3. Crisi della democrazia o età del fascismo?

percorso 3

Crisi della democrazia o età del fascismo?

L’Europa tra le due guerre mondiali, ma soprattutto negli anni Trenta, è considerata dalla storiografia il teatro di una serie di crisi profonde e di conflitti sociali e politici radicali, capaci di scuotere le fondamenta stesse della civile convivenza. Tuttavia, già i contemporanei avevano proposto e discusso interpretazioni diverse degli eventi in corso, che sono state poi rielaborate e raffinate dagli storici. Lo storico tedesco, George Mosse, emigrato negli Stati Uniti per le persecuzioni naziste, ha aperto la strada a una riconsiderazione del fascismo come fenomeno insieme politico e culturale, capace di mobilitare ed entusiasmare le masse e di dare una risposta popolare, ma alternativa alla democrazia liberale. Lo storico britannico Mark Mazower, specialista di storia della Grecia e dell’Europa, ha invece spostato l’attenzione sulla cronica instabilità dei governi democratici e sulla strutturale inefficienza dei sistemi parlamentari degli anni Venti e Trenta come origini di una crisi che le destre radicali cercarono di risolvere, ricollegandosi a lunghe tradizioni antiliberali, antiparlamentari, nazionaliste e razziste che provenivano dall’Ottocento.

testo 1
George L. Mosse

La democrazia di massa e l’ascesa dei regimi totalitari

Ben lungi dal ridursi a fenomeni di mera violenza, i regimi fascisti furono capaci di mobilitare un reale consenso popolare, richiamandosi a una concezione pur distorta e sfigurata di democrazia che traeva alimento da una lunga e radicata tradizione di antiparlamentarismo e di antiliberalismo.

Per elaborare una teoria generale del fascismo ci conviene partire dalla critica dei tentativi compiuti in passato. Alcuni storici hanno scorto uno stretto collegamento tra bolscevismo e fascismo.

Entrambi furono regimi totalitari e, come tali, furono dittature basate sulla pretesa esclusiva di egemonia da parte di un unico partito politico. Un’identificazione del genere, sebbene fosse spesso motivata, non era semplicemente frutto della Guerra fredda, come sostenevano i suoi avversari.

Entrambi i movimenti si fondavano su un ideale, sia pure travisato, di sovranità popolare. Ciò implicava il rifiuto del governo parlamentare e delle istituzioni rappresentative in nome di una democrazia delle masse, in cui il popolo si sarebbe governato direttamente. Il capo era il simbolo del popolo, esprimeva la «volontà generale»: ma una simile democrazia comportava che, al posto delle assemblee rappresentative, una nuova religione laica facesse da tramite tra popolo e capi, fornendo nello stesso tempo uno strumento di controllo sociale sulle masse. Tale strumento si rivelava sul piano pubblico mediante cerimonie ufficiali, feste e non ultimo un linguaggio di immagini, sul piano privato per mezzo del controllo di ogni aspetto della vita secondo le imposizioni del singolo partito politico. Questo sistema era comune, a diversi livelli, al movimento fascista e a quello bolscevico. [...]

Le teorie relative al totalitarismo hanno indebitamente messo in evidenza il culto del comando apparentemente monolitico, che anche in questo caso venne introdotto nell’Unione Sovietica da Stalin e non da Lenin. Anche nell’ambito del fascismo il culto del capo si differenziava: Piero Melograni1 ha scritto al riguardo che il culto per il «duce» e quello per il fascismo non erano identici, aggiungendo che fu il «mussolinismo» a conquistare il consenso del popolo. In Germania invece non si vede alcuna differenza tra hitlerismo e nazionalsocialismo.

Più grave è l’assunto, comune alla maggior parte delle teorie relative al totalitarismo, secondo cui il capo manovra le masse mediante la propaganda e il terrore: il libero atto di volontà sarebbe incompatibile con la prassi totalitaria. Il termine «propaganda», usato sempre in questo contesto, induce a fraintendere i culti fascisti e il loro carattere essenzialmente organico e religioso. In tempi di crisi essi fornirono a svariati milioni di persone l’occasione di un impegno più significativo di quello consentito dal sistema rappresentativo parlamentare, in gran parte perché essi non erano di per sé un fenomeno nuovo, ma si basavano invece su una tradizione più antica e tuttora viva di democrazia popolare, che si era sempre opposta ai parlamenti europei.

