complici e fautori del sistema capitalistico da abbattere. I brigatisti inaugurarono le loro attività con una strategia di sequestri lampo di dirigenti industriali, sindacalisti e di magistrati; dopo il 1974, le modalità di azione si fecero più violente, con il ferimento (“gambizzazione”) o l’uccisione di giornalisti, giudici, avvocati, docenti universitari, esponenti sindacali e infine gli stessi operai, considerati “traditori” della causa: le vittime rivendicate dei loro attacchi furono oltre un’ottantina. Non mancarono, anche all’interno delle fabbriche, oltreché dell’estrema sinistra, fasce significative, ma pur sempre minoritarie, di comprensione se non di vero e proprio consenso verso i terroristi. Perciò fu decisiva l’azione dei gruppi sindacali, oltreché del Partito comunista italiano, a contrastare tra gli operai la propaganda armata delle Br e delle altre associazioni terroristiche.
Le violenze degli anni Settanta e la risposta politica
Il clima di tensione, iniziato con la strage di piazza Fontana, si protrasse per tutti gli anni Settanta. Una spirale di violenza sconvolse il paese, accumulando episodi sempre più crudeli, sganciati da ogni progetto politico; gli scontri di piazza che coinvolgevano forze dell’ordine, gruppi di estrema destra e quelli di estrema sinistra causarono centinaia di morti: furono gli anni di piombo, così chiamati per il grande quantitativo di proiettili che furono sparati nelle strade del paese.

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In un contesto gravido di minacce antiliberali e antidemocratiche, alimentate dal colpo di Stato in Cile, il nuovo segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer, nel 1973, avanzò la proposta del compromesso storico. Con questo termine egli intendeva dare una svolta all’indirizzo politico del Pci, volto a ricreare le condizioni per una collaborazione fra comunisti e democristiani, ricomponendo la frattura che aveva decretato la fine del governo di unità nazionale nel 1947. Il compromesso storico si presentava dunque come un grande incontro tra la morale cattolica e quella comunista, chiamate a governare insieme le sfide della modernità.

Le elezioni amministrative del 1975 segnarono una svolta politica, con la netta sconfitta elettorale democristiana, scesa al 35% (come mai prima), mentre il Pci saliva al 33%. Le successive elezioni politiche, che segnarono una crescita dei consensi da parte democristiana e da parte comunista, rappresentarono il massimo momento di polarizzazione dopo il 1948: la Dc raccolse oltre il 38% dei consensi contro quasi il 34% del Pci. Nel 1976, in un clima sempre più condizionato dal terrorismo, fu varato il primo governo di solidarietà nazionale: questo governo, presieduto dal democristiano Giulio Andreotti, ottenne la fiducia dal parlamento grazie all’astensione (detta allora “non sfiducia”) del Partito comunista durante le votazioni.

Nonostante le principali forze politiche, grazie soprattutto al dialogo fra Enrico Berlinguer e Aldo Moro (divenuto nel frattempo presidente della Dc), dimostrarono di compattarsi per far fronte all’escalation di violenze del terrorismo estremista, cominciò a prendere forma il movimento del 1977. Come nel 1968, furono gli studenti il nucleo iniziale della protesta, ma questa volta alla base dell’intero movimento era la scarsa fiducia nel futuro, che si intrecciava a forme di critica corrosiva e irriverente al potere con la sua contestazione violenta. Il gruppo degli Indiani metropolitani manifestava una volontà di sovversione carica di ironia, mentre frange radicali come Autonomia operaia e Prima linea puntarono direttamente alla lotta armata.
Il rapimento Moro
Pochi anni dopo la proposta del compromesso storico, la scena politica italiana fu sconvolta da un evento che cambiò drasticamente la storia del paese, tanto che la cronaca dell’epoca parlò di “attacco al cuore dello Stato”. Il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, Aldo Moro fu rapito da un commando delle Brigate rosse, mentre si recava alla Camera dei deputati [ 19]. Quel giorno era previsto il voto di fiducia a un nuovo governo Andreotti: quando in aula giunse la notizia della morte dei cinque uomini della scorta di Moro e del rapimento del presidente della Dc, il parlamento diede un messaggio di compattezza votando quasi in maniera unanime per la fiducia. Tuttavia, la drammaticità del momento costrinse a rimandare l’idea di un dibattito che portasse alla formazione del primo vero governo congiunto di Dc e Pci.

