5.1 Dittatura, repressione e consenso

Per riprendere il filo…

L’Italia era uscita dalla Grande guerra scossa da una gravissima crisi politica e sociale, che l’aveva spinta alle soglie della guerra civile e che aveva destabilizzato le istituzioni liberali, consegnando infine il potere al movimento fascista di Mussolini, nel 1922. Fra il 1920 e il 1925, Mussolini aveva combattuto, neutralizzato o eliminato i suoi avversari politici, a partire dai socialisti, e aveva provvisto il suo governo dei primi strumenti legislativi e repressivi (tra cui il Gran consiglio del fascismo e la Milizia volontaria, che di fatto aveva legalizzato lo squadrismo), volti a stabilire un regime di dittatura. Al contempo, aveva cominciato a stringere accordi e compromessi con le istituzioni esistenti (la monarchia, la Chiesa) e i principali protagonisti dell’economia italiana (gli agrari, la grande imprenditoria industriale), creando i presupposti per ottenere un vasto consenso sociale.

5.1 Dittatura, repressione e consenso

Fascismo e violenza
La strada del fascismo verso la piena conquista del potere fu segnata dalla violenza dispiegata contro i suoi oppositori, attraverso umiliazioni, intimidazioni e, in molti casi, aggressioni e omicidi. Oltre al deputato socialista Giacomo Matteotti, fra le vittime della violenza squadrista vi furono il prete antifascista don Giovanni Minzoni, ucciso ad Argenta (vicino a Ferrara) nel 1923; il giovane intellettuale torinese Piero Gobetti, fondatore della rivista Rivoluzione liberale, morto a Parigi nel febbraio 1926 in seguito a un’aggressione fascista; il politico liberale Giovanni Amendola, deceduto a Cannes nell’aprile dello stesso anno.

Dopo la crisi seguita all’assassinio di Matteotti – quando il fascismo si era trovato stretto fra l’indignazione di una parte dell’opinione pubblica e delle opposizioni e la volontà delle correnti radicali di scatenare una “seconda rivoluzione” – Mussolini aveva intrapreso la via della “normalizzazione”, con cui, sia pure a fatica, era riuscito a porre sotto controllo le forze più irrequiete e violente dello squadrismo, guidate da Roberto Farinacci (allora segretario del Pnf). Nonostante questo, la violenza rimaneva una prassi politica fondante del movimento.

La costruzione della dittatura: le leggi fascistissime

Sul piano politico e istituzionale, la definitiva trasformazione del governo fascista in regime dittatoriale avvenne fra il 1925 e il 1926. Alcuni attentati falliti contro il duce offrirono il pretesto per un’ulteriore svolta autoritaria e, al tempo stesso, facilitarono l’accettazione, da parte dell’opinione pubblica, di misure che prevedevano il ricorso a ogni mezzo per la tutela dell’ordine pubblico. In particolare, queste riducevano drasticamente le prerogative del parlamento e ridefinivano l’ordinamento delle amministrazioni locali in senso autoritario e centralistico. Nel novembre 1926 furono varate le cosiddette leggi fascistissime «per la sicurezza dello Stato»:

  • fu bandita la libertà d’associazione;
  • furono sciolti tutti i partiti politici (con l’eccezione del Partito nazionale fascista);
  • furono dichiarati decaduti i parlamentari dell’opposizione “aventiniana”;
  • fu soppressa la stampa d’opposizione;
  • fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, competente sui reati contro la sicurezza (compresi quelli di matrice politica e, di fatto, i reati d’opinione) e che operava sostanzialmente in base alla legge militare del tempo di guerra, con la reintroduzione della pena di morte e il rafforzamento del  confino di polizia. La definizione della nuova legalità fascista era ispirata al motto mussoliniano «tutto nello Stato, niente fuori dallo Stato, nulla contro lo Stato» e un contributo decisivo all’edificazione del nuovo Stato fu dato dal giurista Alfredo Rocco, che si ispirava a una tradizionale antiliberale e antidemocratica.
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Le forme istituzionali dello Stato fascista
Nella seconda metà degli anni Venti, dunque, l’Italia fascista si presentava come un sistema politico-istituzionale originale, in cui le istituzioni tradizionali dello Stato monarchico parlamentare convivevano con i nuovi organi costituiti dal regime. Questi ultimi erano subordinati alle prime soltanto sul piano formale: le prerogative di Camera e Senato furono infatti svuotate, e le funzioni del Consiglio dei ministri furono sempre più ridotte a vantaggio del capo del governo e del Gran consiglio del fascismo. Istituito nel 1923 e divenuto organo costituzionale nel 1928, il Gran consiglio riuniva le più alte cariche e personalità del regime (i gerarchi) ed elaborava gli indirizzi politici del paese [ 1] [▶ cap. 4.8].