[...]

Con tutti questi avvertimenti, va comunque detto che sia i bolscevichi che i fascisti si spinsero indietro nelle tradizioni antiparlamentari e antipluralistiche dell’Ottocento, allo scopo di far fronte al crollo delle strutture sociali, economiche e politiche delle loro nazioni durante e dopo la Prima guerra mondiale. Il totalitarismo era nuovo soltanto come forma di governo legittimo, aveva alle spalle una lunga tradizione, altrimenti non avrebbe ricevuto un’adesione di massa così immediata. Iniziando la sua storia moderna con la Rivoluzione francese, quella tradizione continuò a pervadere sia il nazionalismo, sia la ricerca di giustizia sociale dell’Ottocento. Anche se il concetto di «democrazia totalitaria»2 formulato da Jacob Talmon3 si fonda, come alcuni hanno asserito, su una errata interpretazione dell’Illuminismo, uomini come Robespierre4 e Saint-Just5 parteciparono a malintesi del genere. La «volontà generale» di Rousseau6, la sua esaltazione del «popolo», furono applicate dai giacobini a una dittatura in cui il popolo adorava se stesso tramite feste pubbliche e simboli (per esempio, quello della dea Ragione), in cui l’entusiasmo religioso era trasferito sui riti civili.

[...]

Bolscevismo e fascismo cercarono dunque di mobilitare le masse, di sostituire la moderna politica di massa alla forma di governo pluralistica e parlamentare. A dire il vero, il governo parlamentare ebbe difficoltà a tener testa alla crisi mondiale del dopoguerra, e quindi abdicò senza battersi, non solo in Germania e in Italia ma anche in Portogallo e, dove era esistito subito dopo la guerra, nelle nazioni dell’Europa orientale. I fascisti agevolarono la morte del governo parlamentare, ma il fatto che esso soccombesse in così poco tempo sta a dimostrare la presenza di problemi strutturali e ideologici intrinseci, sebbene, peraltro, pochi governi rappresentativi abbiano veramente resistito alle pressioni delle moderne crisi economiche, politiche e sociali, specie quando queste ultime hanno coinciso con la sconfitta in guerra e con insoddisfatte aspirazioni nazionalistiche. I governi totalitari del periodo tra le due guerre, ovunque andassero al potere, fecero semplicemente cadere regimi ormai esauriti, il che è valido sia per la Russia, che per la Germania e l’Italia. Ma a differenza del bolscevismo, il fascismo non dovette mai scatenare una guerra civile per farsi strada fino al potete: Mussolini effettuò la marcia su Roma su una comoda carrozza ferroviaria, mentre Hitler si limitò a presentarsi al presidente tedesco.


Tratto da Il fascismo. Verso una teoria generale, Laterza, Roma-Bari 1996

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testo 2
Mark Mazower 

Critica e crisi delle democrazie parlamentari

Dopo che la fine della Grande guerra aveva portato all’affermazione di sistemi costituzionali e democratici in Europa, gli anni Venti e soprattutto Trenta furono segnati da una critica radicale della democrazia e delle culture liberaldemocratiche, che alimentarono disfunzioni e crisi dei parlamenti e delle istituzioni liberali.

«Il motivo per cui nascono i “fascismi”», scrisse un critico francese, «è il fallimento politico e sociale della democrazia liberale». Gli autori di Fascism for Whom?1 (1938) la misero in modo più semplice: «Il fascismo è stato il prodotto del decadimento democratico». Un decadimento quasi sempre addebitato all’esistenza stessa del parlamento. Per molti europei, le radici della fioritura di dittatura postbellica andavano individuate «nella crisi del governo parlamentare così come oggi è esercitato».

