12.1 Il boom economico e i suoi effetti sociali

Per riprendere il filo…

Le due potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si spartirono le zone di influenza e divisero l’Europa lungo la cortina di ferro tra Est e Ovest, avviando la competizione politica e militare denominata “Guerra fredda”. Nel corso di questo confronto fra i due blocchi, fasi di acuta tensione si alternarono a periodi in cui si costruì un equilibrio, sia pur fondato sulla minaccia della reciproca distruzione atomica. Gli anni Cinquanta segnarono quindi una fase di stabilizzazione del quadro europeo, che favorì l’avvio di uno sviluppo economico senza precedenti in Occidente, nonostante le periodiche crisi della Guerra fredda e l’accelerazione del processo di decolonizzazione in Africa e in Asia.

12.1 Il boom economico e i suoi effetti sociali

Il rilancio dell’Europa occidentale e del Giappone
 In Europa – come negli Stati Uniti e in Giappone – gli anni Cinquanta furono anzitutto segnati dal vertiginoso incremento demografico che era già cominciato negli ultimi mesi di guerra: l’abbondante presenza di bambini e di giovani nella società postbellica rappresentava anche una risposta alle catastrofi dei decenni precedenti. Fu questo uno dei motori più potenti della ricostruzione e della crescita economica in Europa occidentale, che fra il 1950 e il 1970 portò a un aumento del reddito pro capite del 4%, mentre tra il 1913 e il 1950 si era attestato intorno all’1%. L’abbondante disponibilità di manodopera fu garantita dalle migrazioni, in una prima fase dalle campagne alle aree urbane e industriali e in una seconda fra i diversi Stati. Essa consentì alle industrie di tenere bassi i salari e dunque i costi di produzione, moltiplicando gli investimenti e creando una piena occupazione. La Germania occidentale, che grazie alla rapida ed efficace rico­struzione postbellica recuperò il primato economico continentale e alimentò un eccezionale flusso di esportazioni, costituì il fulcro dell’elevata attività commerciale che coinvolse tutta l’Europa grazie agli aiuti del piano Marshall [▶ cap. 10.1].

L’incremento della produttività era basato, oltre che sul passaggio di grandi masse di lavoratori dall’agricoltura all’industria, sul trasferimento di tecnologie dagli Stati Uniti all’Europa ed era favorito dalla stabilità del quadro finanziario, che faceva del dollaro la moneta di riferimento del sistema atlantico. Il contesto favorì pertanto uno sviluppo senza precedenti, che consentì di produrre beni di consumo di massa e di rivoluzionare la vita domestica delle persone: nei paesi europei si diffusero i prodotti del benessere, dal frigorifero alla lavatrice, dal  disco long playing ai blue-jeans. Nelle case le stufe a carbone furono sostituite con sistemi di riscaldamento centralizzati. Perseguire la crescita economica significava inoltre adottare modelli e stili di vita provenienti dagli Stati Uniti e adattarsi all’americanizzazione della cultura europea. Emergeva così una società dei consumi, in cui si cercava di interpretare o addirittura di creare i desideri del pubblico, con conseguente omologazione degli stili di vita: era la “standardizzazione commerciale” [▶ altri LINGUAGGI, p. 484].

Nelle case degli europei entravano in numero crescente i nuovi mezzi di comunicazione di massa, come le radio e le televisioni. Caratterizzati da una programmazione sottoposta a rigido controllo politico e morale, essi svolsero un cruciale ruolo di nazionalizzazione linguistica e di omogeneizzazione culturale delle comunità nazionali.

Insieme alla ricostruzione e all’estensione delle reti di comunicazione, si verificò una vera e propria rivoluzione dei trasporti, con l’affermazione di automobili per uso individuale o familiare che esaltavano un nuovo senso di indipendenza della mobilità riducendo sensibilmente le distanze territoriali [ 1]. I modelli allora di maggior successo furono il Maggiolino della Volkswagen, la Mini Cooper della Morris e la Fiat 500 in Italia: la produzione automobilistica in Europa occidentale passò da mezzo milione di veicoli all’anno nel 1947 a oltre nove milioni nel 1967. Simboli di quest’epoca diventarono le vacanze e i viaggi di piacere per le classi medie.

Anche se geograficamente collocato in Asia, il Giappone, dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale e la conseguente occupazione statunitense, era entrato nell’orbita occidentale, seguendone, sia pur in forma particolare, le traiettorie politiche ed economiche [▶ cap. 10.3]. Tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, anche il Giappone conobbe un vero e proprio “miracolo” economico, innalzando il tasso di occupazione a livelli mai visti: i consumi di massa si andarono affermando sulla base del modello economico e culturale occidentale, anche se permanevano residui dei costumi tradizionali radicati in special modo fuori dalle grandi città. Ciononostante, lo straordinario sviluppo che fece del Giappone la seconda potenza economica occidentale, dopo gli Stati Uniti, non mancò di creare disuguaglianze che crearono tensioni sociali verso la fine degli anni Sessanta, alimentando come altrove soprattutto le proteste di giovani operai e studenti.

altri linguaggi

L’arte al tempo della società dei consumi: la Pop Art

La corrente artistica che ha espresso e insieme stimolato l’immaginario nella società dei consumi di massa è stata la Pop Art (da Popular Art), che nacque intorno agli Cinquanta del Novecento nel Regno Unito per diffondersi e affermarsi negli Stati Uniti. Il programma estetico di questa corrente artistica, pur estremamente variegata, corrispondeva all’esigenza di abbattere ogni barriera tra l’arte e la vita quotidiana della moderna società industriale, tesa ai consumi di massa. La Pop Art finiva così col rimuovere ogni forma di sdegnosa e consapevole separatezza dell’artista dalla società circostante, che pur sopravviveva nelle avanguardie europee di inizio Novecento, abbracciando completamente i gusti, i desideri e le passioni delle masse (i fumetti, la pubblicità, gli oggetti commerciali, i personaggi pubblici).

La sua figura più significativa e influente è stata Andy Warhol (1928-87), artista statunitense estremamente versatile che è stato insieme pittore, scultore, sceneggiatore, regista, attore, direttore di fotografia e produttore. Al centro della sua attività artistica era la rappresentazione seriale di oggetti di consumo come i barattoli di metallo da minestra Campbell’s e le bottigliette della Coca Cola, oppure di figure famose del mondo dello spettacolo o della politica, come l’attrice Marylin Monroe o il rivoluzionario Che Guevara. Grazie all’utilizzo della serigrafia (una tecnica di stampa che permette di utilizzare le tele come supporto al posto della carta) la sua arte era ridotta a merce di consumo, mentre le icone del mondo contemporaneo erano del tutto svuotate dei loro significati originari, privati dei loro contesti e trasformate in oggetti meramente estetici.

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L’età del consenso sociale in Europa occidentale
L’Europa occidentale degli anni Cinquanta era ansiosa di lasciarsi alle spalle le sofferenze fisiche e i traumi psicologici della Seconda guerra mondiale, di rimuovere, dimenticare e condonare i crimini di guerra e quelli contro l’umanità, di guardare più al futuro che al passato. In essa trovavano terreno fertile tanto il timore di un ritorno del fascismo quanto quello della diffusione del comunismo, in un clima nel quale il grado di passione e di mobilitazione politica e ideologica si era però decisamente abbassato rispetto ai precedenti trent’anni.

