Christopher R. Browning - Il ruolo di uomini comuni nello sterminio degli ebrei

testo 1
Christopher R. Browning 

Il ruolo di uomini comuni nello sterminio degli ebrei

Nonostante l’impatto invasivo della propaganda nazista, e l’organizzazione gerarchica di Ss e Wehrmacht, i membri delle unità speciali dedite allo sterminio degli ebrei agirono per scelta individuale, e non a causa di ordini superiori.

Perché la maggior parte dei poliziotti del 101 si trasformarono in assassini, mentre solo una minoranza – forse il 10 per cento, e comunque non più del 20 per cento – non lo fece? Per spiegare comportamenti simili, le ricerche condotte in passato hanno chiamato in causa numerosi fattori: abbrutimento dovuto alla guerra, razzismo, divisione del lavoro e routine, selezione speciale degli esecutori, carrierismo, obbedienza agli ordini, deferenza verso l’autorità, indottrinamento ideologico e conformismo. Tutti questi fattori hanno un loro ruolo, ma nessuno si impone a livello assoluto.

[...]

Gli ordini ricevuti sono, naturalmente, la spiegazione più comunemente addotta dagli esecutori per giustificare il proprio comportamento. La cultura politica autoritaria della dittatura nazista ferocemente intollerante del dissenso, unita alla necessità di obbedienza agli ordini e alle impietose regole della disciplina, creavano una situazione in cui l’individuo non aveva scelta; gli ordini erano ordini, e nessuno in quel clima politico poteva arrischiarsi a disobbedirli: ciò avrebbe comportato la deportazione in campo di concentramento, quando non la morte immediata, magari per tutta la propria famiglia; gli esecutori si erano trovati in una situazione estremamente « coercitiva», e non potevano dunque essere considerati responsabili delle loro azioni. Questo è il ritornello ripetuto instancabilmente dagli imputati nei processi tedeschi del dopoguerra.

Ma una tale spiegazione presenta un problema generale: in più di quarantacinque anni di processi, nessun avvocato difensore o imputato ha potuto mai documentare un singolo caso in cui il rifiuto di obbedire all’ordine di uccidere un civile inerme sia stato inevitabilmente seguito dalla punizione capitale. La sanzione o il biasimo che talvolta colpivano il disubbidiente non erano comunque mai commisurati alla gravità dei crimini che gli si era ordinato di commettere.

Prima di penetrare in territorio sovietico, gli Einsatzgruppen1 furono sottoposti a due mesi di addestramento. Per la loro preparazione si organizzarono tra l’altro visite e conferenze di vari luminari delle Ss, che tennero una serie di discorsi sull’imminente «guerra di distruzione». Quattro giorni prima dell’invasione, gli ufficiali vennero convocati a Berlino per una riunione ristretta con Reinhard Heydrich2 in persona. In breve, non si risparmiarono energie per preparare i futuri esecutori dei massacri. Anche i membri dei battaglioni di polizia che seguirono gli Einsatzgruppen in Russia nell’estate del 1941 erano in parte preparati al compito che li attendeva: sapevano dell’ordine segreto di esecuzione dei comunisti catturati (il cosiddetto «ordine relativo ai commissari politici») e del trattamento da riservare alla popolazione. Alcuni comandanti di battaglione cercarono di infervorare le truppe con appositi discorsi, come fecero Daluege e Himmler nel corso delle loro visite. Per contro, gli ufficiali e gli uomini del 101 apparvero singolarmente impreparati e sorpresi di fronte al compito loro affidato.

