Storie. Il passato nel presente - volume 3

L’istituzione delle democrazie popolari e le adesioni a Comecon e Cominform

Stato

Democrazia popolare

Comecon

Partiti aderenti al Cominform

Iugoslavia

1945

 

Partito comunista della Iugoslavia (espulso nel 1948)

Albania

1946

1949

Partito del lavoro dell’Albania (1950)

Bulgaria

1946

1949

Partito comunista bulgaro

Polonia

1947 (proclamata nel 1952)

1949

Partito dei lavoratori polacchi

Romania

1947

1949

Partito dei lavoratori rumeni

Cecoslovacchia

1948

1949

Partito comunista della Cecoslovacchia

Ungheria

1949

1949

Partito comunista ungherese

Germania Est

1949

1950

Partito di unità socialista di Germania (1949)

Italia

 

 

Partito comunista francese

Francia

 

 

Partito comunista italiano

Paesi Bassi

 

 

Partito comunista dei Paesi Bassi

La contrastata affermazione del modello sovietico
La ricostruzione delle aree urbane dell’Europa centrale e orientale si intrecciò strettamente con il programma di edificazione di un nuovo sistema produttivo e sociale modellato sull’esempio sovietico. Infatti, sul piano socioeconomico, le democrazie popolari seguirono il modello già messo a punto in Unione Sovietica negli anni Trenta, basato sulla collettivizzazione dell’agricoltura e sull’industrializzazione forzata. Tale modello offriva soluzioni immediate alle esigenze di ricostruzione e modernizzazione, ma lo faceva puntando soprattutto sull’industria pesante e sul settore energetico, trascurando l’importanza dei beni di consumo. Nonostante l’uso di tecnologie arretrate, comunque, i tassi di crescita furono piuttosto elevati.
In ambito agricolo invece, le opposizioni alla formazione di fattorie collettive, soprattutto in Polonia, furono durissime. Fu quindi instaurato un regime di terrore e furono attuate deportazioni dei contadini, per lo più contrari ai governi comunisti. I nuovi regimi, complessivamente, risultarono presto impopolari e si ressero soprattutto in virtù della presenza dell’Armata rossa.
Intanto, nonostante la nascita del Cominform, anche le relazioni interne al blocco comunista si deteriorarono. Gli attriti fra Stalin e Tito, alimentati da un diverso modo di gestire i reciproci rapporti di forza nei Balcani, diventarono esplosivi. Tito, del resto, aveva dato prova di notevole autonomia da Mosca già durante la guerra [▶ cap. 9.9], quando l’esercito di liberazione iugoslavo aveva sconfitto da solo gli occupanti italiani e tedeschi e aveva poi vinto la guerra civile prima dell’arrivo dell’Armata rossa. La sua rottura con Stalin, ufficializzata dalla riunione del Cominform nel giugno 1948, segnò una svolta traumatica in tutto il mondo comunista, perché per la prima volta si presentava un’alternativa alla via sovietica al socialismo.
Il nuovo assetto della Germania
Per ovvie ragioni, il riassetto politico e istituzionale fu particolarmente delicato in Germania. Anche sulla base della lezione fallimentare del primo dopoguerra, la “Grande alleanza antifascista” era fermamente intenzionata a evitare che la Germania, ritenuta unica responsabile della guerra, tornasse a occupare un ruolo di grande potenza. Tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Sovietica erano dunque  favorevoli a una politica di occupazione che colpisse radicalmente gli interessi economici dei proprietari terrieri e dei grandi industriali che avevano sostenuto Hitler (il segretario del Tesoro statunitense, Henry Morgenthau, arrivò a suggerire di trasformare la Germania in un paese integralmente agricolo). Fin da subito, inoltre, le autorità d’occupazione avviarono intense strategie pedagogiche di denazificazione, come la rimozione di ogni simbolo del passato regime e l’organizzazione di visite obbligatorie ai campi di concentramento nazisti.

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Il territorio tedesco fu suddiviso tra le forze d’occupazione dei paesi vincitori: Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito, a cui si aggiunse la Francia. Presto, tuttavia, emersero le prime serie divergenze sulla gestione dell’occupazione. Gli statunitensi decisero di ricostruire le infrastrutture industriali – soprattutto quelle della Ruhr, che erano state duramente colpite durante i bombardamenti – allo scopo di riconvertirle alla produzione del tempo di pace; i sovietici, che avevano subito danni gravissimi alle infrastrutture industriali del proprio territorio, cominciarono invece a requisire e trasferire in patria fabbriche e stabilimenti tedeschi, come forma di pagamento dei danni di guerra (anche a fronte del rifiuto occidentale di imporre alla Germania il pagamento di riparazioni di guerra).
Sul piano politico, mentre in Occidente veniva incoraggiata la ricostituzione dei partiti politici, facendo assegnamento soprattutto sul Partito cristiano democratico (Cdu) di Konrad Adenauer, i sovietici, nei territori posti sotto il loro dominio militare, avviarono una politica di fusione delle forze socialiste e comuniste (Sed), sotto la guida di Walter Ulbricht, che sarebbe rimasto al potere fino al 1971.