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Nei successivi 54 giorni dal rapimento di Moro, si discusse aspramente intorno a due alternative: trattare con i terroristi la liberazione del dirigente democristiano, offrendo quindi ai brigatisti un riconoscimento formale in quanto interlocutori politici; oppure attestarsi sulla linea della fermezza a difesa dello Stato, senza perciò cedere alle richieste di scambio di prigionieri. La maggior parte delle forze politiche, in special modo Democrazia cristiana e Partito comunista, si schierarono contro l’idea della trattativa, richiesta invece dal Partito socialista guidato da Bettino Craxi. Mentre la polizia scatenò una caccia all’uomo su tutto il territorio nazionale, Moro era detenuto a Roma in una “prigione del popolo”, nel gergo dei brigatisti, da dove faceva pervenire messaggi di invito a dialogare con i suoi rapitori [▶ FONTI, p. 546]. Moro fu infine ucciso il 9 maggio e il suo corpo fu abbandonato nel bagagliaio di un’auto, nel centro di Roma, in via Caetani, una via che si trovava a metà strada fra la sede della Democrazia cristiana e quella del Partito comunista italiano.
Incertezza, corruzione e criminalità organizzata
I funerali di Moro furono celebrati privatamente per volontà della famiglia, polemica per come erano state gestite le trattative con le Br. La cerimonia istituzionale, tenuta dal papa alla presenza dei più alti esponenti politici, si caricò di una valenza simbolica, che sancì l’esaurirsi della stagione della solidarietà nazionale. Seguì una fase confusa sul piano politico, in cui il Pci tornò stabilmente all’opposizione, mentre una serie di scandali gettò ulteriore discredito sulla classe dirigente. Allo stesso tempo si discusse dell’opportunità di varare leggi speciali per perseguire la violenza politica, fino a ipotizzare la pena di morte. La battaglia contro il terrorismo fu però essenzialmente combattuta con gli strumenti dello Stato di diritto, senza che fosse dichiarato lo stato d’emergenza, anche se non mancarono gravi abusi da parte delle forze di polizia.

In quegli stessi anni in cui l’autorità dello Stato sembrava vacillare di fronte all’offensiva terroristica, assunse forme nuove e ancor più aggressive la criminalità organizzata che controllava il territorio di molte zone dell’Italia meridionale. In particolare, la mafia siciliana, Cosa nostra, si impadronì del commercio mondiale dell’eroina, ampliando così a dismisura il suo potere economico. Il vertiginoso flusso di denaro corroborò i legami con la classe dirigente locale, in particolare con esponenti della Democrazia cristiana, creando vaste catene clientelari, che di fatto subordinavano lo Stato alla criminalità. Non mancavano tuttavia le tensioni fra i clan mafiosi: nel 1981 si scatenò una vera e propria guerra di mafia per la spartizione di affari e territori tra le diverse famiglie siciliane, affermando così il dominio incontrastato dei cosiddetti Corleonesi, la famiglia proveniente da Corleone, un paese vicino a Palermo.

FONTI

Una lettera di Moro dalla “prigione del popolo”

Aldo Moro scrisse moltissimo durante i 55 giorni del suo sequestro, nel covo delle Brigate rosse. In particolare, egli compose una nutrita serie di lettere per contattare i leader politici e attivare una comunicazione tra autorità statali e terroristi, rassicurare i parenti e gli amici, denunciare le politiche della Democrazia cristiana e implorare la salvezza. Alcune furono pubblicate immediatamente, altre furono destinate solo ai famigliari e perciò tenute riservate.