Il Pnf, ormai partito unico, fu sottoposto da Mussolini a una serie di epurazioni per eliminare gli elementi più indisciplinati e violenti e fu via via trasformato in un apparato di funzionari predisposti a eseguire gli ordini dall’alto. Allo stesso tempo, tuttavia, il partito vide incrementare enormemente il numero di iscritti, giocando dunque un ruolo di mediazione tra le istituzioni e la società. Con la mobilitazione di massa, ottenuta con un ampio spettro di iniziative e di associazioni collaterali, il Pnf interpretava bene l’aspirazione totalitaria del fascismo, che mirava a condizionare ogni aspetto della vita collettiva e a cancellare la distinzione tra la sfera pubblica e quella privata, in un quadro di politicizzazione integrale della società.

Continuarono però a emergere forti tensioni tra il Pnf e l’amministrazione statale, soprattutto a livello locale, dove si accendevano conflitti tra i prefetti, espressione periferica dello Stato, e i segretari federali del partito, i cosiddetti  ras, che miravano a riprodurre nelle gerarchie di provincia il modello del duce e mostravano una diffusa propensione all’uso del potere per interessi personali.

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Il consenso di massa
Anche se i ceti medi rappresentavano la base di consenso più ampia della dittatura, il messaggio politico e ideologico del fascismo mirava a raggiungere tutti gli strati sociali. La propaganda di regime non mancò quindi di rivolgersi anche alle classi popolari, a partire dagli operai.

Per ottenere e gestire il consenso il regime seppe utilizzare le più moderne ed efficaci tecniche di comunicazione, già ampiamente sperimentate durante la Grande guerra, come gli slogan, le canzoni e i simboli volti a stimolare la dimensione emotiva delle masse. Gli italiani erano chiamati in blocco a partecipare alla causa della nazione impersonata dal duce e a concorrere alla sua gloria: agli occhi dei fascisti, solo l’attiva partecipazione delle masse poteva infatti restituire dinamismo e spirito comunitario a una società decadente, corrotta dall’individualismo borghese e liberale.

Le cerimonie pubbliche ebbero un ruolo fondamentale nel rappresentare l’identificazione delle masse con Mussolini e il regime, a partire da quelle tenute in Piazza Venezia, nel centro di Roma, che diventò lo scenario delle cosiddette “adunate oceaniche” (come venivano definite dai resoconti dei giornali e dei cinegiornali) durante le quali il duce, con una gestualità fortemente teatrale, pronunciava i propri discorsi di fronte alla folla.

I mezzi di comunicazione di massa – radio e cinematografo – diventarono strumenti fondamentali per plasmare il mito del duce quale capo politico carismatico, capace di un rapporto privilegiato con le masse [▶ fenomeni]. In tale contesto, fu decisivo l’operato svolto dal ministero della Stampa e della Propaganda, ribattezzato nel 1937 ministero per la Cultura popolare (MinCulPop), che distribuiva quotidianamente alla stampa direttive generali destinate a filtrare le informazioni, a edulcorare le notizie ritenute allarmanti e quelle che potenzialmente avrebbero potuto originare nell’opinione pubblica forme di critica o di disillusione nei confronti del regime.