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Una città e un paese divisi
Pur trovandosi completamente nella parte orientale del paese, Berlino fu a sua volta ripartita in quattro settori, che furono poi ridotti a due, quello occidentale e quello orientale. Proprio la capitale fu il teatro della prima vera crisi nelle relazioni tra Est e Ovest. Con il lancio del piano Marshall da un lato e la costituzione del Cominform dall’altro, le tensioni precipitarono soprattutto a seguito del colpo di Stato comunista a Praga nel febbraio 1948, con il quale Mosca prese il pieno controllo del governo cecoslovacco. Nel giugno successivo, venne introdotta una nuova moneta nella Germania occidentale, Berlino compresa, spingendo verso la definitiva divisione in due del paese. La reazione dei sovietici fu immediata e dura: chiudendo tutte le vie d’accesso alla città, essi lasciarono completamente isolata Berlino Ovest, tanto che gli americani e i loro alleati dovettero ricorrere a un ponte aereo per rifornire i settori occidentali della città.
La crisi di Berlino sancì il fallimento delle due ipotesi perseguite da Stalin: la costruzione di una Germania unita ma neutrale, oppure una Germania sotto integrale controllo comunista. Nel maggio 1949 fu creata la Repubblica federale tedesca (Rft), che univa le tre zone occidentali. Specularmente, nell’ottobre 1949 fu costituita la Repubblica democratica tedesca (Rdt) [ 14]. Le due nuove entità rifiutarono di riconoscersi reciprocamente e, da quel momento, costituirono il simbolo della contrapposizione globale fra due sistemi sociali e ideologici antitetici.
Il dopoguerra giapponese
La sconfitta nel secondo conflitto mondiale segnò per il Giappone la fine dell’aspirazione a raggiungere lo status di grande potenza e dei progetti di egemonia regionale, che erano stati portati avanti con un lungo ciclo di espansione territoriale nell’Asia continentale [▶ cap. 9.5].

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Le principali città giapponesi avevano subito danni gravissimi e la fame era diffusa ovunque. Le autorità dovettero inoltre provvedere al rimpatrio di milioni di militari e di civili provenienti dall’impero ormai perduto e al tempo stesso al rimpatrio di oltre un milione di coreani, dopo che questi erano emigrati in Giappone nei decenni precedenti o erano stati arruolati nell’esercito durante la guerra.
L’occupazione militare statunitense e la nuova amministrazione statale, affidata al generale Douglas MacArthur e durata fino al 1952, promossero importanti riforme politiche e sociali. Fu avviato uno sforzo intenso di democratizzazione, procedendo a severe epurazioni delle forze armate e dell’amministrazione pubblica, mentre fu vietata la ricostituzione dell’esercito. Fu inoltre varata, come abbiamo ricordato all’inizio del capitolo, una corte internazionale che processò i massimi vertici dell’esercito, pur escludendo che l’imperatore potesse essere sottoposto a giudizio. Hiroito, al contrario, rimase al vertice dello Stato, anche se i suoi poteri vennero tramutati in quelli di un monarca costituzionale.
Gli Stati Uniti avevano un forte interesse nel fare del Giappone un alleato stabile e fedele. L’amministrazione americana cercò dunque di far fronte alle proteste e ai conflitti sociali scaturiti dal malcontento del dopoguerra anche attraverso una serie di politiche tese a evitare qualsiasi svolta in senso comunista del quadro nazionale. Un particolare successo fu ottenuto con la riforma agraria, che consentì di abolire la figura del ▶ fittavolo, ridistribuendo le terre appartenenti ai latifondisti, e di migliorare le condizioni di quasi metà della popolazione contadina. Altre riforme, attuate anche grazie al trasferimento di crediti e tecnologie americane, liberalizzarono gli scambi commerciali e promossero lo sviluppo economico di alcuni colossi industriali insieme a un ampio tessuto di piccole e medie imprese [ 15]. Nel complesso, la gestione statunitense del dopoguerra giapponese garantì al paese una stabilizzazione in senso conservatore, che si accompagnò a uno sviluppo economico sempre più dirompente nel corso degli anni Cinquanta.
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10.4 Dalla guerra di Corea all’equilibrio del terrore

L’Urss e gli scenari asiatici della Guerra fredda

Stalin era convinto che l’antagonismo fra il sistema capitalista e quello socialista dovesse presto o tardi sfociare in una nuova guerra generale. Nei primi anni della contrapposizione con l’Occidente, egli seguì una politica che, pur non rifuggendo del tutto da tentativi di espansione, fu tuttavia attenta a evitare nuovi conflitti militari laddove incontrava una ferma reazione.

