Santo Peli - La guerra partigiana tra città e montagna

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Santo Peli

La guerra partigiana tra città e montagna

Affrontando uno dei temi più problematici della Resistenza, ossia il ricorso alla violenza, lo storico Santo Peli confronta le differenze tra la lotta partigiana in città e quella in campagna o montagna, e si focalizza in particolare sulle strategie terroriste a cui ricorrevano i Gap in contesto urbano.

La guerra partigiana che abbiamo scolpita nella memoria ha come teatro privilegiato la montagna, da sempre «patria del ribelle», perché lì l’asprezza della natura diventa alleata preziosa, indispensabile risorsa per compensare la grande sproporzione di forze che caratterizza le guerre di liberazione, per definizione asimmetriche. Quando possenti eserciti regolari combattono contro guerriglieri approssimativamente armati e ancor peggio addestrati, la sproporzione può essere in parte compensata solo dalla scelta di un terreno favorevole, da una tattica «mordi e fuggi» e da un di più di coraggio e di nobili motivazioni. Quella che sarà la narrazione epica della guerra partigiana trova in questa sproporzione, nella mortale battaglia fra Davide e Golia, una componente indispensabile.

Nell’immaginario della mia generazione, che si è nutrito di queste canzoni, e ancor più delle opere dei grandi romanzieri-partigiani (Fenoglio, Calvino1 e Meneghello2 sopra tutti), «le belle città date al nemico» restano sullo sfondo, lontane dai luoghi mitici dove si guerreggia, sfocate, possedute da un nemico feroce e incontrastato. Le città sono soprattutto il luogo della fame, del mercato nero, delle retate improvvise, delle de­portazioni di ebrei e operai, dei bombardamenti. Nel quadro generale della Resistenza le città entrano con qualche rilievo specialmente in due occasioni: i grandi scioperi del marzo 1944 e le giornate insurrezionali, quando le maggiori formazioni partigiane scendono ad anticipare gli Alleati, ormai dilaganti nella pianura padana.

Eppure, è nelle città che si trova la direzione politico-militare della guerra di Liberazione: da lì partono soldi, armi e quadri indispensabili allo sviluppo delle bande, alla loro graduale trasformazione in brigate e divisioni. In particolare è lì, negli attentati gappisti, che quella guerra trova i suoi primi atti concreti.

Il lungo e laborioso processo che sfocerà in una guerra partigiana dalle proporzioni più che ragguardevoli, per tutta la prima fase è caratterizzato da battaglie difensive, da rastrellamenti disastrosi, da incertezze sul modello di guerra da adottare, da forti divisioni tra i maggiori partiti antifascisti.

Per cinque-sei mesi, sono i pochi gappisti che operano in città a dimostrare che la Rsi3 non è in grado di proteggere nemmeno i suoi maggiori esponenti, e che si possono attaccare i temutissimi soldati tedeschi. Le loro imprese sul piano strettamente militare sono piccola cosa, non c’è dubbio, ma sul piano simbolico la rottura dell’ordine nazifascista parte soprattutto da qui.

Eppure, i Gruppi di azione patriottica, componente esigua ma rilevante del movimento di resistenza, occupano un posto tutto sommato marginale nella memoria collettiva, come anche nella storiografia della Resistenza. Senza le ricorrenti polemiche connesse alla strage delle Fosse Ardeatine, e le mai sopite deprecazioni del «delitto Gentile»4, dei gappisti si sarebbe forse persa la memoria.

Spiegare, pur in modo sommario, questa marginalità, richiederebbe di immergersi nell’analisi delle varie fasi che hanno caratterizzato la storiografia, e gli intricati nessi tra ricerca storica, fasi politiche e memoria pubblica della Resistenza. Qui basterà qualche cenno alle due questioni che più hanno contribuito a confinare la vicenda dei Gap in un cono d’ombra, e che molto schematicamente possono essere così sintetizzate: i gappisti combattono secondo le modalità classiche del terrorismo, cioè sia con uccisioni mirate di singoli individui sia con attentati dinamitardi5; inoltre, i Gap sono organizzati e diretti dal Pci, e dunque restano, durante la Resistenza e anche nei decenni successivi, connotati politicamente in modo molto più marcato di quanto accada per tutte le altre formazioni partigiane, che progressivamente subiscono un parziale processo di fusione nel Corpo volontari della libertà (Cvl).