In sintesi, i membri del 101, come il resto della società tedesca, erano immersi in un diluvio di propaganda razzista e antisemita. Inoltre, l’Ordnungspolizei3 provvedeva all’indottrinamento tramite l’addestramento iniziale e la normale attività pratica all’interno di ogni unità. La continua propaganda servì indubbiamente ad alimentare il senso di superiorità razziale tedesca e «una certa avversione» verso gli ebrei. Tuttavia, gran parte del materiale propagandistico non era destinato ai riservisti più anziani; in alcuni casi era addirittura inadatto o estraneo a loro. Inoltre, la documentazione che ci è pervenuta non contiene alcun testo specificamente ideato per preparare i poliziotti al compito di uccidere gli ebrei. Bisognerebbe essere molto convinti dei poteri manipolanti dell’indottrinamento per credere che i materiali sinora esaminati potessero togliere agli uomini del 101 qualsiasi capacità di giudizio.

[...]

Le vicende del Battaglione 101 suscitano innanzitutto un grande disagio. La storia di questi uomini comuni non è la storia di tutti gli uomini: i riservisti affrontarono delle scelte, e gran parte di essi commisero orribili crimini. Ma coloro che uccisero non possono essere assolti sulla base dell’assunto che chiunque, in quella situazione, avrebbe fatto lo stesso: anche fra i poliziotti ci fu chi rifiutò di uccidere, e chi abbandonò i plotoni di esecuzione. La responsabilità umana è, in ultima analisi, una questione individuale.

Nel contempo, il comportamento collettivo del Battaglione 101 ha implicanze assai allarmanti. Ci sono molte società afflitte da tradizioni di razzismo e ossessionate dalla mentalità o dalla minaccia di guerra; ovunque la società spinge gli individui a rispettare e a ossequiare l’autorità, ed è difficile che funzioni altrimenti; ovunque le persone aspirano a un avanzamento di carriera. In ogni società moderna, la complessità della vita, con la burocratizzazione e la specializzazione che ne conseguono, attenuano il senso di responsabilità personale di coloro che realizzano le direttive ufficiali. All’interno di ogni collettività sociale, il gruppo di riferimento esercita pressioni spaventose sul comportamento e stabilisce le norme morali. Se in circostanze analoghe gli uomini del 101 divennero assassini, quale gruppo umano può reputarsi immune da un tale rischio?


Tratto da Uomini comuni: polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Einaudi, Torino 1995

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testo 2
Jan T. Gross 

I vicini come assassini: un pogrom di ebrei in Polonia

Nel caotico contesto della Seconda guerra mondiale, in Polonia le popolazioni locali spesso colsero l’occasione per esprimere vecchi pregiudizi e rancori, regolare conti privati, scatenare forze represse contro gli ebrei per eliminarli e appropriarsi dei loro beni.

L’Europa del XX secolo è stata plasmata in modo decisivo dall’azione di due uomini: Adolf Hitler e Iosif Stalin. Il totalitarismo, forse non nella sua concezione ma certamente nella sua attuazione più radicale, è figlio loro. La perdita di vite umane di cui si sono resi entrambi responsabili ha dell’incredibile. Se tuttavia si vuole misurare la reale portata distruttiva del totalitarismo bisogna considerare non i fatti accaduti, ma i fatti cui non è stato permesso di accadere o, come ha detto qualcuno, «il corpus dei libri non scritti»: l’insieme dei pensieri non pensati, dei sentimenti non provati, delle opere mai compiute, delle vite mai vissute fino al loro termine naturale.

A paralizzare le società cadute vittime dei regimi totalitari non furono soltanto gli obiettivi di questi ultimi, ma anche i loro metodi. Tra i più pervasivi vi fu l’istituzionalizzazione del rancore. I sudditi di Hitler e di Stalin furono a più riprese aizzati gli uni contro gli altri e incoraggiati ad agire in base ai più ignobili istinti di ostilità reciproca. Ogni motivo di discordia sociale finiva per essere sfruttato, ogni antagonismo finiva per essere esasperato. Prima o poi le città venivano messe contro le campagne, gli operai contro i contadini, i contadini benestanti contro i contadini poveri, i figli contro i genitori, i giovani contro i vecchi, i vari gruppi etnici gli uni contro gli altri. La polizia segreta incoraggiava le delazioni1 e su di esse prosperava: divide et impera a tutti i livelli. Inoltre, in seguito alla mobilitazione sociale e alla partecipazione di massa a istituzioni e rituali promossi dallo Stato, la gente divenne in vario grado corresponsabile della propria sudditanza.