Stalin agiva in questo modo anche perché consapevole dei rapporti di forza favorevoli agli statunitensi. Tuttavia, già nell’agosto del 1949 i sovietici furono in grado di sperimentare la prima bomba atomica, molto simile a quelle lanciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki. Costruita grazie a uno straordinario investimento di denaro e alle informazioni delle spie operanti in Occidente, l’atomica sovietica cambiò le regole del gioco nella Guerra fredda, amplificando i rischi di un nuovo conflitto distruttivo ed esaltando le ambizioni imperiali di Stalin.

Ciò avveniva mentre lo scenario asiatico si andava drasticamente trasformando con l’affermazione di un nuovo attore del comunismo internazionale: la Repubblica popolare cinese, nata il 1° ottobre 1949. In realtà, nonostante la comune matrice ideologica, fin da subito fra Stalin e Mao emersero tensioni in merito ai rapporti di forza interni al campo comunista.

La guerra di Corea
Sotto controllo giapponese dal 1910, la penisola coreana era stata conquistata nell’agosto del 1945 dalle forze sovietiche provenienti da nord e dalle truppe americane che risalivano da sud. Il confine fra le due aree di occupazione fu stabilito lungo il 38° parallelo, che sancì presto la suddivisione della penisola in due Stati indipendenti, ideologicamente contrapposti e ispirati dai due modelli di riferimento, quello sovietico e quello liberale.
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Entrambi gli Stati, tuttavia, miravano al pieno controllo della penisola. La situazione precipitò nel 1950, quando Stalin autorizzò Kim Il-sung, dittatore comunista della Corea del Nord, a invadere la Corea del Sud, così da saggiare la reazione statunitense. L’offensiva scatenata il 25 giugno 1950 dalle truppe nordcoreane raggiunse con fulminea rapidità la capitale Seoul e permise a Kim Il-sung di impadronirsi in pochi giorni di quasi tutta la penisola, a eccezione di un lembo di territorio meridionale. Le sparute forze occidentali presenti nella zona furono sbaragliate.

La reazione internazionale all’aggressione alla Corea del Sud fu promossa dalle Nazioni Unite, che autorizzarono una risposta militare per il ripristino del confine preesistente. La decisione di Stalin di disertare la riunione del Consiglio di sicurezza, in cui avrebbe potuto esercitare il diritto di veto, facilitò la formazione di un corpo di spedizione multinazionale, a guida americana ma sotto la bandiera dell’Onu.

Nel settembre successivo, il generale Douglas MacArthur, comandante in capo delle forze americane, organizzò un massiccio sbarco a Inchon, che sorprese e isolò le forze nordcoreane, impedendo i rifornimenti da nord. All’inizio di ottobre, andando oltre il mandato dell’Onu e ignorando gli avvertimenti contrari della Cina, le forze americane oltrepassarono il 38° parallelo, avanzando in territorio nordcoreano. A sostegno dei coreani del Nord, ormai costretti sulla difensiva, si impegnò a questo punto la neonata Repubblica popolare cinese, inviando un corpo di 500 000 “volontari”: i nordcoreani avevano sostenuto le forze di Mao in Manciuria durante la guerra civile cinese del 1945-49 e ora Kim Il-sung veniva ricompensato. La travolgente avanzata dei cinesi, sostenuti anche da missioni segrete dell’aviazione sovietica, costrinse gli americani alla ritirata entro il confine meridionale, tanto che per volgere nuovamente la situazione in suo favore il generale MacArthur propose di ricorrere alla bomba atomica.

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I combattimenti lungo il 38° parallelo si protrassero stancamente per altri due anni, mentre intensi bombardamenti aerei statunitensi colpivano il Nord. Nel luglio 1953 fu infine firmato un armistizio che pose termine ai combattimenti e stabilì un’area demilitarizzata in corrispondenza del confine. Il conflitto, che costò oltre 1 200 000 morti fra militari e civili, sancì la definitiva divisione fra la Corea del Nord e quella del Sud, anche se un accordo di pace non fu mai raggiunto [ 16].

Deterrenza, arretramento, contenimento: la Guerra fredda Sulla scia della guerra di Corea, nelle due superpotenze si scatenò una sfrenata corsa agli armamenti – sia quelli tradizionali, le cosiddette armi “convenzionali”, sia quelli nucleari di recente introduzione – che impegnò quote sempre più rilevanti dei bilanci di Usa e Urss. Sul piano convenzionale l’Unione Sovietica era superiore agli Stati Uniti, anche se la Nato nel suo complesso godeva del primato in termini di forze aeree e navali. Sul piano dell’armamento nucleare, invece, i rapporti erano rovesciati, anche se andavano rapidamente pareggiandosi: nel 1952 gli Stati Uniti fecero il primo test di un nuovo ordigno, la bomba termonucleare all’idrogeno (bomba H), ma già l’anno successivo l’Urss si dotò di armi equivalenti. Questa sostanziale parità di forze dava vita al cosiddetto “equilibrio del terrore”, fondato sulla logica della deterrenza: la prospettiva della “distruzione reciprocamente assicurata”, in altre parole, spingeva a evitare un confronto armato diretto