Per quanto riguarda la prima questione, cioè i problemi connessi alle tecniche di combattimento specifiche dei Gap, le loro modalità operative non possono che essere assimilate a pratiche terroristiche, cosa del resto ovvia e ammessa senza remore dai diretti protagonisti, e dalla direzione unitaria della guerra partigiana incarnata dal Comando generale del Cvl, che definisce i Gap «formazioni di pochi uomini aventi per compito l’azione terroristica contro i nemici e i traditori, azioni di sabotaggio contro le vie di comunicazione, i depositi del nemico ecc.». Anche Claudio Pavone, nel suo fondamentale saggio sulla moralità nella Resistenza, sottolinea che «le parole “terrore” e “terrorismo” si trovano usate promiscuamente nelle fonti resistenziali, senza inibizioni e senza gli echi oggi suscitati dalle vicende italiane e internazionali degli ultimi due decenni».

Tutto ciò è documentabile ed è vero che la pratica del terrorismo comporta forme di lotta assai lontane dall’immagine tradizionale del guerriero che combatte «a viso aperto». Che anche la guerra partigiana in montagna sia di necessità combattuta con un susseguirsi di imboscate, di agguati e precipitose ritirate, poco importa; in montagna si fa vita collettiva, si dibatte, si scrivono giornaletti, si sperimentano nuove forme di partecipazione alle decisioni. Le bande partigiane, almeno tendenzialmente «microcosmo di democrazia diretta», sono aperte a tutti, a prescindere dalle adesioni a un partito (e del resto all’inizio sono ben pochi i partigiani con una sufficiente alfabetizzazione politica). Nulla di tutto ciò può accadere nell’organizzazione e nella pratica della lotta armata in città: né lo consentono le regole della clandestinità e la stretta dipendenza dal Partito comunista.

A differenza di quanto accade in montagna, il «valor guerriero» di un gappista non si misura dalla resistenza fisica alle marce e alle privazioni, dal coraggio che mostra sfidando i proiettili nemici in battaglia. Il guerrigliero di città si applica allo studio metodico delle abitudini dell’avversario da colpire: più che lo slancio ardimentoso gli serve sangue freddo e la resistenza alla tensione nervosa per le attese, per la prospettiva della tortura, per la solitudine. Bersaglio degli attentati sono le truppe tedesche e i gerarchi della Rsi, le spie e i collaborazionisti: più che sul campo di battaglia, i nemici vengono colpiti mentre sono al cinema, al ristorante, al bordello, mentre escono di casa o vi fanno ritorno.

I gappisti vivono – o almeno dovrebbero vivere – in perfetta clandestinità, separati e sconosciuti alla classe operaia da cui in generale provengono; non hanno volto né nome, non hanno vita collettiva e dimensione sociale; i pochi tra di loro che assurgono al ruolo di eroi eponimi della guerra di Liberazione escono dall’anonimato in virtù di una morte atroce che sopraggiunge quasi sempre a pochi mesi dal passaggio alla clandestinità. Sono «soldati senza uniforme», secondo la celebre definizione di Giovanni Pesce, non hanno né divisa né distintivi; nemmeno i loro bersagli, a volte, sono armati.


Tratto da Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Torino 2014

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Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Nelle città si trova la direzione politico-militare della guerra di Liberazione.

b) I Gruppi di azione patriottica occupano un posto marginale nella memoria collettiva e nella storiografia della Resistenza.

c) L’interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repubblica sociale italiana come guerra civile ha incontrato ostilità e reticenza.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

Il dramma della guerra civile

La guerra partigiana tra città e montagna

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
Cooperative Learning

Durante la Resistenza fu fatto copioso uso di volantini. Si trovano volantini prodotti dai Gruppi di difesa della donna, dal Fronte della gioventù e dal Comitato segreto di agitazione, altri rivolti agli sfollati, a vari gruppi sociali e a singole categorie di lavoratori, firmati con le sigle più varie.


In uno di questi, emanato dal Gap di Firenze e rivolto ai “fascisti assassini”, emergono entrambi i temi proposti dai saggi di Pavone e Peli.


Dividiamo la classe in gruppi con la guida dell’insegnante e analizziamo il documento alla luce della lettura dei due brani di storiografia. Ciascun gruppo predispone in massimo 20 minuti una scheda di analisi della fonte da cui emergano: destinatari – messaggio – stile e registro.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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