6.6 Le convulsioni rivoluzionarie della Cina

6.6 Le convulsioni rivoluzionarie della Cina

Il dopoguerra cinese
La Cina non partecipò alla Grande guerra, ma contribuì allo sforzo bellico dell’Intesa con un contingente di oltre 100 000 operai che lavorarono nelle fabbriche francesi e inglesi, a sostegno della produzione industriale. L’impegno cinese non fu tuttavia premiato dai trattati di pace, che assegnarono al Giappone la provincia dello Shandong, di cui prima della guerra si erano impadroniti i tedeschi. La decisione scatenò le proteste dei nazionalisti cinesi, che il 4 maggio 1919 promossero una manifestazione contro il Trattato di Versailles in piazza Tien’anmen a Pechino. La protesta trovò un’ampia eco internazionale e si allargò a tutto il paese degenerando in un moto antigiapponese.
Mentre il Giappone esercitava sempre più forti pressioni militari da nord, il maggior problema della Cina, anche dopo la rivoluzione del 1911 e l’avvento della Repubblica [▶ cap. 1.3], rimanevano l’estrema frammentazione territoriale e i conseguenti conflitti tra l’autorità centrale di Pechino e i poteri locali. Questi conflitti erano alimentati dalla proliferazione di gruppi armati, che erano al comando di signori della guerra [ 11] e che si erano formati a seguito dello scioglimento dell’esercito imperiale. L’azione di queste fazioni violente fu così diffusa e destabilizzante da dare nome all’intero periodo compreso tra il 1916 e il 1928, noto come l’“era dei signori della guerra”.
L’ascesa di Chiang Kai-shek
Complessivamente, la scena politica cinese del dopoguerra risentiva dei fermenti culturali maturati durante il conflitto, alimentati anche dal mito sovietico e in gran parte raccolti intorno alle rivendicazioni rivoluzionarie e cosmopolite delle giovani generazioni. In un clima di agitazione sociale e di ostilità nei confronti delle grandi potenze vincitrici, assunse un ruolo sempre più rilevante il Partito nazionalista di Sun Yat-sen, il Guomindang.
Dopo la morte di Sun Yat-sen (1925), Chiang Kai-shek conquistò la fedeltà delle élite militari e diventò la figura più importante del Partito nazionalista. Con le sue milizie egli prese il controllo della regione di Canton e allo stesso tempo strinse alleanza con il Partito comunista cinese, fondato a Shanghai nel luglio 1921. Nel 1926 le due forze, con l’appoggio sovietico, collaborarono per condurre un’offensiva contro il governo di Pechino e i signori della guerra che occupavano il Nord del paese. Fu in questo frangente che i comunisti, inquadrando contadini e operai all’interno delle proprie milizie, riuscirono a conquistare Shanghai prima che sopraggiungessero le forze nazionaliste di Chiang.

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A quel punto, Chiang interruppe i rapporti con i sovietici, attaccò le milizie comuniste e, forte anche dell’appoggio economico di finanzieri e industriali, riprese Shanghai nel 1927, compiendo un vero e proprio massacro. La guerra civile tra nazionalisti e comunisti si concluse solo nel momento in cui Stalin decise di smettere di sostenere la prospettiva rivoluzionaria in Cina, costringendo i comunisti a trovare un accordo con Chiang, non disponendo più delle risorse necessarie per contrastarlo.
Nell’estate del 1928, dopo aver conquistato anche Pechino ed essere stato proclamato presidente della Repubblica cinese [ 12], Chiang Kai-shek mirò a rafforzare le infrastrutture ferroviarie e a installare linee telefoniche e telegrafiche, in modo da contenere le spinte centrifughe del paese e da avviarne lo sviluppo economico. Il suo governo si trasformò però rapidamente in un regime autoritario e personale, ispirato in parte anche all’esempio fascista.
I comunisti

Nei tardi anni Venti, il Partito comunista cercò di riorganizzarsi e di radicarsi nelle campagne, stabilendo la propria roccaforte nello Jiangxi, proclamata “Repubblica sovietica” nel 1930. Nonostante i suoi contrasti con il Comitato centrale, fu allora che cominciò la parabola ascendente di Mao Zedong [ 13], che a metà anni Trenta sarebbe diventato capo del partito. In questi anni egli fu impegnato nella formazione di un esercito cinese composto di operai e contadini, sulla base del modello sovietico dell’Armata rossa. Attraverso l’opera di inquadramento dei contadini, l’insegnamento di tecniche di lotta anche dure e brutali (come Mao stesso ebbe a dire, «una rivoluzione non è un pranzo di gala») e la redistribuzione delle terre espropriate ai possidenti, Mao riuscì a conquistare il consenso dei milioni di cinesi che vivevano in misere condizioni nei villaggi rurali.

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La Lunga marcia
Dal 1931 il governo nazionalista di Chiang cominciò a stringere la morsa intorno alle zone controllate dai comunisti, ma le milizie rosse riuscirono a respingere le offensive governative e a espandersi ulteriormente. In un contesto destabilizzato anche dall’aggressione giapponese in Manciuria, Mao organizzò e guidò la cosiddetta Lunga marcia [ 14], che avrebbe costituito il mito di legittimazione del comunismo cinese e che avrebbe sancito la sua stessa leadership all’interno del Partito. Dall’ottobre del 1934 a quello del 1935, per un intero anno, i comunisti attraversarono la Cina, dallo Jiangxi a Yan’an nella regione dello Shaanxi, inseguiti dalle truppe del Guomindang e attaccati dalle élite locali. Dopo circa 12 000 km giunsero all’altopiano del Loess, a nord: solo 8000 dei 100 000 militanti di partenza sopravvissero, ma la Lunga marcia contribuì a radicare il consenso del Partito comunista fra gli strati sociali più poveri delle campagne. A Yan’an fu stabilito il quartiere generale del Partito comunista cinese. Nel dicembre 1936, poi, nel contesto della nuova politica dei Fronti popolari voluta dal Comintern, fu firmata una seconda alleanza tra comunisti e nazionalisti, che sarebbe durata il tempo utile per affrontare, l’anno successivo, una nuova invasione giapponese della Manciuria.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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