L’idea di far arretrare il comunismo o, all’opposto, di far avanzare la rivoluzione sociale fu così accantonata dai due grandi avversari globali, almeno in Europa. I rischi di un confronto militare diretto, tuttavia, rimanevano altissimi, essendo legati non solo alle decisioni di politica estera, riguardanti un ristretto numero di dirigenti e diplomatici, ma anche alle diverse evoluzioni della politica interna di Stati Uniti e Unione Sovietica. In particolare, mentre la politica statunitense era condizionata dai mutevoli umori dell’opinione pubblica, non di rado oggetto di deliberate manipolazioni da parte dei mass media e dei politici, quella sovietica era determinata dalle imprevedibili lotte per il potere che si consumavano al vertice. Si trattava perciò di una partita complessa, dalle regole non scritte, che aveva un campo principale in Europa, ma che tendeva a estendersi a tutto il globo.

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Il confronto bipolare fra tensione e distensione
Fra il 1949 e il 1955 la tensione fra Usa e Urss raggiunse l’apice. In concomitanza con la guerra di Corea, infatti, l’amministrazione americana adottò la politica dell’“arretramento” (rollback), secondo la definizione proposta dal segretario di Stato John Foster Dulles. Essa non mirava più soltanto a contenere l’espansione del comunismo, ma ambiva a determinarne la sua progressiva ritirata. Questa politica, avviata sotto Truman, proseguì nei primi anni della presidenza del repubblicano Dwight Eisenhower [▶ cap. 9.9], eletto nel 1952.

In realtà, questo nuovo atteggiamento rispondeva soprattutto a esigenze propagandistiche. All’inizio degli anni Cinquanta, infatti, la società e la politica statunitensi furono investite da una vera e propria psicosi anticomunista, fondata sulla paura di una minaccia comunista interna al paese. Si trattava di un timore irrazionale, dal momento che il pericolo, semmai, era più esterno che interno, sebbene da parte dei repubblicani non mancassero le accuse di tradimento contro i membri del piccolo Partito comunista americano. Furono questi gli anni del “maccartismo”, cioè di una campagna, promossa dal senatore conservatore Joseph McCarthy, volta a censurare o a reprimere ogni dissenso nei confronti della politica americana attraverso il richiamo alla minaccia sovietica. Ne nacque una sorta di “caccia alle streghe” di cui furono vittime anche illustri personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura [ 17].

L’ossessione per la sicurezza nazionale finì col modellare pratiche e culture di governo e col ridisegnare il profilo delle istituzioni, a partire dal rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e dalla nascita della prima agenzia permanente di spionaggio, la Cia (Central Intelligence Agency). Nel corso degli anni Cinquanta, tuttavia, prevalse sempre più la volontà di conservare inalterato l’ordine internazionale fondato sulla divisione per sfere d’influenza, con un ritorno alla politica del “contenimento” già seguita nei primi anni del dopoguerra.

10.5 L’Urss e l’Europa orientale dopo Stalin

La lotta per la successione
La morte di Stalin, nel 1953, aprì una nuova fase di incertezza in Unione Sovietica, fra speranze interne di riforma e timori di un ritorno al terrore. Tuttavia, nonostante il profondo scontento sociale fosse contenuto con maggiore difficoltà dalla repressione, il potere rimaneva nelle mani di poche persone, che – secondo la concezione stalinista del potere – agivano nella massima segretezza  [ 18]. Peraltro, la volontà di rinnovamento della classe dirigente, che pure non mancava, si scontrava con l’ignoranza dei meccanismi di funzionamento dei sistemi non collettivisti, dovuta al completo isolamento dal mondo esterno che l’Urss viveva ormai da decenni. Questo isolamento inoltre era stato inasprito dalla sindrome di assedio permanente dagli attacchi delle forze capitliste e dalla sistematica pratica del terrore.

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Paradossalmente, tra i riformatori della prima fase poststaliniana si distinse l’ex capo della polizia segreta, Lavrentij Berija, pronto a denunciare le repressioni staliniane di cui era stato uno dei massimi artefici. Nonostante questo, egli fu arrestato, processato e fucilato nello stesso 1953. La vicenda di Berija sembrava un grave ritorno ai momenti più drammatici delle purghe interne; tuttavia, l’aspra lotta per la successione di Stalin vide affermarsi, contro gli stalinisti di ferro, Nikita Sergeevič Chruščëv che aveva ricoperto incarichi fondamentali nel Partito comunista in Ucraina sotto Stalin [▶ cap. 6.3] e che divenne ora il nuovo segretario del Pcus. Con Chruščëv cominciò a profilarsi un nuovo clima di maggiore distensione, il “disgelo”, secondo il titolo di un fortunato romanzo dello scrittore Il’ja Erenburg. Dai campi e dagli insediamenti speciali furono liberati oltre un milione di detenuti, mentre si scatenavano le prime rivolte, come quella del 1954 nel campo di Karaganda (nell’odierno Kazakistan).