Caro Zaccagnini1,

la lunga e tormentata vicenda della mia prigionia presso le Brigate rosse pone dei problemi ai quali è doveroso e sempre più urgente rispondere. Mi riferisco all’atteggiamento di totale indifferenza assunto dal Partito nei confronti della mia persona e della mia famiglia, la quale paga un prezzo altissimo per un modo di fare che non ha assolutamente precedenti nella Dc. Quest’ultima è venuta incontro, più o meno, alle necessità che premevano sui suoi associati, ma mai, come in questo caso, è restata del tutto fuori da una vicenda gravissima, delicatissima e per la quale non era certo priva di mezzi d’intervento. Si poteva fare, solo che si fosse voluto rimuovere una inconsistente pregiudiziale, ed invece non si è fatto. Il culto esasperato del rispetto della legalità formale ha reso rigidi e insensibili, ha [ridotto ad essere] soffocante, come mai era stata, la disciplina di partito, ha tolto ogni libertà di ragionevole movimento, ed ha sacrificato, con me e con la mia famiglia, quelle ragioni umanitarie che militano a favore, oltre che di vittime innocenti, ma anche di persone condannate le cui condizioni di salute e di vita abbisognano di particolare cura e per le quali si offre l’ospitalità, caritatevole o amichevole, di un paese straniero. Questi sono principi sanciti nella nostra coscienza civile, e nei paesi più evoluti non manca mai una giusta considerazione di ragioni umanitarie, siano esse prevalenti, di volta in volta, per le vittime innocenti o per persone ormai condannate. Io pensavo che, al di là della mia persona sofferente ed in pericolo, in un partito d’ispirazione cristiana a queste cose non si potesse guardare con indifferenza. E proprio mentre i socialisti, sia pure in modo incompiuto, si fanno carico di cose delle quali ben prima proprio i cristiani dovevano avere la maggiore sensibilità.


A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Einaudi, Torino 2008

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La transizione agli anni Ottanta
Dopo l’assassinio di Moro da parte delle Brigate rosse, si esaurì l’esperienza del compromesso storico: la Dc chiuse ogni possibilità di accordo con il Pci, aprendo la strada di avvicinamento al Partito socialista di Bettino Craxi, che aveva assunto la carica di segretario dal 1976. Con la sua forte personalità, Craxi avviò una fase di rinnovamento ideologico, accentuando la polemica anticomunista e abbracciando una svolta liberale. Nel 1978 fu eletto nuovo presidente della Repubblica l’ex partigiano socialista Sandro Pertini, la cui personalità carismatica conquistò subito vasta popolarità, anche a fronte del discredito dei partiti politici. Nello stesso anno, l’elezione di un nuovo papa, il polacco Karol Wojtyla, dava un inedito profilo internazionale alla Chiesa, sempre più attenta alle trasformazioni dell’Est Europa, e poneva fine alla fondamentale e plurisecolare istituzione del “papato italiano”, inaugurando nuovi rapporti tra Chiesa, cattolicesimo e società italiana [ 20].
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la mobilitazione politica e ideologica e la conflittualità sociale cominciarono a diminuire. Non mancò una coda sanguinosa di attacchi terroristici di destra e di sinistra, ma la società italiana sembrava ormai decisa a voltare pagina. D’altro canto, l’adesione italiana al Sistema monetario europeo, nel 1979, impose la necessità di riportare sotto controllo quella spirale d’inflazione che aveva alimentato lo scontro sociale nel decennio precedente. Un episodio, in particolare, sembrò indicare la fine delle lotte operaie: nel settembre 1980 la Fiat annunciò che, a causa del crollo delle vendite di auto sul mercato internazionale, avrebbe posto in ▶ cassa integrazione 24 000 operai, una parte dei quali venne in seguito licenziata. Gli operai si mobilitarono in uno sciopero a oltranza, che durò 34 giorni, finché, il 14 ottobre, una manifestazione che raccoglieva circa 30-40 000 dipendenti della fabbrica (per lo più quadri intermedi, dirigenti, impiegati ma anche operai) chiese la fine dello sciopero [ 21]. La spaccatura interna al movimento operaio torinese segnò la fine del ciclo di lotte precedenti, creando i presupposti per la definizione di nuove relazioni industriali, in cui il potere contrattuale di sindacati e lavoratori sarebbe diminuito. In questo processo, che vide un importante aumento dei dipendenti aziendali che componevano il “terziario”, lo stesso mito di una “classe operaia” unita e compatta cominciò a frantumarsi.

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Come reazione a una stagione di diffuso attivismo politico, ne seguì una nuova di disimpegno, durante la quale la popolazione ricercò nel divertimento e nei beni materiali le risposte alle insoddisfazioni della vita: si fece strada quindi una visione ▶ edonistica della vita. In questo nuovo contesto si collocò l’ascesa dell’imprenditore milanese Silvio Berlusconi il quale, dopo aver fatto fortuna nel settore dell’edilizia, creò nel 1975 una rete televisiva privata, con un canale denominato Canale 5 e trasmesso su scala nazionale dal 1980. La nuova emittente, finanziata attraverso le inserzioni pubblicitarie, incrementò rapidamente il proprio pubblico, grazie a una programmazione fondata soprattutto sull’intrattenimento leggero.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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