Dopo i traumi e i conflitti dei decenni precedenti, si consolidò rapidamente una fase di stabilità politica e sociale; essa fu realizzata attraverso l’equilibrio tra forme di coordinamento sovrannazionale come la Cee [▶ cap. 10.6] e la riaffermazione di poteri e prerogative degli Stati nazionali, e si concretizzò nei vari sistemi di Welfare State [▶ cap. 10.3] che miravano a ricostituire il tessuto sociale lacerato dalla guerra. In un contesto di prosperità economica e di crescita demografica senza precedenti che investirono tutto l’Occidente, queste politiche si articolarono in modo diverso nei singoli Stati, a seconda dei partiti che ne tennero la guida. Nei paesi scandinavi, retti da governi socialdemocratici, prevalsero modelli di Stato sociale che puntavano a una vera e propria ridistribuzione della ricchezza; in Francia, Belgio e Germania, dove governavano forze di centro, così come nella Gran Bretagna a guida laburista, si definirono forme di Stato assistenziale che garantivano misure di sicurezza sociale e una più equa competizione [ 2].

I sistemi di Welfare State, erano ispirati al keynesismo, ossia alla riflessione dell’economista inglese John M. Keynes, che fin dagli anni Trenta aveva ipotizzato un intervento dello Stato in un quadro liberaldemocratico per contrastare i cicli di depressione economica, attraverso investimenti pubblici che creassero occupazione [▶ cap. 2.7-7.3]. Nel secondo dopoguerra, anche sulla base delle esperienze dei fascismi e della guerra stessa, si diffuse la convinzione che fossero necessarie forme pur parziali di pianificazione e di nazionalizzazione di settori chiave della produzione e dei servizi. Tuttavia, già allora, per il massiccio ricorso a queste politiche e per il loro successo, cominciarono a emergere due fenomeni che nel tempo avrebbero compromesso l’efficienza dei Welfare State: la dilatazione della spesa pubblica e la burocratizzazione dei servizi sociali, con la proliferazione sproporzionata di enti statali e con un eccessivo investimento di risorse sul presente a scapito delle generazioni future.

Le migrazioni e la fine delle società contadine
Nella prima metà degli anni Sessanta proseguì, anzi in molte regioni si intensificò, il boom economico che si era avviato nel decennio precedente e che aveva portato a una piena occupazione. Solo nella seconda metà del decennio la crescita rallentò, anche per l’inasprimento dei conflitti sociali che derivarono dall’inurbamento di molti giovani, nati dopo la guerra, alla ricerca di un lavoro in fabbrica e che tendevano a crearsi nuovi spazi occupazionali, sociali e culturali, scatenando così uno scontro con la vecchia generazione.

Infatti, il dirompente sviluppo economico ebbe l’effetto di forzare le residue rigidità sociali sopravvissute alla guerra mondiale, aumentando la mobilità della popolazione, mentre si ampliavano e si facevano sempre più omogenei i ceti medi. Le periferie delle città conobbero un’espansione impressionante: milioni di nuovi abitanti provenienti dalle campagne oppure dall’estero furono addensati in imponenti strutture di cemento armato, poco favorevoli alla socializzazione [ 3]. Lo sviluppo dell’industria e la meccanizzazione dell’agricoltura, che determinò un prodigioso aumento della produzione di beni alimentari (soprattutto in Francia), portarono infine a compimento un processo di lungo periodo: l’abbandono delle campagne e il trasferimento dei contadini nelle periferie industriali alla ricerca di un nuovo lavoro. Si trattava di un processo iniziato negli anni Cinquanta, ma che, dai primi anni Sessanta, assunse il carattere di una svolta epocale, da molti fu vissuta come la fine della civiltà contadina europea.

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Nel frattempo, la mobilità si indirizzava non soltanto dalle campagne alle città ma anche dalle regioni più povere verso quelle più ricche all’interno dell’Europa occidentale: dopo l’interruzione nel periodo interbellico, ripresero, attraverso percorsi non lineari, flussi di migrazione dall’Italia, dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Irlanda, dalla Iugoslavia e dalla Turchia. Il paese che conosceva il maggior sviluppo, la Repubblica federale tedesca, diventò polo di attrazione di imponenti ondate di immigrazione soprattutto dall’Europa meridionale [ 4]; mentre in Francia, Belgio, Olanda e Gran Bretagna arrivarono sempre più numerosi gli immigrati dalle ex colonie.

Le svolte del Concilio Vaticano II e la sua eredità

Le profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali che avevano investito l’Europa occidentale e al tempo stesso avevano segnato la fine del primato europeo nel mondo, costituirono la cornice per una nuova riflessione all’interno della Chiesa cattolica. Infatti, essa era chiamata a fronteggiare la sfida della secolarizzazione, che ridimensionava il tradizionale prestigio delle istituzioni ecclesiastiche e riduceva così il peso della religione cattolica nelle società e nelle culture occidentali: in questo modo si andava affermando una visione laica della vita e della politica, che pareva sempre più in contrasto con la tradizionale dottrina cattolica. In particolare, l’accelerazione dei processi di modernizzazione industriale e urbana, con il conseguente abbandono delle campagne da parte delle gio vani generazioni, implicava il declino di una civiltà contadina, in cui il rapporto tra la capillare rete di parrocchie e i fedeli era strettissimo. Di qui derivavano una crescente crisi delle vocazioni sacerdotali e un sempre più ampio distacco fra precetti e pratiche nella vita dei credenti.

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Un deciso impulso riformatore venne da papa Giovanni XXIII, pontefice fra il 1958 e il 1963, il quale si distinse per un nuovo modo più diretto (anche grazie alla televisione) di rivolgersi al popolo dei fedeli: per il suo buon umore e per il suo calore umano fu ribattezzato il “papa buono”. Fu per sua iniziativa che nell’ottobre 1962 si inaugurò il Concilio Vaticano II, un vero e proprio concilio universale, che radunò circa 2500 fra cardinali e vescovi di tutto il mondo [ 5]. L’obiettivo di papa Giovanni XXIII, che fu perseguito a partire dal 1963 dal suo successore Paolo VI, non era tanto rinnovare la dottrina teologica della Chiesa quanto ridefinire la sua missione “pastorale”, riformare la liturgia ecclesiastica e sostenere l’unità dei cristiani (“ecumenismo”), nonostante le persistenti divisioni tra le diverse confessioni. Infatti, durante questo concilio, i cui lavori si chiusero nel 1965, non furono proclamati nuovi  dogmi.

I provvedimenti del concilio mutarono profondamente il rapporto fra il sacerdote e i fedeli grazie all’abbandono del latino come lingua delle celebrazioni e al cambiamento della posizione dell’altare rispetto all’assemblea: se fino ad allora il sacerdote era rivolto con le spalle ai fedeli, adesso era direttamente rivolto di fronte a loro ed era autorizzato a officiare i riti nella propria lingua nazionale. Fu dunque riconosciuto un inedito, importante ruolo del  laicato nel suo complesso, che doveva affiancare e integrare l’azione della Chiesa nel mondo. Da questo punto di vista, il concilio offrì nuovi strumenti alla Chiesa per rispondere alle esigenze di una società occidentale sempre più secolarizzata, in cui il clero tendeva a diminuire e a perdere le sue funzioni tradizionali. Questa visione più attiva e propositiva della missione pastorale della Chiesa fu interpretata da Paolo VI, il quale organizzò per la prima volta una lunga serie di visite ufficiali in tutto il mondo, cambiando completamente la prospettiva sul ruolo del pontefice: non più come colui che esclusivamente accoglie i propri fedeli, ma come colui che va loro incontro. Ciononostante, l’eredità del concilio suscitò profonde divisioni fra i settori progressisti e quelli conservatori della Chiesa, sollevando in particolare l’aspra opposizione da parte di chi difendeva la liturgia tradizionale e le prerogative esclusive delle istituzioni ecclesiastiche.