  fenomeni

Il cinegiornale Luce

L’uso sistematico della propaganda volta a mobilitare l’opinione pubblica, già sperimentato durante la Grande guerra, diventò una delle architravi dell’edificio totalitario fascista. Attraverso l’uso di moderni mezzi di comunicazione (radio, cinema, manifesti, giornali) il regime si pose non solo il fine di promuovere le proprie politiche e di ottenere il consenso delle masse, ma anche di diffondere il mito di Mussolini e di svolgere la missione pedagogica e antropologica di creare un “uomo nuovo”, dedito alla patria e al suo duce.
La nascita dell’Istituto Luce

In questo senso svolse un ruolo decisivo l’Unione cinematografica educativa (L.U.C.E, poi diventata semplicemente Istituto Luce) che fu fondata nel 1924 dal giornalista e avvocato Luciano De Feo. In un primo tempo, questa piccola società privata si dedicò alla produzione di documentari. A partire dal novembre 1925 l’Istituto fu posto alle dirette dipendenze del governo, trasformandosi in una macchina propagandistica del regime fascista. In una lettera rivolta a tutti i ministeri interessati, Mussolini in persona annunciò la costituzione e la statalizzazione dell’Istituto «al fine di creare un valido organismo diffusore di pellicole culturali, educative, scientifiche, un organismo di cultura e di italianità».

I cinegiornali

Nell’aprile 1926 fu imposto per legge a tutte le sale cinematografiche l’obbligo di proiettare due volte al giorno i cinegiornali dell’Istituto Luce. Questi notiziari, destinati a diventare una presenza quotidiana nella vita degli italiani sotto il fascismo, seguivano un modulo prestabilito, e riportavano la cronaca politica nazionale e internazionale nella versione approvata dai funzionari del regime.

Nel 1937 l’Istituto Luce, che ormai monopolizzava tutta la comunicazione pubblica del regime (ma che produceva anche documentari e film di ogni argomento), fu subordinato al MinCulPop, il ministero per la Cultura popolare.

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I plebisciti
Per formalizzare sul piano politico e istituzionale il consenso alimentato dalla propaganda, il fascismo utilizzò lo strumento del plebiscito, già impiegato dall’imperatore francese Napoleone III tra gli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento per legittimare quello che era stato, per molti versi, il primo regime autoritario moderno. Il plebiscito del marzo 1929 sancì la nuova legalità fascista e certificò il carattere del tutto marginale delle opposizioni. In un clima di insistente propaganda, ma anche di pesanti minacce e intimidazioni, gli italiani furono infatti chiamati a eleggere i membri della Camera dei deputati con la sola possibilità di approvare o respingere la lista di 400 candidati designati dal Gran consiglio del fascismo. Con un voto che non fu nemmeno segreto (le schede erano ben riconoscibili), i “sì” furono oltre 8 milioni e mezzo, pari al 98% circa dei 10 milioni di votanti: era ormai evidente che il fascismo sarebbe durato a lungo. Per la rielezione dei deputati, nel marzo 1934, ebbe luogo un secondo plebiscito che si svolse con analoghe modalità e simile esito [ 2].