Nei territori conquistati, poi, i responsabili del totalitarismo imposero un nuovo modello di occupazione, in conseguenza del quale, come ha scritto Hannah Arendt2, «i primi complici e i migliori aiutanti dei nazisti non sapevano in realtà né che cosa stessero facendo né con chi avessero a che fare». Le lingue europee erano sprovviste di un vocabolo che definisse questo tipo di relazione. L’uso della parola «collaborazione» nella specifica accezione di alleanza moralmente censurabile con il nemico risale proprio alla Seconda guerra mondiale. Scontri armati, conquiste, guerre, occupazioni, dominazioni, allargamenti territoriali sono vecchi come la storia dell’umanità; quale fu allora, nel fenomeno dell’occupazione tedesca durante la Seconda guerra mondiale, la novità che portò alla nascita di un nuovo concetto? Per dare una risposta esauriente a questo interrogativo, bisognerebbe passare in rassegna i molti studi dedicati ai regimi d’occupazione tedeschi.

A fatti avvenuti l’opinione pubblica di tutta Europa manifestò la sua ripugnanza per ogni forma di collaborazione con i nazisti (una reazione certo non sempre sincera e disinteressata). «È quasi impossibile calcolare il numero complessivo delle persone condannate nel dopoguerra, ma anche in base alle stime più prudenti esse ammontano a diversi milioni, pari al 2 o al 3 per cento della popolazione un tempo sotto occupazione tedesca» scrive Istvan Deák3 in un recente studio. «Le pene inflitte ai colpevoli andarono dai linciaggi degli ultimi mesi di guerra alle condanne a morte, le carcerazioni e i lavori forzati del dopoguerra. In aggiunta a queste dure punizioni c’erano la condanna al disonore dinanzi alla nazione, la perdita dei diritti civili e/o sanzioni pecuniarie, oltre a provvedimenti amministrativi come l’espulsione, la sorveglianza da parte della polizia, la perdita del diritto a viaggiare o a vivere in luoghi piacevoli, il licenziamento e la perdita del diritto alla pensione.» Per citare il toccante quaderno praghese di Heda Kovàly4: «Questa guerra non ha risparmiato quasi nessuno».

[...]

Se il nucleo più recondito del progetto nazista di cancellare l’ebraismo dalla faccia della terra è destinato a rimanere un mistero, sui vari meccanismi della «Soluzione finale» sappiamo molte cose. E una delle cose che sappiamo è che gli Einsatzgruppen, i reparti della polizia tedesca e i vari funzionari che misero in atto la «soluzione finale» non forzarono la popolazione locale a partecipare direttamente all’eliminazione degli ebrei. I pogrom cruenti furono tollerati, e solo a volte anche sollecitati, specialmente dopo lo scoppio del conflitto tra la Germania e l’Urss: a tale riguardo il capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, Reinhardt Heydrich, diramò una direttiva speciale. Fu disposta anche una serie di divieti concernenti gli ebrei: nella Polonia occupata, per esempio, la popolazione, pena la morte, non poteva prestare soccorso agli ebrei che si nascondevano fuori dai ghetti creati dai tedeschi. Ma anche se in certi casi, specialmente nei campi di prigionia, qualche sadico poteva costringere i prigionieri a uccidersi tra loro, in generale nessuno fu costretto ad assassinare gli ebrei. In altre parole, la cosiddetta popolazione locale coinvolta nelle stragi di ebrei agì di propria volontà.

E se questo fenomeno (cioè il fatto che la popolazione polacca uccise gli ebrei volontariamente e non perché costretta) si è scolpito nella memoria collettiva ebraica, allora gli ebrei non potranno non considerare questa gente particolarmente colpevole per ciò che ha commesso. Un assassino in divisa resta un funzionario statale che obbedisce a degli ordini. Si può anche ipotizzare che nutra qualche riserva mentale su ciò che gli è stato comandato di fare. Ma nel caso di un civile che uccide un altro essere umano di propria spontanea volontà le cose stanno ben diversamente: un individuo del genere è indiscutibilmente un assassino.