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12.2 Coesistenza internazionale fra Usa e Urss

Distensione
Nel corso degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, malgrado momenti di crisi internazionale, si fece strada un nuovo clima di distensione, fondato sul comune interesse a conservare la stabilità internazionale. Questo nuovo clima però non fermò la corsa agli armamenti, concentrata su quelli nucleari, che anzi raggiunse un’intensità senza precedenti. La coesistenza pacifica infatti non escludeva, ma anzi implicava, la politica della deterrenza e l’equilibrio del terrore, che rimandavano alla possibilità della distruzione reciproca tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Gli incontri internazionali fra il presidente americano, il repubblicano Dwight Eisenhower (che fu il comandante in capo dello sbarco degli Alleati in Normandia nel giugno 1944) e il segretario del Partito comunista sovietico Nikita Sergeevič Chruščëv, che si svolsero nel 1955 a Ginevra e nel 1959 negli Stati Uniti, lasciarono intravvedere spiragli significativi di una vera distensione [ 6]. Tuttavia, il leader sovietico non rinunciò a condurre una politica del bluff, la quale mirava a testare la volontà statunitense di “contenimento” attraverso una serie di sfide che spinsero le relazioni sovietico-statunitensi sull’orlo della rottura, evitando però che queste situazioni precipitassero nello scontro aperto. D’altro canto, la politica di contenimento, avviata contro Stalin dal presidente Truman, era stata ripresa da Eisenhower nei confronti di Chruščëv, dopo che fu accantonata in favore della politica di arretramento durante la guerra di Corea [▶ cap. 10.4].

Il Muro di Berlino
Un fronte sensibile, soggetto a periodiche crisi, continuava ad attraversare Berlino. La città era divisa fra il settore occidentale annesso alla Rft e quello orientale della Rdt [▶ cap. 10.3], costretta a fronteggiare la massiccia fuga a occidente dei suoi abitanti (quasi tre milioni di persone emigrarono fra il 1949 e il 1961), provocata dalla evidente disparità di condizioni di vita. Proprio per arginare questo fenomeno, nella notte fra il 12 e il 13 agosto 1961 fu avviata la costruzione di un muro, che dividesse la città in forma permanente e sorvegliata, segnando la stabilizzazione della divisione fra le due Germanie [ 7]. Il Muro di Berlino, divenne presto il simbolo materiale della divisione fra Est e Ovest e della volontà repressiva del blocco sovietico, nonché del divario nello sviluppo fra socialismo e capitalismo. Di fronte a questa chiusura, gli Stati Uniti ribadirono i propri impegni nella difesa della zona occidentale: fu in questa chiave che, durante una visita alla città nel giugno 1963, il presidente americano John F. Kennedy (eletto nel 1960 dopo i due mandati di Eisenhower) usò la celebre formula “Ich bin ein Berliner” (“Io sono un berlinese”), esprimendo il suo sostegno e la sua vicinanza agli abitanti di Berlino Ovest contro l’oppressione comunista.

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Tuttavia, nella seconda metà degli anni Sessanta, in un quadro di crescente distensione fra Est e Ovest, la Repubblica federale tedesca, per iniziativa del suo ministro degli Esteri, il socialdemocratico Willy Brandt, promosse un “cambiamento attraverso il riavvicinamento” nelle relazioni con la Rdt. La cosiddetta Ostpolitik (“politica verso Est”) mirava a costruire con pazienza e costanza un dialogo e uno scambio tra le due Germanie e portò infine al riconoscimento reciproco dei due paesi nel 1971.

La crisi di Cuba
Nel sottile gioco di equilibri globali, retto sulla contrapposizione tra Est e Ovest, la Cuba di Fidel Castro si avvicinò all’Unione Sovietica e piegò in senso socialista il proprio nazionalismo antiamericano, adattando alle esigenze sociali ed economiche dell’isola il modello comunista [▶ cap. 11.9].

Nell’ottobre 1962, un anno dopo il tentativo fallito di rovesciare Castro con lo sbarco nella Baia dei Porci di esuli appoggiati dagli Usa, l’arrivo a Cuba per via marittima di missili sovietici dotati di testate nucleari, all’insaputa degli statunitensi, fece precipitare la situazione. Il presidente Kennedy decise di ricorrere al blocco navale dell’isola [ 8], su suggerimento dei generali più cauti (soprannominati “colombe”), opponendosi a quelli più interventisti (“falchi”) che intendevano lanciare subito un attacco contro Cuba. Il rischio di un conflitto fra le due superpotenze fu altissimo, finché non si trovò l’accordo: Chruščëv fece disinstallare i missili da Cuba, Kennedy promise di rinunciare a invadere l’isola e di ritirare segretamente i missili americani dalla Turchia e dall’Italia. Tuttavia, la crisi si risolse con una grave sconfitta d’immagine per il leader sovietico, in quanto rinunciò all’unica base che avrebbe potuto rappresentare una minaccia diretta agli Stati Uniti.

Gli anni Cinquanta furono segnati dalla corsa all’ampliamento incontrollato degli arsenali nucleari e dal fallimento dei negoziati fra le superpotenze per regolamentarlo. A partire dal decennio successivo, anche grazie all’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII pubblicata nel 1963, si fece strada, invece, una nuova sensibilità, più incline a sventare la minaccia di una nuova catastrofe bellica. In particolare, dopo la crisi cubana, quando era apparsa drammaticamente concreta la possibilità di uno scontro nucleare, Stati Uniti e Unione Sovietica cominciarono ad abbracciare l’idea di porre un controllo sugli armamenti atomici. Nel 1963 a Mosca Chruščëv e Kennedy firmarono un accordo per la parziale messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera e sotto il mare, i quali, dopo il 1945, avevano messo a repentaglio l’ambiente ed esposto le popolazioni civili al rischio di radiazioni. Nel 1968 Usa, Urss e Regno Unito siglarono, sotto l’egida delle Nazioni Unite, il Trattato di non proliferazione nucleare, che doveva porre un freno alla diffusione delle armi atomiche. Solo nei primi anni Settanta, però, cominciò, come vedremo, una vera e propria politica di disarmo, con la firma dei trattati che imponevano una riduzione degli ordigni nucleari.

Progressi e regressi del socialismo
Dopo la denuncia dello stalinismo al XX Congresso del 1956 [▶ cap. 10.5], nel 1961 il XXII Congresso del Partito comunista sovietico proclamò che la costruzione del socialismo, fissata come meta dalla Russia bolscevica nel 1919, era ormai stata compiuta. Veniva così lanciata una sfida, anche in termini di relativo benessere materiale e sviluppo tecnologico, nei confronti dell’Occidente capitalista. Il boom demografico e l’aumento delle aspettative di vita, anche grazie al miglioramento del sistema sanitario (ad esempio, il ricorso a vaccini e antibiotici), contribuivano a rimarginare le altissime perdite inflitte dalla Seconda guerra mondiale. In particolare, si assottigliò il divario tra il numero di uomini e donne che aveva caratterizzato i primi due decenni del dopoguerra, anche se la condizione femminile continuò a essere gravosa per l’assenza di servizi sociali dedicati alle famiglie.