La rappresentanza proporzionale – come alcuni critici avevano ammonito sin dall’inizio – produsse parlamenti frammentati e il fiorire di un gran numero di partiti. Un sistema ideato allo specifico fine di riflettere la volontà popolare rivelò la propria inefficacia in un guazzabuglio di differenze di classe, etniche e religiose. E così, ad esempio, sedici partiti conquistarono seggi nel parlamento tedesco alle elezioni del 1930, diciannove alle elezioni del 1929 in Cecoslovacchia, mentre in Lettonia, Estonia e Polonia il loro numero fu a volte anche superiore. Secondo Cambo2, «il più alto livello di inefficienza del parlamento italiano coincise con l’applicazione del sistema di... rappresentanza proporzionale», che egli descrisse come «uno dei motivi più evidenti del successo della rivoluzione fascista». [...]

In conseguenza della molteplicità di contrapposti interessi di partito, la formazione dei governi divenne una faccenda sempre più complicata. Dopo il 1918 non vi fu praticamente nessun paese in Europa dove la durata media dei governi superasse un anno. In Germania e Austria la media era otto mesi, in Italia cinque, in Spagna, dopo il 1931, meno di quattro. Nella Terza Repubblica francese – modello inefficace di tante costituzioni esteuropee – la durata media dei governi scese da dieci mesi nel periodo 1870-1914 a otto nel 1914-32, a soli quattro nel 1932-40. Tale fenomeno rifletteva la pressoché universale mancanza di stabili legislature bipartitiche, o di partiti capaci di conquistare maggioranze assolute. «Ripristinare l’autorità dello Stato in una democrazia... sarà... il primo e più importante punto del nostro programma», annunciò Paul-Boncour3 nel dicembre del 1932. Il suo esecutivo cadde un mese dopo. Governi di questo tipo incontrarono ovviamente enormi difficoltà a promuovere le riforme socioeconomiche promesse nelle rispettive Costituzioni e programmi di partito.

L’impasse legislativa sollevò la richiesta di un rafforzamento dell’esecutivo. A Bruxelles, il Centre d’Études pour la Réforme et l’État4 esercitò forti pressioni per una modifica della procedura parlamentare; «Réforme de l’État»5 divenne uno slogan popolare nella politica belga. Il premier cecoslovacco Beneš predisse correttamente che una volta risolta la crisi europea ci sarebbe certamente stato «un rafforzamento e consolidamento del potere esecutivo rispetto alle ultime fasi della democrazia costituzionale liberale europea». Né in Cecoslovacchia né altrove tale dibattito sarebbe stato dimenticato dopo il 1945.

Revisioni costituzionali volte a rafforzare i poteri dell’esecutivo furono di fatto approvate in Polonia e Lituania (nel 1926 e 1935), Austria (1929) ed Estonia (1933 e 1937). La costituzione spagnola del 1931 – la più moderna nell’Europa interbellica – prevedeva la possibilità di delega all’esecutivo di sostanziali poteri legislativi. Molti, tuttavia, temevano che tali misure si sarebbero dimostrate – come accadde, ad esempio, in Polonia sotto Piłsudski6 – un passo verso la dittatura anziché una salvaguardia per la democrazia. «Dobbiamo difendere la democrazia», affermò l’illustre esponente liberale francese Victor Basch alla Società dei diritti dell’uomo nel maggio del 1934. «Non accetteremo che il parlamento venga esautorato, così come non accetteremo questi decreti legge che possono anche essere costituzionali, ma che sono contrari ai princìpi stessi della democrazia».

Proprio qui si coglie con evidenza lo scontro tra, da un lato, i democratici liberali che vedevano «nel Potere un nemico che non può mai essere indebolito abbastanza» e, dall’altro, i costituzionalisti più pragmatici i quali sostenevano che in una crisi l’esecutivo dovesse ricorrere a tutti i poteri costituzionali disponibili per preservare la sostanza della democrazia. Uno scontro che in nessun altro paese ebbe implicazioni così profonde come nella Germania di Weimar.