Durante la guerra i polacchi infierirono sugli ebrei in molti modi, e non soltanto con i massacri di cui la gente ci ha trasmesso vivida memoria. A titolo esemplificativo possiamo ricordare il gruppetto di donne che viene descritto nel frammento autobiografico Un quarto d’ora in pasticceria dell’intenso libro di memorie di Michał Głowiński, uno dei maggiori critici letterari polacchi dei nostri giorni. Nell’episodio in questione Głowiński, che all’epoca dell’occupazione tedesca era un ragazzino, viene lasciato solo in un caffè di Varsavia per quindici minuti da una zia. Quest’ultima lo fa accomodare con un dolce a un tavolo ed esce per fare una telefonata. Appena la zia lascia il locale, il piccolo ebreo viene notato da un gruppetto di donne, che si mettono a osservarlo e a interrogarlo e non lo lasciano più in pace. Tra questo episodio e la strage di Jedwabne5 si apre un ampio spettro di scontri tra polacchi ed ebrei, segnato, pur nella varietà delle situazioni, da un elemento comune: in tutti i casi per gli ebrei si prospettavano conseguenze potenzialmente fatali.

Nella nostra riflessione su quel periodo, dobbiamo evitare di chiamare in causa la responsabilità collettiva. Dobbiamo essere sufficientemente lucidi da ricordare che ogni delitto ha il suo specifico responsabile, sia esso un singolo assassino o un gruppo di assassini. E tuttavia possiamo avvertire il bisogno di comprendere che cosa renda una nazione (per esempio «i tedeschi») capace di compiere simili delitti. A meno che le atrocità non debbano semplicemente essere messe tra parentesi e dimenticate: ma è lecito prendere arbitrariamente dal patrimonio nazionale ciò che ci piace e farlo nostro escludendo tutto il resto? E per converso: se ciò che cementa un popolo è un’affinità spirituale (penso a certo orgoglio nazionale radicato in esperienze storiche condivise da più generazioni), tale popolo non condivide allora, in un modo o nell’altro, anche la responsabilità delle atrocità perpetrate da singoli membri della «comunità ideale»? Può forse un giovane tedesco che oggi si trovi a riflettere sul senso della propria identità nazionale saltare a piè pari dodici anni (1933-45) della storia del suo paese e dei suoi padri?


Tratto da I carnefici della porta accanto: 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002

 >> pagina 392
Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) I riservisti affrontarono delle scelte, e commisero orribili crimini.

b) Il gruppo di riferimento esercita pressioni spaventose sul comportamento e stabilisce le norme morali.

c) I responsabili del totalitarismo imposero un nuovo modello di collaborazione.

d) La popolazione locale coinvolta nelle stragi di ebrei agì di propria volontà.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

Il ruolo di uomini comuni nello sterminio degli ebrei

I vicini come assassini: un progrom di ebrei in Polonia

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
Dal dibattito storiografico al DEBATE

Al termine del brano tratto dal volume I carnefici della porta accanto, Gross, arrivando a conclusioni analoghe a quelle di Browning rispetto al rischio delle comunità di macchiarsi di crimini atroci, si chiede: «Se ciò che cementa un popolo è un’affinità spirituale […] tale popolo non condivide allora, in un modo o nell’altro, anche la responsabilità delle atrocità perpetrate da singoli membri della «comunità ideale»? Può forse un giovane tedesco che oggi si trovi a riflettere sul senso della propria identità nazionale saltare a piè pari dodici anni (1933-45) della storia del suo paese e dei suoi padri?». Queste domande sollevano le questioni della “colpa” e della “responsabilità” di una comunità/popolo nei confronti del proprio passato.


a) Creazione dei gruppi di lavoro La classe si divide in due gruppi che sostengono tesi opposte:

Le responsabilità di una comunità…

Gruppo 1: … perdurano anche dopo la scomparsa dei soggetti direttamente coinvolti.