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Durante gli anni Cinquanta, l’Unione Sovietica destinò ingenti investimenti in campo spaziale. Nel 1957 fu lanciato lo Sputnik, il primo satellite attorno l’orbita terrestre, mentre nell’aprile 1961 fu il turno della spedizione del primo uomo nello spazio, l’astronauta Yuri Gagarin [ 9]. Questi due successi ebbero un’eco di proporzioni internazionali fornendo ai partiti filosovietici di tutto il mondo un esempio dell’eccellenza del sistema socialista dall’enorme impatto mediatico, utilizzabile per scopi propagandistici. La nuova tecnologia spaziale fu contemporaneamente applicata al campo dei missili intercontinentali, fornendo all’Unione Sovietica la possibilità di colpire con testate nucleari in breve tempo il territorio degli Stati Uniti, superando i limiti che avevano spinto Mosca a installare i missili a Cuba e creando una situazione inedita di momentaneo primato militare del campo socialista su quello occidentale.

Tuttavia, nonostante il nuovo corso politico sovietico puntasse a eguagliare o addirittura a superare l’Occidente, il divario tecnologico tra i due blocchi cresceva tanto nel campo dell’alta tecnologia quanto in quello della produzione di beni di consumo. In particolare, la situazione economica dell’Urss continuava a essere critica, soprattutto nelle città di provincia dove in mancanza di rifornimenti fu reintrodotto il razionamento alimentare. La pressione sulle campagne fu gradualmente allentata: nel 1964 ai contadini dei colcos [▶ cap. 6.2] fu concessa una piccola pensione; nel 1974 fu sospeso il passaporto interno che era stato stabilito negli anni Trenta e fu concesso loro il diritto di spostarsi dal proprio villaggio, ma non quello di stabilirsi nelle città, per cui era necessario uno speciale permesso.

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La stagnazione brežneviana
La condotta spregiudicata e avventurosa di Chruščëv in politica estera suscitò malumore all’interno della dirigenza sovietica, che non era disposta a mettere a repentaglio il prestigio del paese, compromesso soprattutto dal fallimento della sfida missilistica a Cuba. Nell’ottobre del 1964 il Politburo del Partito comunista sovietico destituì Chruščëv dalle funzioni di segretario generale, sostituendolo con una dirigenza collettiva in cui rapidamente emerse Leonid Brežnev. Mentre Chruščëv aveva annunciato la piena realizzazione del socialismo, la nuova dirigenza, più pragmatica, dichiarò che si era appena entrati nella fase del “socialismo sviluppato”, una formula che allontanava l’obiettivo finale dell’Unione Sovietica, ossia il comunismo. Intorno alla metà degli anni Sessanta, la maggior parte della popolazione sovietica viveva nelle città e le sue condizioni materiali continuavano, sia pur lentamente, a migliorare; ma dopo un ventennio di espansione della natalità, cominciava a profilarsi una significativa crisi demografica, a causa del riemergere della diffusione dell’alcolismo [▶ cap. 3.5].

Per criticare la situazione sovietica sotto Brežnev si parlava sempre più di “stagnazione”, termine con cui si sottolineava l’immobilismo della società, il dominio della burocrazia e la diffusione del mercato nero e della corruzione.

Tra le voci più importanti del dissenso figuravano il fisico Andrej Sacharov e lo scrittore Aleksandr Solženicyn, che da un lato mettevano in guardia contro le croniche disfunzioni della società sovietica, dall’altro denunciavano le politiche autoritarie del regime. Contro i dissidenti il regime sovietico, dopo anni di allentamento, si fece di nuovo ricorso all’arresto e alla deportazione al confino: anche gli ospedali psichiatrici furono usati come strutture repressive in base alla teoria che equiparava la critica antisovietica a una patologia mentale.

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12.3 L’inquieta società americana e la guerra del Vietnam

La prosperità americana
Nel corso degli anni Cinquanta, la società americana, sotto la presidenza di Dwight Eisenhower (1953-61), conobbe un’eccezionale ascesa economica, stimolata dalla crescita demografica e dalle nuove tecnologie, nonché dall’aumento della spesa pubblica. Nonostante le persistenti disparità sociali, il reddito pro capite aumentò, mentre la popolazione cresceva di oltre il 20%, passando nel corso di quel decennio da 151 a 179 milioni. Le moderne tecniche pubblicitarie consacrarono così l’American way of life, uno stile di vita che, grazie alla prosperità, permetteva a fasce di popolazione sempre più ampie di accedere ai beni di consumo. D’altro canto, nonostante le ingenti spese per le forze armate, dovute alla Guerra fredda, che consentivano di mantenere la piena occupazione della forza-lavoro, le spese sociali furono non meno importanti. In particolare, esse garantirono un sistema sanitario pubblico, caratterizzato, almeno negli intenti, da una copertura universale, grazie al Medicaid (dedicato alle famiglie con basso reddito) e al Maricare (dedicato agli anziani), che integrarono il Social Security Act varato da Roosevelt nel 1935 [▶ cap. 7.3].

Dalla “nuova frontiera” alla Grande società
Nel 1960, l’elezione di un presidente giovane come il democratico John Fitzgerald Kennedy segnò una svolta generazionale alla Casa Bianca. Grazie al mito della “nuova frontiera”, il motto della sua campagna elettorale, egli suscitò la speranza di un profondo rinnovamento all’insegna della piena realizzazione dei diritti politici e sociali. Tra le nuove sfide che figuravano al centro del suo programma trovava speciale attenzione la lotta contro la discriminazione razziale. Tuttavia, Kennedy non ebbe il tempo di trasformare quel mito in un concreto programma politico. Infatti, fu assassinato il 22 novembre 1963 durante una visita presidenziale a Dallas [ 10]: il principale sospettato, Lee Oswald, fu però a sua volta ucciso e la successiva commissione d’inchiesta non riuscì a chiarire i protagonisti e i moventi di un’eventuale cospirazione a danno del presidente Kennedy. L’evento in ogni caso segnò l’inizio di una nuova fase di violenza politica negli Stati Uniti.

Kennedy fu sostituito dal vicepresidente Lyndon Johnson, che aveva una lunga esperienza legislativa risalente ai tempi del New Deal (era deputato dal 1937) e che, fra il 1964 e il 1966, riuscì a realizzare molte delle riforme sociali annunciate dal suo predecessore. Il progetto di una “Grande società” (“Great society”), capace di sfruttare a fondo risorse e opportunità attraverso un massiccio intervento del governo federale, esprimeva un senso di ottimismo e di onnipotenza. In particolare, Johnson condusse “una guerra incondizionata alla povertà” in una società ancora profondamente diseguale e ingiusta. Il Congresso varò importanti misure riformatrici: l’adozione di nuovi piani regolatori per l’edilizia pubblica a vantaggio dei ceti popolari, il finanziamento con fondi federali dei sistemi scolastici degli Stati, favorendo le scuole in cui era bandita la segregazione razziale, oltre alla già menzionata assistenza medica agli indigenti e agli anziani.

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Altro importante campo d’investimento, il programma spaziale americano, lanciato da Kennedy nel 1961 in dichiarata competizione con i successi sovietici, aveva consentito di stimolare i progetti missilistici e informatici. Negli anni successivi il programma venne sostenuto con uno straordinario esborso di denaro pubblico e il 20 luglio 1969 la conquista della Luna sancì il trionfo tecnologico americano sull’Unione Sovietica nella corsa allo spazio. L’allunaggio dei due astronauti, Neil Armstrong ed Edwin “Buzz” Aldrin, fu trasmesso in diretta televisiva e visto da oltre mezzo miliardo di spettatori [ 11].