[...]

I parlamenti non erano l’unico oggetto di controversia; la democrazia liberale era sotto tiro anche da un altro e ben più vasto fronte. In parole povere: quanto era democratica l’Europa del periodo interbellico? Giuristi delusi sostenevano che il problema non stesse in un eccesso di democraticismo delle costituzioni, ma piuttosto in un’assenza di valori democratici nell’opinione pubblica. Moritz Bonn7 espresse l’opinione di molti allorché affermò che dietro la crisi del parlamentarismo ci fosse «la crisi del modello di vita europeo».

Le dottrine antiliberali e antidemocratiche andavano guadagnando consensi sin dall’ultimo quarto del XIX secolo. Sull’onda della Grande guerra, si diffusero rapidamente attraverso un empito8 di violenza che ebbe nel movimento fascista la manifestazione più visibile ma che fu comune a molti membri di quella che uno storico di un’epoca successiva avrebbe definito la «generazione del 1914». Educati alla guerra, gli ideologi estremisti preferivano la violenza al raziocinio, l’azione alle parole: da Marinetti9 a Ernst Jünger10, negli anni ’20 molti giovani europei sembravano pronti a giustificare e addirittura a invocare la politica dello scontro. «Non si ottiene mai nulla senza spargimenti di sangue», scrisse il giovane esponente di destra francese Drieu la Rochelle in Le Jeune Européen11. «Anelo un bagno di sangue». La violenza ossessionò artisti di varie scuole, dagli espressionisti ai surrealisti. Alcuni studiosi rintracciano l’eredità lasciata dalla guerra nel clima di «guerra intestina» che lacerò la gran parte dei paesi europei e che acquisì una propria espressione giuridica nella concezione leninista di guerra civile interna e nello «stato di emergenza» nazista.

Tra i veterani del fronte c’erano pensatori come Jünger e politici di destra tra cui Röhm12, capo delle Sa (le Truppe d’assalto), Oswald Mosley13, il nazionalista fiammingo Joris van Severen, l’ungherese Ferenc Szálasi (fondatore del movimento estremista delle «Croci frecciate») e, soprattutto, lo stesso Hitler. Costoro si scagliarono contro la democrazia, che accusarono di essere «borghese»: indolente, materialistica, deprimente e incapace di conquistare le simpatie delle masse, riflesso delle aspirazioni di una generazione passata i cui politici portavano finanziera14 e cappello a tubo. Bertrand de Jouvenel15 sostenne che i giovani trovavano la democrazia poco affascinante; Henri de Montherlant16 contrappose lo «sguardo allampanato» del borghese sedentario al vigore fisico del disciplinato giovane autoritario, frutto della «rivoluzione del corpo» fascista. Giovani intellettuali romeni quali Emil Cioran17 e Mircea Eliade18 accolsero con entusiasmo l’attacco di Hitler al «razionalismo democratico» e l’energia del totalitarismo messianico e spirituale. Alla glorificazione liberale dell’individuo egoista contrapponevano spirito di sacrificio, obbedienza e senso del dovere comune.

[...]

Non sorprende dunque che negli anni ’30 molti si chiedessero perché mai ci si sarebbe dovuti attendere che la democrazia fiorisse in Europa. Tale atteggiamento ben si confaceva alla politica di acquiescenza perseguita dai britannici. «Forse il sistema di governo parlamentare che così ben si adatta alla Gran Bretagna confà a ben pochi altri paesi», sostenne il Times a difesa del non intervento in Spagna: «I recenti governi spagnoli hanno tentato di conformarsi alla democrazia repubblicana di tipo parlamentare, ma con scarso successo». Da tale punto di vista, la crisi della democrazia in Europa dimostrava semplicemente la superiorità della Gran Bretagna.