La repressione
Attraverso una fitta maglia repressiva, il regime aveva stretto il controllo sulla società italiana. La polizia politica, denominata a partire dal 1930 con la sigla Ovra (Organizzazione per la vigilanza e la repressione antifascista), costituiva il principale organo di coordinamento e gestione della repressione di ogni forma di dissenso individuale e di opposizione organizzata. L’uso massiccio di spie e la pratica sistematica della  delazione consentivano di sorvegliare e sradicare i gruppi sovversivi, così come di rilevare e contrastare anche le semplici opinioni contrarie al regime. Tra il 1926 e il 1943 il
Tribunale speciale lavorò a pieno ritmo, processando oltre 5000 antifascisti e comminando 42 condanne alla pena capitale. Il confino di polizia , eredità amministrativa dell’Italia liberale, rappresentò uno strumento efficace per neutralizzare chiunque osasse sfidare il potere dittatoriale o fosse considerato pericoloso per l’ordine pubblico: sulle isole di Ponza, Pantelleria, Lipari, Ustica e Ventotene [ 3], come in alcuni sperduti villaggi dell’Italia centrale e meridionale, furono confinati oltre 17 000 dissidenti durante il Ventennio – come sarebbe stato chiamato il lungo periodo del dominio fascista in Italia.
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Fin dai primi anni del regime, la polizia fascista esercitò un’azione repressiva costante in modo particolare nelle fabbriche del “triangolo industriale” e nelle terre di confine acquisite dopo la Grande guerra (il Trentino, Trieste, l’Istria). Le prime erano teatro delle più acute lotte sociali del dopoguerra e una sorveglianza accurata cercò di contrastare ogni opera di influenza e di propaganda comunista fra gli operai. Nelle seconde, dove risiedevano consistenti minoranze nazionali e si erano verificati scontri violenti, si procedette a una decisa opera di “italianizzazione” forzata: le scuole slovene e croate furono prima drasticamente ridotte, poi abolite, e l’uso delle lingue slave nello spazio pubblico fu proibito [ 4]. Cinque dei condannati a morte dal Tribunale speciale, accusati di terrorismo, appartenevano al gruppo antifascista sloveno-croato Tigr (acronimo dei nomi slavi di Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka-Fiume), che operava nell’area di confine. In Alto Adige le popolazioni di lingua tedesca, che costituivano la maggioranza, subirono analoga persecuzione attraverso un’opera di italianizzazione forzata.

L’opposizione antifascista
A fronte del consolidamento del regime fascista e della crescente popolarità di cui esso godeva all’interno della società italiana, restavano importanti sacche di indifferenza e insofferenza, anche se vissute per lo più in modo nascosto e individuale. In particolare, se i linguaggi della politica erano efficaci nelle aree urbane, spesso le masse rurali – ancora nettamente maggioritarie nel paese – percepivano la politica come una realtà estranea, se non ostile.

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Nonostante questo, però, le opposizioni politiche si trovavano in uno stato di grave debolezza organizzativa e di crescente isolamento. Negli anni Trenta coloro che contestavano e combattevano attivamente la dittatura erano ormai un’esigua minoranza, costretta alla clandestinità o all’emigrazione. Tra il 1927 e il 1934 le forze socialiste, repubblicane e liberaldemocratiche, i cui vertici si erano ritrovati in esilio a Parigi, si organizzarono nella Concentrazione d’azione antifascista, la cui attività si esaurì però nell’elaborazione ideologica e nella produzione e diffusione di testi e documenti di testimonianza e di denuncia, senza possibilità di incidere concretamente sulla situazione italiana.

L’unico nuovo movimento del campo antifascista, Giustizia e libertà (Gl), fu costituito a Parigi nel 1929 da Emilio Lussu (1890-1975) e Carlo Rosselli (1899-1937), due giovani antifascisti che erano riusciti a fuggire dal confino di Lipari. Giustizia e libertà si proponeva di coniugare la lotta rivoluzionaria contro il regime fascista con un profondo rinnovamento dell’ordine politico e sociale d’Italia e d’Europa, mediando fra liberalismo e socialismo e ispirandosi a ideali di libertà politica e di giustizia sociale, in radicale alternativa ai comunisti. Un gruppo di Gl era attivo a Torino: formato per lo più da intellettuali in contatto con il centro dirigente di Parigi, esso provava a esprimere «l’aperta cospirazione della cultura», secondo un’espressione del filosofo Benedetto Croce. Intorno ad alcuni di loro, fra cui lo scrittore Leone Ginzburg (1909-44), prese forma la casa editrice Einaudi, fondata nel 1933 da Giulio Einaudi. Fra il 1934 e il 1935 un’ondata di arresti disperse tuttavia la rete clandestina di Giustizia e libertà, mentre l’assassinio di Carlo Rosselli e del fratello Nello, avvenuto in Francia nel 1937 per ordine del regime fascista, segnò la fine della fase più vitale di questa esperienza [ 5].