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Proteste per i diritti
Rispetto al decennio precedente, gli anni Sessanta furono caratterizzati da un dirompente ciclo di conflittualità sociale, passione politica e violenza. Non erano tanto il movimento operaio e le organizzazioni sindacali a guidare le proteste, quanto le minoranze di colore, quelle etniche e le donne. In nome dei diritti civili delle minoranze, delle rivendicazioni delle identità etniche, della libertà delle scelte sessuali, infatti, si gettavano le premesse politiche e culturali di una nuova sinistra, una sinistra radicale, ma non marxista.

In particolare, il movimento per i diritti civili statunitense intendeva colpire le misure segregazioniste presenti negli Stati del Sud, che continuavano a discriminare la popolazione di colore, la quale era inoltre colpita da frequenti episodi di efferata violenza da parte del Ku Klux Klan [▶ cap. 7.1]. Fra le figure più carismatiche alla guida del movimento contro la discriminazione degli afroamericani vi era sicuramente il reverendo di ispirazione pacifista Martin Luther King. Il 28 agosto 1963 questi organizzò una “Marcia per il lavoro e la libertà”, che mobilitò oltre 250 000 persone a Washington, al termine della quale pronunciò un discorso memorabile, che muoveva da una frase diventata poi celebre: «Ho un sogno» («I have a dream») [▶ FONTI]. Con essa King scosse la coscienza dell’America progressista (“liberal”), facendo della segregazione razziale un problema nazionale, che riguardava i diritti di tutti [ 12]. La galassia dei movimenti di rivendicazione per i diritti dei neri comprendeva le varie anime dalla comunità afroamericana. Personaggio di riferimento delle correnti più radicali fu Malcolm X, teorico dell’unione dei neri che si convertì all’islam e che ispirò la nascita del movimento politico dalle influenze marxiste, le “Pantere nere”.

Mentre John F. Kennedy non era riuscito a vincere le resistenze interne al suo partito, Lyndon Johnson, con l’adozione di fondamentali misure contro la segregazione e la discriminazione razziale, portò alla rottura tra il Partito democratico e i bianchi del Sud, che costituivano la sua tradizionale base sociale e che spostarono i loro voti nel Partito repubblicano. Infatti, con il Civil Rights Act (legge per i diritti civili, 1964) e con il Voting Rights Act (legge per il diritto di voto, 1965) furono abrogate le leggi emanate negli anni Sessanta dell’Ottocento, che prevedevano l’istituzione di servizi separati per la popolazione di colore (nei mezzi di trasporto, nei luoghi pubblici, nelle scuole) e che erano ancora in vigore negli Stati del Sud. Questa stagione di lotte per i diritti si chiuse tragicamente, fra aprile e giugno 1968, con l’assassinio di Martin Luther King e con quello del fratello di John F. Kennedy, Robert, convinto sostenitore dei diritti civili e candidato alla Casa Bianca.

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FONTI

I have a dream di Martin Luther King

Il 28 agosto 1963, al termine della marcia per i diritti umani, nota come Marcia su Washington per il lavoro e la libertà, Martin Luther King tenne un famoso discorso di fronte al Lincoln Memorial, intitolato «I have a dream» («Ho un sogno»). Questo discorso, considerato un capolavoro di retorica politica, diventò un manifesto della lotta contro il razzismo negli Stati Uniti. Al centro del suo ragionamento, contro ogni forma di discriminazione, stava il concetto di eguaglianza quale essenza della democrazia.

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.

Ma cento anni dopo, il nero ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del nero è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il nero ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo il nero langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.

[...]

Siamo anche venuti in questo santuario1 per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo2. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei neri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.

[...]

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.


M. Luther King, Io ho un sogno: scritti e discorsi che hanno cambiato il mondo, SEI, Torino 1993

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La guerra americana in Vietnam
Nel contesto della distensione internazionale con l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti avevano rinunciato a determinare la progressiva ritirata del comunismo, ma avevano ripreso la politica del contenimento basata sulla “teoria del domino”: se un paese avesse ceduto alle pressioni comuniste, tutti i paesi della regione circostante sarebbero caduti in una sequenza pressoché inarrestabile.

L’attenzione si concentrò soprattutto in Asia sudorientale, dove il regime comunista del Vietnam del Nord [▶ cap. 11.2] (supportato da Urss e Cina) aveva cominciato a incrementare il numero di guerriglieri (i cosiddetti “vietcong”) operativi nel Sud filoa­me­ricano, guidato dal regime di Ngo Dinh Diem, che venne assassinato nel novembre 1963 nel corso di un colpo di Stato dell’esercito sudvietnamita. Qualche tempo prima, il presidente Kennedy aveva inaugurato l’impegno americano in Vietnam con l’invio dei primi consiglieri militari, per addestrare l’esercito sudvietnamita. Ma la vera svolta avvenne nell’agosto del 1964, quando si verificò uno scontro a fuoco fra navi statunitensi e nordvietnamite nel golfo del Tonchino. Questo incidente diventò il pretesto con cui il nuovo presidente Johnson ordinò nei primi mesi del 1965, dopo aver ottenuto nell’agosto del 1964 l’autorizzazione dal Congresso, i primi massicci bombardamenti aerei su Hanoi, poi estesi all’intero Vietnam del Nord. L’escalation militare proseguì nel Vietnam del Sud, con il dispiegamento dei primi marines nel marzo 1965. Il numero delle unità militari americane, impegnate in operazioni di antiguerriglia, salì a 200 000 uomini alla fine dell’anno e continuò a crescere vorticosamente, fino a raggiungere la cifra di oltre 500 000 nel 1968.

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La guerra del Vietnam fu caratterizzata dalla sproporzione fra l’esercito degli Usa, il più potente esercito del mondo, e le forze della guerriglia vietnamita, male equipaggiate e male addestrate, ma particolarmente motivate sotto la guida del comandante Giap. Alle imboscate e ai sabotaggi dei  vietcong rispondevano le incursioni aeree (con bombardamenti a tappeto e l’uso delle bombe incendiarie al napalm) e i rastrellamenti terresti delle forze americane. Nel gennaio del 1968 i soldati nordvietnamiti e vietcong lanciarono l’offensiva del Tet (il capodanno lunare vietnamita), attaccando simultaneamente oltre cento città del Vietnam del Sud, il quartier generale di William Westmoreland (comandante in capo dell’esercito americano) e l’ambasciata statunitense a Saigon [ 13]. Con questa complessa operazione, circa 85 000 forze vietcong, armate e sostenute dai sovietici e dai cinesi, affrontarono per la prima volta in campo aperto i marines. Nonostante le maggiori perdite nordvietnamite (oltre 35 000) rispetto a quelle sudvietnamite e statunitensi (circa 4000), l’offensiva del Tet dimostrò i gravi limiti della strategia politico-militare del presidente Johnson.

Il contraccolpo interno del Vietnam
L’esponenziale dispiegamento di forze statunitensi, l’uso indiscriminato dei bombardamenti contro i civili e il crescente numero di perdite fra le proprie truppe spinsero larghe fasce della società americana, soprattutto quelle giovanili (peraltro esposte alla chiamata di leva), verso un’opposizione sempre più netta alla guerra in Vietnam. Già dal 1964, ma soprattutto a partire dal 1967, erano sempre più numerose le manifestazioni che si svolgevano nei campus universitari, come in quello californiano di Berkeley, mentre si ampliava il numero delle diser zioni dall’esercito. Ai movimenti di protesta contro la guerra si associò spesso la diffusione di una “cultura alternativa” o “controcultura”, che affondava le sue radici nella Beat Generation degli anni Cinquanta e che si sviluppò con gli hippies [▶ protagonisti].