Il “rapporto segreto” del XX Congresso
Il XX Congresso del Partito comunista sovietico si aprì nel febbraio 1956, all’insegna di un’apparente continuità con il periodo staliniano. Chruščëv, invece, ridefinì la politica estera rigettando apertamente l’idea dell’inevitabilità della guerra fra il campo socialista e quello capitalista. Successivamente, in una sessione del Congresso a porte chiuse tenutasi la sera del 25 febbraio, il segretario presentò un rapporto segreto finalizzato a mettere in discussione «l’autoritarismo di Stalin nei confronti del Partito e del Comitato centrale» e a contestare il “culto della personalità” di cui egli era stato oggetto. Chruščëv recuperava l’idea di una discontinuità profonda fra Lenin e Stalin e rivendicava una nuova prospettiva di “legalità rivoluzionaria”; maturava così una sorta di “umanesimo sovietico”, che sollecitava a misurarsi con la natura criminale dello stalinismo e predicava un ritorno al leninismo come motore di un ulteriore rinnovamento della società sovietica.
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Il cosiddetto “rapporto Chruščëv” evitò però di affrontare un’analisi della collettivizzazione e della carestia del 1932-33; inoltre, attribuì al solo Stalin la responsabilità delle purghe del 1937, di cui molti erano stati corresponsabili, a partire dallo stesso Chruščëv. In questo senso, la svolta del XX Congresso si configurava soprattutto come un’autoassoluzione di una classe dirigente che, forgiata sotto Stalin, cercava ora di legittimare le proprie pretese di governo con un gesto di discontinuità  [ 19].

Il rapporto fu pubblicato dal New York Times nel giugno successivo, suscitando profonda impressione all’interno dei partiti comunisti di tutto il mondo e provocando un’emorragia di militanti e intellettuali. L’esplicita denuncia dei crimini di Stalin finì col gettare discredito sull’Unione Sovietica, anche agli occhi di coloro che fino ad allora avevano ignorato o negato la natura dello stalinismo, come fosse un’invenzione della propaganda imperialista e controrivoluzionaria.

Il “nuovo corso” dell’Europa orientale
Fin dalla morte di Stalin, nei paesi dell’Europa orientale erano sorte l’attesa e la speranza di un “nuovo corso”, soprattutto laddove il dominio sovietico era più duro. La Repubblica democratica tedesca era quanto mai impopolare e si reggeva soltanto grazie alla presenza dell’Armata rossa; nonostante lo stretto controllo delle autorità, fra il 1951 e il 1953 oltre mezzo milione di persone era fuggito a ovest (si trattava per lo più di persone istruite, quadri e lavoratori indispensabili al funzionamento delle strutture produttive del paese). A Berlino Est il malcontento si trasformò in rivolta aperta il 17 giugno 1953 [ 20], quando uno sciopero generale fu represso nel sangue con l’invio delle forze corazzate. Ciononostante, lo staliniano Ulbricht rimase ai vertici del Partito, consolidando il proprio potere, anche grazie al miglioramento della situazione economica.
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Con l’avvio del processo di “destalinizzazione” in Urss, tuttavia, nel giro di breve tempo gli altri “piccoli Stalin” – così venivano chiamati i capi di governo degli Stati del blocco sovietico – furono allontanati dai vertici delle democrazie popolari, mentre in nome del ritorno alla “legalità socialista” la polizia politica fu messa sotto accusa per gli abusi compiuti negli anni precedenti. Le vittime delle epurazioni della fine degli anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta furono riabilitate. Più in generale, si cominciò a discutere, anche criticamente, il problema del primato del partito rispetto alla legge. La destalinizzazione implicò anche un maggiore coordinamento militare (la costituzione del Patto di Varsavia è del 1955) e relazioni politico-diplomatiche più distese fra i paesi del blocco comunista.

Nel maggio 1955 Chruščëv riprese i rapporti con Tito, ricucendo almeno in parte lo strappo del giugno 1948  [ 21]. Proprio durante la sua prima visita a Belgrado, il leader sovietico accettò pubblicamente l’idea delle “vie nazionali al socialismo”, riconoscendo la possibilità di modelli alternativi a quello incarnato dall’Unione Sovietica per la costruzione del socialismo. A sancire questa svolta fu deciso, nel maggio 1955, lo scioglimento del Cominform, che portò a un allentamento dei vincoli dei partiti comunisti da Mosca. Ne conseguì, un po’ in tutta l’Europa orientale, un rallentamento del ritmo di industrializzazione, una sospensione della collettivizzazione, un’enfasi maggiore sulla direzione collettiva dell’economia e il tentativo di sostenere la crescita di un’economia basata sui beni di consumo.