Il Partito comunista
L’opposizione più organizzata continuò comunque a essere quella del Partito comunista d’Italia (Pcd’I), sia in Italia, dove esso aveva mantenuto una rete di militanti clandestini soprattutto nelle zone urbane e industriali, sia all’estero: non a caso fu questa la formazione che pagò il tributo più alto in termini di arresti e condanne.

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La linea politica del Pcd’I, dal 1926 guidato da Palmiro Togliatti dopo l’arresto di Antonio Gramsci, si conformò in questo periodo alle direttive dell’Internazionale comunista, dettate dalle esigenze della politica estera sovietica. In un primo momento anche i comunisti italiani aderirono infatti alla formula della lotta «classe contro classe» stabilita al VI Congresso del Comintern nel 1928, che escludeva ogni possibile alleanza con i partiti socialisti europei, accusati di essere complici del fascismo (di qui la virulenta polemica contro il “socialfascismo”). Contro questa linea si pronunciò dal carcere Antonio Gramsci, senza però che la sua voce potesse avere diffusione e ascolto. Nel 1929, nel reclusorio di Turi (Bari), egli aveva iniziato a scrivere i suoi Quaderni del carcere, destinati a essere letti nel dopoguerra come l’espressione più complessa della cultura antifascista [▶ oggetti].

Solo nel 1935 il Comintern cambiò linea, varando, anche grazie all’iniziativa dello stesso Togliatti (dal 1926 in esilio volontario a Mosca), la nuova politica dei Fronti popolari, che consentiva e incoraggiava in funzione antifascista accordi tra i comunisti e gli altri partiti e movimenti di sinistra (socialisti, repubblicani, radicali). In Italia però, nonostante già nel 1934 comunisti e socialisti avessero stretto un patto di unità d’azione, i precedenti conflitti e le profonde divisioni restavano ancora vivi.

  oggetti

Quaderni del carcere

I Quaderni del carcere sono un’opera unica per la loro modalità di composizione e di pubblicazione, per la profondità e la vastità dei loro argomenti, per l’impatto amplissimo sulla cultura italiana e su quelle europea e mondiale.

La genesi dell’opera

Il capo del Partito comunista d’Italia, Antonio Gramsci, fu arrestato nel novembre 1926 e condannato nel 1928 a vent’anni di reclusione per la sua attività di oppositore del regime fascista. Egli cominciò a raccogliere note, appunti e riflessioni l’8 febbraio 1929, quando era detenuto a Turi; continuò a scrivere in una casa di cura di Formia, dove rimase dal 1933 alla metà del 1935, quando sospese la scrittura per il peggioramento delle condizioni di salute. Fu infine ricoverato in una clinica romana, in libertà vigilata, dove morì il 26 aprile 1937.

I temi

Quaderni affrontano temi diversi, da Machiavelli a Marx, da Dante a Benedetto Croce, dal Risorgimento al fordismo, ma si annodano intorno a un problema teorico chiave, che contribuì a un profondo rinnovamento del marxismo. Gramsci, infatti, ripensa radicalmente i rapporti fra struttura e sovrastruttura, fra economia e cultura, riconoscendo l’importanza dell’egemonia culturale nel processo di trasformazione della società in senso socialista. Con il concetto di “egemonia” egli intendeva la capacità degli intellettuali di svolgere un ruolo di «direzione culturale e morale» della società, la quale a sua volta doveva combinarsi con il «dominio politico» esercitato dal Partito comunista. Da qui derivava la sua visione degli «intellettuali organici» (cioè legati organicamente al gruppo sociale di riferimento), che dovevano rappresentare la classe sociale del futuro, il proletariato. Per realizzare l’egemonia, però, occorreva passare – secondo il linguaggio politico-militare di Gramsci – dalla «guerra di movimento» alla «guerra di posizione», ossia lavorare su tempi lunghi, senza attendersi rotture improvvise e risolutrici.