Gruppo 2: … si esauriscono con la scomparsa dei soggetti direttamente coinvolti.


b) competenza DIGITALE Laboratorio di ricerca a casa e in classe In classe si propone la lettura del lemma “Responsabilità” dell’Enciclopedia online Treccani (https://gtvp.it/storia3-ps04). In seguito, all’interno di ciascun gruppo, con la guida dell’insegnante, vengono raccolte informazioni a sostegno delle proprie posizioni. Si presti particolare attenzione all’analisi del tema della colpa portata avanti da Jaspers e da Harendt. «Dinanzi al “mostruoso” messo in atto dai regimi totalitari non si tratta per Jaspers (1946) di individuare soltanto dei responsabili, ma è necessario risalire alla “colpa metafisica” che investe e richiama continuamente gli individui alla corresponsabilità verso quanto attiene alla vita umana, continuamente esposta al rischio di scivolare nel “mostruoso”».


c) Preparazione di argomentazioni e controargomentazioni Ciascun gruppo prepara le proprie argomentazioni e riflette sulle possibili repliche alle tesi del gruppo antagonista. Possono essere richiamate in via esemplificativa le argomentazioni utilizzate dagli storici dei brani presenti nel percorso.


d) Dibattito Ciascun gruppo sceglie uno o più relatori che espongano almeno tre argomentazioni a favore della propria tesi, sostenendole con prove della loro validità (esempi, analogie, fatti concreti, dati statistici, opinioni autorevoli, principi universalmente riconosciuti, ecc.). In seguito, ciascun gruppo espone le controargomentazioni rispetto alle argomentazioni antagoniste. Con la guida dell’insegnante si conclude il dibattito con la sintesi e il bilanciamento delle posizioni.

 >> pagina 393 

percorso 5

Resistenza, guerra civile e violenza

A lungo la politica e la cultura che si riconoscevano nell’antifascismo si rifiutarono di definire il periodo in cui fu combattuta la Resistenza “una guerra civile”. L’idea di una guerra tra italiani sembrava sminuire il valore ideologico e pedagogico della visione della guerra tra antifascisti e fascisti, equiparando gli uni agli altri. Con la sua fondamentale opera pubblicata per la prima volta nel 1991, lo storico Claudio Pavone, che aveva combattuto la Resistenza da giovane, parlò delle “tre guerre” che avevano caratterizzato il periodo 1943-45: la guerra patriottica di liberazione, la guerra civile e la guerra di classe. Mentre Pavone tendeva ancora a distinguere nettamente violenza fascista e violenza antifascista, Santo Peli si è poi concentrato sul problema controverso della violenza antifascista, con particolare riferimento al terrorismo urbano praticato contro fascisti e tedeschi dai Gruppi armati patriottici (i Gap), legati al Partito comunista, sottolineandone la differenza con la lotta partigiana in montagna.

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Claudio Pavone 

Il dramma della guerra civile

Nonostante la reticenza, se non la vera e propria rimozione nei confronti del termine “guerra civile” che caratterizzò la memoria pubblica italiana nel lungo dopoguerra, l’idea della Resistenza come guerra di liberazione patriottica o come lotta di classe non può essere disgiunta dall’esperienza e dalla percezione del conflitto tra italiani, che lacerò drammaticamente la comunità nazionale tra il 1943 e il 1945.

L’interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repubblica sociale italiana come guerra civile ha incontrato da parte degli antifascisti, almeno fino a questi ultimissimi tempi, ostilità e reticenza, tanto che l’espressione ha finito con l’essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti, che l’hanno provocatoriamente agitata contro i vincitori. La diffidenza degli antifascisti ne è risultata accresciuta, alimentata dal timore che parlare di guerra civile conduca a confondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione. In realtà mai come nella guerra civile, che Concetto Marchesi1 chiamò «la più feroce e sincera di tutte le guerre», le differenze fra i belligeranti sono tanto nette e irriducibili e gli odi tanto profondi.