A partire dal XX Congresso, inoltre, maturò un intenso dibattito intorno al revisionismo marxista, che tendeva in vario modo a contrapporre Stalin a Lenin e a recuperare il senso originario del progetto marxista-leninista. La critica allo stalinismo e la nuova prospettiva delle vie nazionali al socialismo implicò però anche un nuovo accento sul nazionalismo, che in Romania assunse le forme di un nazionalcomunismo sotto la dittatura personale di Nicolae Ceausescu. D’altro canto, l’idea delle vie nazionali al socialismo si affermò anche tra i partiti comunisti occidentali, legittimando, a differenza del modello sovietico, la pratica parlamentare e democratica in vista di una graduale trasformazione della società capitalista.

In questo quadro emergeva la particolarità del percorso iugoslavo. L’autogestione diventò la chiave di un nuovo sistema che mirava a trovare una terza via fra capitalismo americano e comunismo staliniano, concedendo un margine di iniziativa economica autonoma che provenisse dal basso, su scala locale: gli operai delle piccole aziende svolgevano un ruolo più diretto nell’organizzazione e nel controllo della produzione e della distribuzione delle merci. Intanto, sul piano della politica internazionale la Iugoslavia si proponeva come uno dei punti di riferimento di un nuovo schieramento internazionale, irriducibile sia al fronte atlantico sia a quello sovietico della Guerra fredda, coinvolgendo i cosiddetti “paesi non allineati”, che costituivano il cosiddetto “Terzo Mondo” – come vedremo nel capitolo successivo.

La crisi del 1956
Le inquietudini e le agitazioni cresciute nelle periferie del blocco sovietico subito dopo la morte di Stalin furono ulteriormente alimentate dal rapporto Chruščëv (che pure non era mai stato pubblicato ufficialmente nel mondo comunista). In Polonia, alla fine del giugno 1956, la polizia sparò contro gli operai di Pozńan, che da settimane protestavano per migliorare le loro condizioni di vita [ 22]. Nonostante la repressione sovietica, alla fine Chruščëv fu comunque costretto ad accettare l’ascesa al vertice del Partito comunista polacco di Władysław Gomułka , che in seguito alle persecuzioni staliniane aveva acquisito vasta popolarità nel paese.

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Ben più grave fu la crisi in Ungheria, dove la breve esperienza di destalinizzazione era stata interrotta, nel 1955, dall’estromissione voluta da Mosca del riformista Imre Nagy dal governo e dal Partito comunista. Il 23 ottobre 1956 si scatenò una violenta insurrezione popolare, duramente repressa dalla polizia politica ungherese con il sostegno sovietico, ma conclusasi comunque con il ritorno al potere di Nagy. Quest’ultimo sperava finalmente di poter avviare un corso riformista, anche perché, una volta tornata la calma a Budapest, Mosca decise di ritirare le proprie truppe. Ma era una mossa solo temporanea. Alla radio, il 30 ottobre, Nagy annunciò che l’Ungheria era intenzionata a reintrodurre un sistema multipartitico e a lasciare il Patto di Varsavia, mentre ormai ovunque sorgevano comitati insurrezionali e si diffondevano umori antisovietici, spesso fuori dal controllo delle autorità. A quel punto, in concomitanza con l’intervento anglo-francese a Suez che, come vedremo, impegnava l’attenzione dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali, fu decisa l’invasione sovietica dell’Ungheria, con l’occupazione militare delle principali città. Il 4 novembre cominciò la battaglia di Budapest, che infuriò fino al 10 novembre e portò alla morte di migliaia di ribelli [ 23]. Mentre quasi 200 000 ungheresi lasciavano il paese, si insediava il governo di János Kádár, leale alle direttive di Mosca e pronto a cancellare le politiche riformiste precedenti; l’epilogo della vicenda fu la condanna a morte di Nagy nel 1958. Tuttavia la rivolta aveva gettato le basi per un nuovo corso di riforme economiche che condusse all’edificazione di un “comunismo al  gulasch, come è stato definito, perché più orientato verso i consumi con aperture al libero mercato e a maggiori diritti personali, pur senza mettere in nessun modo in discussione il sistema monopartitico comunista.

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10.6 Verso l’integrazione europea

I primi passi di un’Europa unita
 Oltre a essere stati fra i principali artefici della ricostruzione postbellica, i tre massimi esponenti politici del cattolicesimo liberale del dopoguerra – il francese Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauer e l’italiano Alcide De Gasperi – furono anche i primi architetti della costruzione di una nuova Europa occidentale, unita e pacifica. Questi tre leader politici erano accomunati dal fatto di essere nati in regioni di confine di lingua tedesca (rispettivamente in Lussemburgo, a Colonia e a Trento) e di aver maturato una profonda avversione per il nazionalismo, non solo in virtù dell’eredità universalistica cattolica, ma anche e soprattutto per le tragiche esperienze vissute nella Seconda guerra mondiale. Essi non condividevano solo una formazione culturale tedesca, ma anche un anticomunismo non meno intransigente del loro antifascismo, che si accompagnava a una salda fede nello Stato di diritto.