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Il presidente statunitense Johnson era convinto che l’opinione pubblica avrebbe appoggiato un massiccio intervento a favore della “democrazia in Asia”, volto a contrastare l’espansione del comunismo. Tuttavia, la televisione, con i filmati dei bombardamenti sui villaggi vietnamiti e di altri orrori sulle popolazioni civili, contribuì in modo decisivo a sgretolare il consenso alla politica di guerra [ 14]. Perciò, dopo l’offensiva del Tet, Johnson avviò un piano di disimpegno militare, con la sospensione dei bombardamenti e l’apertura di negoziati, mentre annunciò anche di rinunciare a candidarsi alle elezioni del 1968, che sarebbero state vinte dal repubblicano Richard Nixon.

Intanto, l’incremento del debito pubblico provocato dalla guerra in Vietnam e dalle riforme sociali per la realizzazione della “Grande società” cominciò ad alimentare l’inflazione mettendo in discussione l’idea di intervento statale e la sostenibilità della spesa sociale. Peraltro, la crisi dell’economia americana aveva importanti riflessi internazionali. Infatti, l’intero sistema di Bretton Woods [▶ cap. 10.1], fondato sulla convertibilità del dollaro in oro e dunque sul ruolo di garante degli Stati Uniti, finì con l’incrinarsi nel momento in cui le risorse aurifere della Banca federale americana iniziarono a scarseggiare rispetto alla quantità di dollari che circolavano nel mondo.

  protagonisti

I “figli dei fiori”

I figli dei fiori, o hippies, rappresentavano una controcultura giovanile che ebbe origine negli Stati Uniti negli anni Sessanta e che poi si irraggiò in tutto il mondo. Essi ereditarono in parte la cultura letteraria anticonformista della Beat Generation, interpretata dalle opere di Allen Ginsberg, William Borough e Jack Kerouac, nella San Francisco degli anni Cinquanta.

A imitazione dei cosiddetti beatniks, gli hippies vivevano in proprie comunità, dove consumavano droghe (marijuana e Lsd soprattutto) per esplorare gli stati alterati della mente, che a loro volta trovavano espressione creativa nella musica e nell’arte psichedelica. Essi predicavano e praticavano il libero amore e il naturismo, nutrivano il culto della diversità culturale, seguivano filosofie e religioni orientali di tipo spiritualistico. L’evento simbolo della generazione hippie fu il concerto di Woodstock (una località vicino a New York), che per tre giorni, nell’agosto 1969, radunò oltre 500 000 giovani ad ascoltare la musica dei più importanti cantanti e gruppi dell’epoca, come Joan Baez, Janis Joplin, Carlos Santana, Jimi Hendrix, Jefferson Airplane e Grateful Dead.

12.4 L’Europa orientale e il 1968

Riforme e reazione
Dalla fine della Seconda guerra mondiale ai tardi anni Cinquanta, le società dell’Europa orientale si erano urbanizzate e modernizzate a ritmi veloci, anche se inferiori a quelli occidentali: oltre venti milioni di contadini si erano riversati dalle campagne nelle città, spesso ancora distrutte o dissestate dalle vicende belliche, por tando la popolazione urbana complessiva da 38 milioni nel dopoguerra a 58 milioni alla fine degli anni Cinquanta. Per accogliere questo imponente flusso di persone si costruirono dunque nuove città e nuovi quartieri popolari, mentre si mettevano a punto nuovi servizi sociali da parte degli Stati e si facevano importanti progressi nell’alfabetizzazione.

Nel 1956 i moti polacchi e la rivolta di Budapest, con la conseguente repressione sovietica, avevano mostrato i limiti del processo di destalinizzazione, durante il quale si alternarono timide aperture a drammatiche chiusure repressive. In questo quadro contraddittorio, le “democrazie popolari” accantonarono le politiche di industrializzazione forzata e di collettivizzazione che erano state avviate tra i tardi anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, suscitando forti resistenze [▶ cap. 10.3-10.5]. Negli anni Sessanta i riformatori ammettevano che l’edificazione delle fattorie collettive era stata un grave errore, promuovendo e sostenendo invece politiche moderatamente aperte al mercato, capaci di dare un certo slancio ai beni di consumo. Ciononostante, serpeggiava un malessere sociale profondo, che, malgrado la repressione, minacciava di esplodere da un momento all’altro. Perciò, di fronte alle interferenze e alle pressioni di Mosca, all’interno delle classi dirigenti dei paesi dell’Europa orientale la destalinizzazione si intrecciava con la diffusione del nazionalismo. In sintonia con le tendenze riformatrici, gli intellettuali elaborarono versioni di revisionismo marxista [▶ idee, p. 504]. che faceva i conti criticamente con il modello staliniano e legittimava la ricerca di vie nazionali al socialismo.

 >> pagina 504 

  idee

Il marxismo dopo il 1956

Nella storia del socialismo e del comunismo il termine “revisionismo” è usato in due accezioni diverse. La prima risale alla fine dell’Ottocento ed è riconducibile soprattutto alla riflessione del socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein. Egli tentò di rivedere la teoria rivoluzionaria del marxismo per conciliarla con la prassi dei partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale (1889-1916), che prevedevano di conquistare la vittoria del proletariato attraverso graduali riforme politiche (gradualismo).

La seconda nasce invece dalla seconda metà degli anni Cinquanta, dopo il XX Congresso del Partito comunista sovietico e l’avvio del processo di destalinizzazione. I marxisti dell’Europa orientale, soprattutto in Polonia e in Ungheria, cominciarono a riflettere criticamente intorno all’idea di un modello socialista di tipo omogeneo e universale, identificato con quello staliniano e imposto dalle autorità sovietiche. I marxisti revisionisti riconoscevano la diversità e la pluralità dei percorsi nazionali, esplorando la possibilità di forme di socialismo democratico, oltre a quello autoritario, e sostenendo la necessità di un metodo gradualista all’avvento del nuovo ordine sociale e politico.

La rivolta di Varsavia
Nel marzo 1968 a Varsavia, montarono le proteste degli studenti universitari contro il regime comunista, finché non furono represse dall’intervento della polizia. Per piegare la rivolta studentesca il leader comunista Władysław Gomułka, che già nel dopoguerra aveva fatto leva sul nazionalismo per costruire una via polacca al socialismo, non esitò a ricorrere all’antisemitismo, il quale era da decenni endemico in Europa orientale [▶ cap. 9.7] ed era stato rinfocolato dalla Guerra dei Sei Giorni, quando il blocco sovietico aveva supportato Nasser e la causa arabo-palestinese contro Israele [▶ cap. 11.4].

Il Partito comunista polacco lanciò l’accusa di cospirazione ebraica contro gli studenti, che furono arrestati a decine. Quindi, circa 20 000 ebrei (sui 30 000 sopravvissuti rimasti in Polonia dopo la Seconda guerra mondiale) lasciarono il paese tra la seconda metà del 1968 e il 1969: l’ondata di profughi ebrei dalla Polonia si diresse verso l’Europa occidentale (soprattutto l’Italia e la Francia) e verso gli Stati Uniti.