Ma non furono solo gli anticolonialisti britannici ad assumere tale posizione. Karl Loewenstein19 fu solo uno dei tanti a osservare quanto pochi fossero i paesi europei che vantavano una tradizione democratica autoctona e gli Stati i cui abitanti avevano una lunga tradizione di lotta per la conquista delle libertà popolari. La storia dell’Europa orientale non dimostrava forse che la democrazia era stato un regalo dell’ultim’ora – se non un’imposizione – da parte delle potenze vincitrici a Versailles, anziché il risultato di una mobilitazione popolare? Come sorprendersi dunque che la gente accettasse con tanta calma la perdita di qualcosa per la quale non aveva mai combattuto? Le deboli radici della democrazia nella tradizione politica europea contribuirono a spiegare perché fu possibile instaurare regimi antiliberali con tanta facilità e con così poche proteste.


Tratto da Le ombre dell’Europa: democrazie e totalitarismi del XX secolo, Garzanti, Milano 2000

 >> pagina 386 
Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Crisi del parlamentarismo.

b) Democrazia delle masse.

c) Politica dello scontro.

d) Carattere organico e religioso dei culti fascisti.

 >> pagina 387 
Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

La democrazia di massa e l’ascesa dei regimi totalitari

Critica e crisi delle democrazie parlamentari

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
Cooperative Learning

Testo 1 Nel testo di Mosse emerge come i culti e il consenso fascista siano fattori organici e radicati nella cultura di massa. Molti di questi mutuano il loro significato da cerimonie e simbologie religiose.


competenza DIGITALE Con l’aiuto dell’insegnante individuiamo alcuni riti propri del fascismo (feste, celebrazioni, simboli) e riconduciamoli al loro significato propagandistico per il regime. Ricerchiamo online o in biblioteca alcune informazioni a proposito e, dopo una divisione della classe in piccoli gruppi, affidiamo a ciascuno la realizzazione di una presentazione digitale (utilizzando PowerPoint – Prezi – Thinglink – Sway) che illustri alla classe caratteristiche e finalità di un rito.


Testo 2 Secondo Mazower la crisi della democrazia liberale, la frammentazione del parlamento eletto a rappresentanza proporzionale e il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo sono tra le cause che spiegano l’avvento dei fascismi in Europa. A testimonianza di questi mutamenti rimangono le revisioni costituzionali approvate dagli Stati europei in quegli anni.


competenza DIGITALE Ricerchiamo online i testi delle revisioni costituzionali citate nel saggio e, dopo aver diviso la classe in piccoli gruppi con la guida dell’insegnante, assegniamo a ciascuno il compito di realizzare una presentazione digitale (utilizzando PowerPoint – Prezi – Thinglink – Sway) che illustri alla classe una delle revisioni.

percorso 4

La Shoah e la collaborazione

Nel discorso pubblico la Shoah è normalmente vista come il prodotto dell’industrializzazione delle pratiche di assassinio di massa, applicate nelle camere a gas dei campi di sterminio. Tuttavia, gli storici hanno recentemente richiamato l’attenzione sull’importanza che svolse la guerra totale nell’organizzazione e nella realizzazione della distruzione delle comunità ebraiche dell’Est Europa tra il 1941 e il 1945. Basandosi sugli atti del processo condotto contro i membri del Battaglione 101 delle Einsatzgruppen (“unità operative”), composto per lo più da riservisti della polizia provenienti da Amburgo, lo storico americano Christopher Browning si è interrogato intorno alle ragioni e alle radici delle scelte che condussero individui di mezza età, abituati alla vita civile, a condurre spietate operazioni di massacro contro gli ebrei, a ridosso delle linee del fronte orientale. In quelle circostanze sature di violenza, uomini comuni, inquadrati negli Einsatzgruppen furono spinti a obbedire a qualsiasi ordine, anche quando implicava l’assassinio di massa. Lo storico ebreo polacco Jan T. Gross (a lungo in esilio negli Stati Uniti) ha invece riportato alla luce la collaborazione dei contadini polacchi nei pogrom che si scatenarono contro gli ebrei nell’estate del 1941, nel vuoto di potere tra la ritirata delle forze sovietiche e l’arrivo di quelle tedesche: coloro che erano tranquilli vicini di casa diventarono da un giorno all’altro efferati carnefici.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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