In questa chiave liberale e antinazionalista, la spinta a integrare funzioni e poteri degli Stati nazionali in un’organizzazione più ampia derivava non tanto dalla volontà astratta di un superamento delle sovranità nazionali, quanto dalla necessità di trovare strumenti efficaci per gestire problemi comuni, ereditati dai conflitti della prima metà del secolo. Non a caso, la prima forma di cooperazione economica europea era stata la costituzione dell’Oece, nata per gestire gli aiuti provenienti dagli Stati Uniti con il piano Marshall.

Fra i maggiori problemi aperti, nel dopoguerra, vi erano le tensioni tra Francia e Germania Ovest per lo sfruttamento delle risorse carbonifere e delle industrie metallurgiche delle zone di confine: Alsazia, Lorena e Ruhr. Nel 1950, su iniziativa di Schuman, allora ministro degli Esteri francese, si avviò la creazione della Comunità economica per il carbone e per l’acciaio (Ceca), che mirava a porre la produzione franco-tedesca di carbone e acciaio sotto il controllo di un’Alta autorità sovranazionale, cui si associarono anche l’Italia e il Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo). La Ceca, formalmente costituita con un trattato del 1951, entrato in vigore l’anno successivo, era incaricata di regolare i programmi di investimenti, concedere prestiti o garanzie, disciplinare la domanda e l’offerta di acciaio e carbone in periodi di crisi. La vera anima del progetto era il politico ed economista francese Jean Monnet, che vi vedeva la via maestra per rassicurare la classe dirigente e l’opinione pubblica francesi rispetto al sorgere di una nuova minaccia tedesca e al tempo stesso per favorire la cooperazione europea attraverso l’asse franco-tedesco. Si trattava di un progetto nobile e di lungo respiro, come ebbe a dire egli stesso: «non stiamo unendo degli Stati, ma stiamo unendo dei popoli».

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Dal fallimento della Ced ai trattati di Roma L’altro fondamentale problema dell’Europa postbellica scaturiva dalla necessità di istituire uno strumento di coordinamento militare europeo, in un contesto di insicurezza globale legato alla Guerra fredda e in cui la la Repubblica federale tedesca continuava a essere priva di un trattato di pace e di confini certi. Per incrementare il proprio impegno militare, gli americani posero la condizione del riarmo della Germania occidentale e del suo pieno recupero di sovranità: una prospettiva che per i francesi era difficile da accettare a soli cinque anni dalla fine del conflitto mondiale. D’altro canto, i sovietici spingevano per l’attribuzione di uno statuto di neutralità a una Germania riunificata, ma di fatto soggetta all’influenza sovietica. Per risolvere la controversia, il ministero della Difesa francese René Pleven propose di organizzare una Comunità europea di difesa (Ced), che avrebbe dovuto includere truppe tedesche sotto il comando francese. Il trattato istitutivo, approvato nel 1952 dai sei paesi che avevano già dato vita alla Ceca, fu tuttavia rigettato dall’Assemblea nazionale di Parigi, per l’opposizione dei gollisti, dei comunisti e di parte dei socialisti. Nel 1955, infine, la Repubblica federale tedesca fu ammessa alla struttura militare della Nato e poté così dotarsi dell’esercito, sia pur limitato.

Il processo di integrazione europeo era comunque destinato a proseguire, anche in conseguenza dei nuovi equilibri geopolitici mondiali. Il grande fenomeno di affrancamento delle colonie africane e asiatiche dalle potenze imperiali europee, come vedremo, stava conducendo alla fine del residuo primato europeo sul mondo. Per la Francia e il Regno Unito, in particolare, era ormai impossibile esercitare un ruolo politico e diplomatico mondiale senza una reciproca collaborazione e prescindendo dall’appoggio statunitense. Tuttavia, mentre i britannici scelsero di privilegiare proprio il rapporto con gli Usa, la Francia si impegnò nella ripresa dei negoziati per una maggiore integrazione europea. Nel marzo del 1957 un decisivo passo avanti fu compiuto con la firma dei Trattati di Roma, siglati da Francia, Repubblica federale tedesca, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. L’accordo istituiva la Comunità economica europea (Cee) [ 24], con l’obiettivo fondamentale di evitare il ritorno alle precedenti barriere economiche e politiche che avevano alimentato tensioni, divisioni e conflitti nel vecchio continente. Si trattava soprattutto, a ben vedere, di una dichiarazione d’intenti, che nel tempo avrebbe comunque condotto a un concreto programma per la libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone all’interno dello spazio europeo. La realizzazione del Mercato europeo comune (Mec), attraverso l’abbattimento delle barriere tariffarie, doveva essere compiuta entro 10 anni, ma molti ostacoli continuarono a frapporsi alla realizzazione di questo obiettivo.