La repressione riportò la calma per poco tempo. A fronte di una situazione economica sempre più critica, cominciarono a montare le proteste operaie, che ebbero una prima manifestazione in una rivolta del dicembre 1970 contro l’aumento generale dei prezzi. Negli anni successivi esse si ripeterono periodicamente fino ai grandi scioperi, alla fine degli anni Settanta, dei cantieri di Danzica, dove emerse la figura di Lech Wałesa, giovane lavoratore, militante sindacalista e cattolico nonché fondatore del principale movimento d’opposizione, il sindacato Solidarnošć.

La Primavera di Praga
In Cecoslovacchia, fra la metà degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta, il regime staliniano aveva goduto, nella classe operaia e nei ceti intellettuali, di una popolarità maggiore che in altri paesi dell’Europa centrorientale. Perciò, dopo il 1956, la classe dirigente fu costretta ad affrontare e a riconoscere i crimini e gli errori del recente passato staliniano, pur cercando di mantenere il controllo del processo di destalinizzazione.

All’inizio del 1968 Aleksander Dubček fu nominato segretario generale del Partito comunista cecoslovacco e ben presto diventò l’ispiratore della cosiddetta “Primavera di Praga”, una stagione di aperture liberali e democratiche. Egli infatti promosse una politica di riforme sempre più ardita, che metteva in discussione il monopartitismo e che era vista con crescente preoccupazione da Mosca, anche per il possibile effetto di contagio nei confronti degli altri paesi del blocco sovietico. La successiva abolizione della censura avviò una nuova fase intellettuale e sociale, che si cristallizzò intorno alla prospettiva di un “socialismo dal volto umano”.

Il punto di rottura con Mosca si raggiunse quando Dubček ventilò la possibilità che la Cecoslovacchia uscisse dal Patto di Varsavia [▶ cap. 10.1]: l’Unione Sovietica allora cominciò a preparare l’intervento militare, mentre gradualmente si esaurivano le possibilità di una soluzione diplomatica della crisi. Nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968, 300 000 soldati del Patto di Varsavia varcarono i confini cecoslovacchi, prendendo il controllo del paese in poche ore, senza quasi incontrare resistenza armata. Tuttavia, le truppe sovietiche dovettero fronteggiare per mesi una disobbedienza civile di massa, che coinvolse la maggior parte della stessa classe dirigente, oltre che vaste fasce di popolazione [ 15]. Emblematico fu il caso di Jan Palach, uno studente che nel gennaio 1969 si diede fuoco nel centro di Praga, in piazza San Venceslao, per protestare contro l’occupazione sovietica, diventando l’icona di tutta una generazione dissidente. Seguì una politica di normalizzazione burocratica e autoritaria, che riaffermò il primato indiscusso del partito unico e la pratica sistematica della censura, con l’intento di sradicare ogni forma di dissenso.

Dopo l’occupazione della Cecoslovacchia fu formalizzata la cosiddetta “dottrina Brežnev”, che di fatto limitava la sovranità dei paesi alleati dell’Urss in nome degli interessi del socialismo internazionale: ogni violazione di questi interessi, secondo la valutazione del Cremlino, avrebbe comportato la minaccia di un intervento militare.

 >> pagina 506 

12.5 Il 1968 in Occidente

Una nuova cultura giovanile
Nel corso degli anni Sessanta, come mai prima e dopo di allora, l’Occidente traboccava di giovani, che sullo slancio del nuovo benessere e in virtù di una più diffusa istruzione, potevano permettersi di guardare con fiducia al futuro. Al tempo stesso, tuttavia, essi esprimevano una profonda insoddisfazione per l’ordine politico e sociale del presente, facendo della loro giovinezza il simbolo e la forza con cui proporre una nuova prospettiva sociale e distruggere il vecchio ordinamento. La “giovinezza” diventò una parola d’ordine politica, un vero e proprio valore sociale e culturale.

In Francia, Germania e Italia, la generazione studentesca degli anni Sessanta si appassionò a discussioni filosofiche che miravano a riformulare il rapporto fra teoria e prassi, con l’intento di tradurre in pratica nuovi modelli, derivanti da studi di carattere socio-economico. La conciliazione della dimensione teorica con quella pratica era infatti considerata un requisito necessario per superare l’ alienazione tipica dell’uomo moderno. A influenzare queste considerazioni non era più tanto il marxismo nella sua versione tradizionale, che guardava ai rapporti di produzione economica, quanto una sua nuova sintesi con l’  esistenzialismo, con l’indagine psicanalitica, con la critica sociologica, con il femminismo e con l’anticolonialismo. A differenza delle correnti filosofiche che si svilupparono agli inizi del secolo, nelle quali al centro del dibattito politico vi erano i gruppi (nazioni e classi), nell’Europa occidentale del secondo dopoguerra si sottolineò il ruolo del singolo individuo, con le sue peculiarità e le sue unicità, all’interno della società. In particolare emergeva una critica inedita nei confronti della società moderna, determinata dai consumi della produzione industriale di massa.

D’altro canto, non mancavano impulsi a liberarsi completamente della razionalità filosofica e a esaltare acriticamente l’immaginazione e l’emozione. Per questa generazione, una particolare importanza rivestì la musica, in particolare la musica rock (nata negli Stati Uniti, a metà degli anni Cinquanta), che con i suoi suoni distorti e i ritmi incalzanti esprimeva perfettamente lo spirito travolgente e ribelle dei giovani e il loro rigetto della cultura “borghese”, diventando a sua volta cultura di massa [ 16]. Due dei gruppi di maggior successo furono i Beatles e i Rolling Stones, ma tanti altri furono gli eroi musicali di quell’epoca, da Jimi Hendrix a Jim Morrison. Una perfetta sintesi tra la rivolta culturale e l’ansia di nuova socializzazione si concretizzò nei grandi appuntamenti musicali di massa come quelli di Woodstock, negli Stati Uniti, e dell’Isola di Wight, in Gran Bretagna, fra il 1969 e il 1971. In quegli anni, la musica rock si associò spesso all’uso delle droghe, che vennero a costituire un ulteriore simbolo della controcultura giovanile, attraverso il quale vivere l’esperienza di una realtà alterata, diversa cioè da quella conformista e borghese.

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Miti esotici della rivoluzione

Nella seconda metà degli anni Sessanta, la nuova cultura giovanile assunse un volto più politico e militante. Essa contestava l’ordinamento democratico costituzionale, la stabilità sociale e la produttività economica del dopoguerra europeo occidentale in nome di una rivoluzione “antiborghese” e “anticapitalista”, che realizzasse forme più dirette di partecipazione politica e rapporti sociali all’insegna dell’eguaglianza integrale. Ne scaturì un movimento che associava consapevolezza generazionale a un forte slancio libertario, incline a realizzare forme di autonomia o autogestione che si ispiravano alle esperienze delle lotte operaie nelle fabbriche dei primi anni Venti [▶ cap. 4.6] e che adesso si introducevano nei luoghi simbolo del potere “borghese” come le scuole e le università. Ben diversi erano gli obiettivi dei giovani occidentali da quelli di Varsavia e Praga che si rivoltavano in nome della libertà e contro il dominio sovietico; eppure, essi si concepivano come parte di un movimento globale nel tentativo di creare reti internazionali di contestazione.

