L’Europa del XX secolo è stata plasmata in modo decisivo dall’azione di due uomini: Adolf Hitler e Iosif Stalin. Il totalitarismo, forse non nella sua concezione ma certamente nella sua attuazione più radicale, è figlio loro. La perdita di vite umane di cui si sono resi entrambi responsabili ha dell’incredibile. Se tuttavia si vuole misurare la reale portata distruttiva del totalitarismo bisogna considerare non i fatti accaduti, ma i fatti cui non è stato permesso di accadere o, come ha detto qualcuno, «il corpus dei libri non scritti»: l’insieme dei pensieri non pensati, dei sentimenti non provati, delle opere mai compiute, delle vite mai vissute fino al loro termine naturale.
A paralizzare le società cadute vittime dei regimi totalitari non furono soltanto gli obiettivi di questi ultimi, ma anche i loro metodi. Tra i più pervasivi vi fu l’istituzionalizzazione del rancore. I sudditi di Hitler e di Stalin furono a più riprese aizzati gli uni contro gli altri e incoraggiati ad agire in base ai più ignobili istinti di ostilità reciproca. Ogni motivo di discordia sociale finiva per essere sfruttato, ogni antagonismo finiva per essere esasperato. Prima o poi le città venivano messe contro le campagne, gli operai contro i contadini, i contadini benestanti contro i contadini poveri, i figli contro i genitori, i giovani contro i vecchi, i vari gruppi etnici gli uni contro gli altri. La polizia segreta incoraggiava le delazioni1 e su di esse prosperava: divide et impera a tutti i livelli. Inoltre, in seguito alla mobilitazione sociale e alla partecipazione di massa a istituzioni e rituali promossi dallo Stato, la gente divenne in vario grado corresponsabile della propria sudditanza.
Nei territori conquistati, poi, i responsabili del totalitarismo imposero un nuovo modello di occupazione, in conseguenza del quale, come ha scritto Hannah Arendt2, «i primi complici e i migliori aiutanti dei nazisti non sapevano in realtà né che cosa stessero facendo né con chi avessero a che fare». Le lingue europee erano sprovviste di un vocabolo che definisse questo tipo di relazione. L’uso della parola «collaborazione» nella specifica accezione di alleanza moralmente censurabile con il nemico risale proprio alla Seconda guerra mondiale. Scontri armati, conquiste, guerre, occupazioni, dominazioni, allargamenti territoriali sono vecchi come la storia dell’umanità; quale fu allora, nel fenomeno dell’occupazione tedesca durante la Seconda guerra mondiale, la novità che portò alla nascita di un nuovo concetto? Per dare una risposta esauriente a questo interrogativo, bisognerebbe passare in rassegna i molti studi dedicati ai regimi d’occupazione tedeschi.
A fatti avvenuti l’opinione pubblica di tutta Europa manifestò la sua ripugnanza per ogni forma di collaborazione con i nazisti (una reazione certo non sempre sincera e disinteressata). «È quasi impossibile calcolare il numero complessivo delle persone condannate nel dopoguerra, ma anche in base alle stime più prudenti esse ammontano a diversi milioni, pari al 2 o al 3 per cento della popolazione un tempo sotto occupazione tedesca» scrive Istvan Deák3 in un recente studio. «Le pene inflitte ai colpevoli andarono dai linciaggi degli ultimi mesi di guerra alle condanne a morte, le carcerazioni e i lavori forzati del dopoguerra. In aggiunta a queste dure punizioni c’erano la condanna al disonore dinanzi alla nazione, la perdita dei diritti civili e/o sanzioni pecuniarie, oltre a provvedimenti amministrativi come l’espulsione, la sorveglianza da parte della polizia, la perdita del diritto a viaggiare o a vivere in luoghi piacevoli, il licenziamento e la perdita del diritto alla pensione.» Per citare il toccante quaderno praghese di Heda Kovàly4: «Questa guerra non ha risparmiato quasi nessuno».