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La costruzione istituzionale della Cee prevedeva una molteplicità di organi con competenze e funzioni diverse. La Commissione, vero e proprio braccio esecutivo della Cee, politicamente indipendente dai singoli governi nazionali e composta da un rappresentante per ogni Stato membro, fu istituita fin dal 1958 e fu incaricata di promuovere le politiche comuni e di attuare le delibere del Parlamento europeo, costituito nel 1962. Il Consiglio della Comunità economica europea era composto invece dai ministri di ciascun governo competenti per la materia in discussione (con una presidenza a rotazione, ogni semestre) ed era investito del compito di adottare modifiche della legislazione e di coordinare le politiche europee. A vigilare che il diritto europeo fosse applicato in tutti i paesi membri e a dirimere le controversie giuridiche tra loro pensava la Corte di giustizia europea, costituita fin dal 1952.

Le organizzazioni comunitarie europee

Organizzazione

Anno di fondazione

Paesi fondatori

Obiettivi

Oece Organizzazione europea di cooperazione economica

1948

Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera, Turchia, Germania Ovest (dal 1955), Spagna (dal 1959)

Gestire gli aiuti del piano Marshall

Ceca
Comunità economica per il carbone e l’acciaio

1951

Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi

Regolare i piani di investimenti, concedere prestiti e garanzie, disciplinare la domanda e l’offerta di carbone e acciaio in periodi di crisi

Ced
Comunità europea di difesa

1952 approvata ma mai ratificata

Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi

Organizzare e gestire la difesa militare dei paesi europei aderenti

Cee
Comunità economica europea

1957

Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi

Creare una comunità di libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone

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Gli organi della Cee

Organo

Anno di costituzione

Composizione

Funzione

Commissione

1958

Formata da delegati dei paesi membri, indipendenti dal governo nazionale (che li ha scelti)

Esecutiva

Parlamento

1962

Formata da parlamentari dei paesi membri, scelti dai rispettivi parlamenti nazionali

In origine consultiva, poi legislativa

Consiglio

1958

Ministri di ciascun governo competenti per la materia in discussione

Cooperativa e di indicazione politica

Corte di giustizia

1952

1 giudice per paese membro e 11 avvocati generali

Giudiziaria e di vigilanza affinché vengano rispettati i trattati sottoscritti dai paesi membri

Politiche della stabilità

Tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Sessanta tutti i governi dell’Europa occidentale, indipendentemente dal loro orientamento ideologico, cercarono di costruire un vasto consenso, marginalizzando o rimuovendo i fattori di conflitto più deflagrante. Le principali forze sociali e politiche concordavano sulla necessità di un ruolo fondamentale dello Stato nella sfera economica, anche se questa era articolata in forme differenti a seconda dei diversi paesi.

Se i paesi scandinavi continuarono a essere governati dai partiti socialdemocratici, nel Regno Unito, dopo la sconfitta laburista del 1951, subentrò al governo il Partito conservatore di Harold Macmillan, che mantenne comunque le misure statali contro la disoccupazione e per le assicurazioni sociali. Nel 1964, poi, ritornò al potere il Partito laburista con Harold Wilson.

In Europa occidentale, una delle maggiori novità del dopoguerra fu l’affermazione dei partiti cristianodemocratici o democristiani. A eccezione della penisola iberica, dove la Chiesa cattolica continuava a offrire un solido appoggio ai regimi autoritari di Franco in Spagna e di Salazar in Portogallo, i democristiani contribuirono in modo decisivo a creare condizioni di stabilità politica e di coesione sociale e a conciliare l’elettorato cattolico con le istituzioni liberaldemocratiche, per lo meno nella prassi quotidiana, se non nella retorica politica.

La Repubblica federale tedesca fu appunto governata, dal 1949 al 1966, da Konrad Adenauer, capo dell’Unione cristianodemocratica (Cdu), la quale, a differenza del Centro cattolico dei tempi di Weimar, si dimostrò capace di assorbire il consenso della destra radicale. Al conservatorismo culturale la Cdu intrecciava una notevole apertura sulle politiche sociali, che si tradussero nella realizzazione di un’“economia sociale di mercato” (definita anche “capitalismo renano”), un compromesso che ambiva a coniugare la libertà di impresa con la coesione sociale.

Rinato sulla base del rifiuto di ogni ideologia totalitaria, il sistema politico tedesco era caratterizzato anche da un deciso anticomunismo, che nel 1955 portò al bando del Partito comunista. Il Partito socialdemocratico (Spd) ricominciò a svolgere un ruolo politico importante solo negli anni Sessanta, dopo che il Congresso di Bad Godesberg, nel 1959, sancì una profonda revisione dell’ideologia marxista. Il revisionismo socialde­mocratico costituì il presupposto essenziale per il ruolo di protagonista che la Spd giocò fra gli anni Sessanta e Settanta nella politica tedesca ed europea, sotto la direzione di Willy Brandt, borgomastro (sindaco) di Berlino Ovest e poi ministro degli Esteri.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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