L’antiautoritarismo si fondeva con utopie esotiche, ispirate dalle rivoluzioni e dalle lotte antimperialistiche che erano in atto in Asia o in America Latina e che legittimavano il ricorso alla violenza politica in senso antimperialistico, antiborghese, antioccidentale. I miti dei giovani occidentali erano dunque intrisi di terzomondismo [▶ cap. 11.5], sostituendo così l’immagine ormai usurata e burocratica del comunismo sovietico: alle lotte organizzate degli operai si anteponevano le ribellioni spontanee dei contadini, all’azione dei partiti si privilegiava la guerriglia. Il mito di Che Guevara [▶ cap. 11.9], il combattente per la libertà dei popoli del Sud America, diventò un potente elemento di autoidentificazione. Un vero e proprio entusiasmo suscitò la rivoluzione culturale cinese [▶ cap. 11.8], di cui arrivavano però resoconti parziali: con il Libretto rosso di Mao essa sembrò incarnare tutte le aspirazioni ideali della generazione sessantottina occidentale. La guerra statunitense in Vietnam parve invece rappresentare tutto ciò che dell’Occidente questa generazione detestava.

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Il messaggio di contestazione ed emancipazione radicale finiva perciò con l’identificare l’esistenza con la politica, soprattutto nella lotta contro la repressione sessuale, che fu uno dei cardini del ‘68. Combinandosi con i nuovi metodi contraccettivi, si fece strada una cultura dell’amore libero, totalmente svincolato dalla procreazione, che costituiva una deliberata rottura con una lunga tradizione cristiana. Peraltro, si apriva la via a una pianificazione consapevole delle nascite, che costituiva l’altro volto dell’emancipazione sessuale e si intrecciava con le battaglie femministe per la riappropriazione del corpo e delle sue libere espressioni e per un nuovo riconoscimento sociale e culturale delle donne. Lo slogan della National Organization for Women, la più grande organizzazione femminista statunitense nata nel 1966, “il personale è politico” fu adottato da molti movimenti radicali dell’epoca. Nonostante le idee libertarie che alimentavano la contestazione giovanile, il femminismo della fine degli anni Sessanta affrontò il maschilismo ancora largamente presente nelle strutture dei movimenti sessantottini, radicalizzando le lotte dei precedenti movimenti per i diritti politici delle donne [▶ fenomeni].

  fenomeni

Il femminismo

Il femminismo comprende una serie di movimenti politici e sociali che si sono battuti nel corso del Novecento per l’uguaglianza delle donne, per l’espansione dei loro diritti politici e sociali e per il conseguimento di pari opportunità formative e professionali rispetto agli uomini.

Il primo femminismo nacque nel mondo anglosassone e americano, fra l’Ottocento e il primo Novecento, sulla spinta delle rivendicazioni in materia di diritto di voto, di contratto matrimoniale, di parentela e di diritti di proprietà. Dopo che le donne avevano conseguito il diritto alla partecipazione elettorale fra primo e secondo dopoguerra (a seconda dei paesi europei), i movimenti femministi concentrarono le loro battaglie per rivendicare un maggiore spazio di realizzazione personale e di azione sociale. In questo senso si distinse la filosofa francese Simone De Beauvoir, compagna del filosofo Jean-Paul Sartre e autrice de Il secondo sesso (1949). A suo avviso, «donne non si nasce, lo si diventa». De Beauvoir infatti sosteneva che solo l’educazione personale e un contesto sociale improntato all’eguaglianza di genere in termini di diritti politici e civili e alle pari opportunità delle prospettive professionali potevano risolvere la questione femminile. La piena maturità teorica del femminismo fu infine raggiunta fra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto grazie all’apporto di una varietà di discipline (filosofia, sociologia, antropologia, economia), in concomitanza con alcune battaglie decisive, come quelle per la riforma del diritto di famiglia, per il divorzio, l’aborto e il libero accesso alla pillola contraccettiva.

Il Maggio parigino
Come altrove, i sommovimenti del 1968 francese furono anche l’esito di un veloce aumento della popolazione universitaria, che nel 1958 si attestava ancora intorno ai 175 000 studenti, mentre dieci anni più tardi si era ampliata ad oltre 500 000 studenti [ 17].

Motivo scatenante della contestazione fu la chiusura della nuova Università di Parigi X (nel quartiere periferico di Nanterre), avvenuta il 2 maggio 1968. Dopo scontri violenti con le forze dell’ordine, circa 30 000 studenti marciarono sugli Champs-Elysées, sotto la guida di Daniel Cohn-Bendit (uno studente di Nanterre vicino a posizioni anarco-comuniste), cantando l’Internazionale, l’inno dei movimenti socialisti e comunisti. Fu quindi occupata la Sorbona, la più antica università nel centro di Parigi, insieme ad altre sedi universitarie in tutto il paese. Contemporaneamente, queste agitazioni – poi dette il “Maggio parigino” – trascinarono con sé uno sciopero di solidarietà con gli studenti da parte di oltre un milione di lavoratori, soprattutto nelle periferie operaie.

Punteggiato di barricate e di scontri con la polizia, il Maggio parigino appariva più come una tradizionale rivolta francese piuttosto che come un episodio della rivoluzione internazionale: insomma, fu una protesta della giovane borghesia, dei fils à papa (figli di papà) come ebbe a dire il segretario del Partito comunista francese Georges Marchais. Questi giovani miravano a scompaginare la struttura autoritaria e gerarchica del sapere e a contestare la concezione “borghese” e repressiva dell’esistenza, a partire dalla sfera sessuale. Alcuni degli slogan più noti (e paradossali) del movimento giovanile sintetizzavano proprio questa nuova forma di sovversione: “L’immaginazione al potere”, “Vietato vietare”, “Siate realisti, chiedete l’impossibile!”.

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Le manifestazioni studentesche di quei mesi si sommarono a quelle operaie, già in corso dall’anno precedente, anche se le seconde erano animate da motivi e obiettivi ben diversi da quelle delle prime. Tra metà maggio e metà giugno oltre sette milioni di lavoratori, spesso in forme spontanee, al di fuori di ogni organizzazione sindacale, scioperarono contro l’aumento della disoccupazione e l’abbassamento dei salari, che erano il sintomo di un più generale rallentamento dell’economia.

La scelta del presidente Charles De Gaulle, insieme al primo ministro Georges Pompidou, fu quella di prendere tempo e di sciogliere l’Assemblea nazionale, senza dimettersi né dichiarare lo stato d’emergenza, nella convinzione che l’ondata di agitazioni sarebbe scemata da sola. Lo stesso giorno, il 30 maggio, una imponente manifestazione di circa 800 000 sostenitori del presidente sfilò sugli Champs-Elysées [ 18]. Nel giugno successivo le elezioni sancirono la vittoria di De Gaulle, che guadagnò 394 seggi su 485.

Se il 1968 francese guardava soprattutto al futuro, nei due paesi sconfitti della Seconda guerra mondiale, l’Italia e la Germania Ovest, il passato giocò un ruolo cruciale. In Italia il movimento di contestazione cercò di rianimare la contrapposizione dell’antifascismo al fascismo, considerato una minaccia incombente quale portato inevitabile del tardo capitalismo, e invocò una “nuova Resistenza”, pretendendo di incarnare il nucleo vitale di un comunismo liberato dalle incrostazioni sovietiche. Nella Repubblica federale tedesca la giovane generazione di orientamento rivoluzionario spinse soprattutto per una resa dei conti dei “padri” con il loro passato nazista e al tempo stesso manifestò con asprezza contro l’imperialismo occidentale, concepito come una nuova forma di fascismo.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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