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Se il nucleo più recondito del progetto nazista di cancellare l’ebraismo dalla faccia della terra è destinato a rimanere un mistero, sui vari meccanismi della «Soluzione finale» sappiamo molte cose. E una delle cose che sappiamo è che gli Einsatzgruppen, i reparti della polizia tedesca e i vari funzionari che misero in atto la «soluzione finale» non forzarono la popolazione locale a partecipare direttamente all’eliminazione degli ebrei. I pogrom cruenti furono tollerati, e solo a volte anche sollecitati, specialmente dopo lo scoppio del conflitto tra la Germania e l’Urss: a tale riguardo il capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, Reinhardt Heydrich, diramò una direttiva speciale. Fu disposta anche una serie di divieti concernenti gli ebrei: nella Polonia occupata, per esempio, la popolazione, pena la morte, non poteva prestare soccorso agli ebrei che si nascondevano fuori dai ghetti creati dai tedeschi. Ma anche se in certi casi, specialmente nei campi di prigionia, qualche sadico poteva costringere i prigionieri a uccidersi tra loro, in generale nessuno fu costretto ad assassinare gli ebrei. In altre parole, la cosiddetta popolazione locale coinvolta nelle stragi di ebrei agì di propria volontà.
E se questo fenomeno (cioè il fatto che la popolazione polacca uccise gli ebrei volontariamente e non perché costretta) si è scolpito nella memoria collettiva ebraica, allora gli ebrei non potranno non considerare questa gente particolarmente colpevole per ciò che ha commesso. Un assassino in divisa resta un funzionario statale che obbedisce a degli ordini. Si può anche ipotizzare che nutra qualche riserva mentale su ciò che gli è stato comandato di fare. Ma nel caso di un civile che uccide un altro essere umano di propria spontanea volontà le cose stanno ben diversamente: un individuo del genere è indiscutibilmente un assassino.
Durante la guerra i polacchi infierirono sugli ebrei in molti modi, e non soltanto con i massacri di cui la gente ci ha trasmesso vivida memoria. A titolo esemplificativo possiamo ricordare il gruppetto di donne che viene descritto nel frammento autobiografico Un quarto d’ora in pasticceria dell’intenso libro di memorie di Michał Głowiński, uno dei maggiori critici letterari polacchi dei nostri giorni. Nell’episodio in questione Głowiński, che all’epoca dell’occupazione tedesca era un ragazzino, viene lasciato solo in un caffè di Varsavia per quindici minuti da una zia. Quest’ultima lo fa accomodare con un dolce a un tavolo ed esce per fare una telefonata. Appena la zia lascia il locale, il piccolo ebreo viene notato da un gruppetto di donne, che si mettono a osservarlo e a interrogarlo e non lo lasciano più in pace. Tra questo episodio e la strage di Jedwabne5 si apre un ampio spettro di scontri tra polacchi ed ebrei, segnato, pur nella varietà delle situazioni, da un elemento comune: in tutti i casi per gli ebrei si prospettavano conseguenze potenzialmente fatali.
Nella nostra riflessione su quel periodo, dobbiamo evitare di chiamare in causa la responsabilità collettiva. Dobbiamo essere sufficientemente lucidi da ricordare che ogni delitto ha il suo specifico responsabile, sia esso un singolo assassino o un gruppo di assassini. E tuttavia possiamo avvertire il bisogno di comprendere che cosa renda una nazione (per esempio «i tedeschi») capace di compiere simili delitti. A meno che le atrocità non debbano semplicemente essere messe tra parentesi e dimenticate: ma è lecito prendere arbitrariamente dal patrimonio nazionale ciò che ci piace e farlo nostro escludendo tutto il resto? E per converso: se ciò che cementa un popolo è un’affinità spirituale (penso a certo orgoglio nazionale radicato in esperienze storiche condivise da più generazioni), tale popolo non condivide allora, in un modo o nell’altro, anche la responsabilità delle atrocità perpetrate da singoli membri della «comunità ideale»? Può forse un giovane tedesco che oggi si trovi a riflettere sul senso della propria identità nazionale saltare a piè pari dodici anni (1933-45) della storia del suo paese e dei suoi padri?
Tratto da I carnefici della porta accanto: 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002