«Siamo quelli che hanno odiato di più», ha detto di recente un vecchio resistente.

Affermare che la Resistenza è anche guerra civile non significa andare alla ricerca di protagonisti che l’abbiano vissuta esclusivamente sotto quel profilo. Al contrario, significa sforzarsi di comprendere come i tre aspetti della lotta – patriottica, civile, di classe –, analiticamente distinguibili, abbiano spesso convissuto negli stessi soggetti individuali o collettivi. [...]

Una volta ridefinita, accanto alla figura del nemico tedesco, quella del nemico fascista, non sempre era sufficiente, per tenerle insieme, la categoria unificante del «nazifascista», pur sentita come realissima dalla generalità dei resistenti e non inficiata2 dal fatto che il fascista fosse servo del tedesco: non si trattava infatti di un servo occasionale, ma di un servo moralmente e politicamente consonante con il padrone.

Leggiamo ancora una volta una pagina di Fenoglio3, che, va ricordato, in un primo momento aveva dato a I ventitré giorni della città di Alba il titolo di Racconti della guerra civile. Così dialogano in essa due partigiani:

Dice Sandor: «Io coi tedeschi ce l’ho, è naturale che ce l’ho, per tante cose. Ma non c’è confronto con come ce l’ho coi fascisti. Per me sono loro la causa di tutto». Dice Ivan: «Questo è vero... ma che gente siamo noi italiani? Siamo in una guerra in cui si può far del male a tutti, si deve far del male a tutti, e noi ce lo facciamo soltanto fra noi. Cos’è questo? Vigliaccheria, cretina bontà, forse giustizia? Io non lo so. So solo che se noi di qua pigliamo un tedesco, invece di ammazzarlo finiamo per tenerlo come uno dei nostri. I fascisti di là, se beccano un inglese o un americano, qualche sfregio certo gli faranno, ma ammazzarlo non lo ammazzano. Ma se invece ci pigliamo tra noi, niente ti salva più, e se cerchiamo di spiegare che siamo fratelli ci ridiamo in faccia».

È un dialogo in cui l’affermazione, idealmente così netta e tante volte ripetuta, che si combatte il tedesco solo in quanto nazista e l’italiano solo in quanto fascista non riesce a contenere e a controllare tutte le emozioni e tutti i dubbi che suscita la guerra civile in rapporto a quella allo straniero. Non solo, ma affiora nelle parole di Beppe Fenoglio uno degli aspetti della guerra civile che genera maggiore turbamento.

La guerra civile viene in genere qualificata come «fratricida» da entrambe le parti per accrescerne l’orrore e far gravare sul nemico, additatone come l’unico responsabile, una più infamante condanna. Vi furono famiglie attraversate proprio al loro interno da scelte contrapposte. Ma è dalla categoria della fraternità estesa all’intera nazione che nasce con particolare forza la metafora del fratricidio. […] Nella pagina di Fenoglio sopra riportata, il fratricidio compare come un dato che porta a esasperare la lotta e che, al posto della reciproca pietà, genera lo scherno. Umberto Saba ha elevato quasi a canone interpretativo dell’intera storia italiana questo tema del fratricidio:

Gli Italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... «Combatteremo – fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto – fratelli contro fratelli» (favorito, non determinato dalle circostanze, fu un grido del cuore e grido di uno che – diventato chiaro a se stesso – finalmente si sfoghi). Gli Italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio.

Saba dimenticava Caino e Abele, Eteocle e Polinice, Fasolt e Fafner, e quant’altro farà scrivere a Hannah Arendt che tutta la storia umana «nasce dal fratricidio, qualsiasi organizzazione politica (…) ha le sue origini nel delitto». Ma Saba intendeva dare una motivazione profonda alla incapacità degli italiani, pur nel fiorire della lotta fratricida, di fare una vera rivoluzione, necessariamente parricida.


Tratto da Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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