La vicenda editoriale e il dibattito postumo

Quaderni hanno avuto una storia editoriale tanto complicata quanto discussa. In un primo momento furono raccolti dalla sorella della moglie russa di Gramsci, Tania Schucht. Portati a Mosca nel 1938, furono successivamente pubblicati in una versione tematica nel 1948. In particolare, la discussione successiva, ispirata dall’opera postuma di Gramsci, si concentrò intorno alla sua visione del Risorgimento come «rivoluzione mancata», a causa della cronica incapacità della borghesia italiana (settentrionale) di promuovere e guidare la sollevazione delle classi contadine (meridionali). Questa originale visione della storia d’Italia avrebbe alimentato intensi dibattiti sul Risorgimento al termine della Seconda guerra mondiale, negli anni Cinquanta e Sessanta.

5.2 Ideologia e politica culturale

La dottrina e gli intellettuali
Le basi ideologiche del fascismo erano costituite da un insieme quanto mai variegato e contraddittorio di correnti di pensiero provenienti dalle culture europee della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento: il positivismo e l’irrazionalismo, il nazionalismo e il sindacalismo rivoluzionario, il conservatorismo e il futurismo, il culto dell’antichità e la passione per la modernità.

Anche a fronte di questa molteplicità di influenze e sensibilità nacque il tentativo, compiuto da Giovanni Gentile, di definire la dottrina fascista nel Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto nell’aprile del 1925 in occasione di un convegno tenutosi a Bologna e sottoscritto da 250 esponenti di spicco del mondo culturale e scientifico del paese [▶ FONTI, p. 200]. Questo documento preannunciava anche quello che divenne uno dei principali intenti delle politiche culturali del regime: il sistematico tentativo di coinvolgimento e inquadramento degli intellettuali, perseguito, negli anni successivi, anche attraverso la loro  cooptazione nei ranghi della burocrazia statale. Significativa in questo senso fu l’istituzione, nel 1929, dell’Accademia d’Italia, un ente di promozione culturale con cui il fascismo si proponeva di premiare e al tempo stesso sottoporre a tutela gli uomini di cultura più in vista. Nel 1931 fu poi imposto un più stretto controllo sulla comunità intellettuale italiana, con la richiesta di un giuramento di fedeltà al regime da parte dei docenti universitari: solo 12 professori (su oltre 1200) rifiutarono di giurare, perdendo così la cattedra, mentre tutti gli altri accettarono sulla scorta di una reale convinzione o per il timore di non poter proseguire l’attività di insegnamento, perdendo la propria prestigiosa posizione.

Accanto all’opera di repressione del dissenso e dell’anticonformismo, il fascismo profuse però energie anche per la formazione di una nuova classe dirigente. In questa chiave svolse un ruolo centrale Giuseppe Bottai, già Ardito e futurista, poi fascista della prima ora, deputato e quindi ministro dell’Educazione nazionale, nonché fondatore di importanti riviste come Critica fascista e Primato, sulle cui pagine furono sviluppati approfondimenti e riflessioni sulla politica, le istituzioni e la società fasciste. 

Nel corso del Ventennio il regime fu così capace di legare a sé una vasta rete di intellettuali, di elaborare una varietà di orientamenti ideologici e di produrre nuove istituzioni culturali. Fra queste spicca l’Istituto della Enciclopedia italiana, fondato nel 1925 da Giovanni Treccani e Giovanni Gentile, che, fra il 1929 e il 1937 presiedettero alla realizzazione della monumentale Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, la prima enciclopedia universale italiana [ 6].

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I Patti lateranensi

La Chiesa cattolica aveva mantenuto nei confronti del regime fascista una posizione attendista. Consapevole della diffusione e del radicamento del cattolicesimo presso gli strati popolari, in particolare nelle campagne, Mussolini si preoccupò di trovare un accordo con le autorità ecclesiastiche per chiudere definitivamente la questione romana, apertasi con la presa di Roma nel 1870 (quando la città era stata sottratta alla sovranità papale), superando così ogni rivendicazione del Vaticano su territori appartenenti allo Stato italiano. Dopo lunghe trattative, l’11 febbraio 1929 furono firmati tre accordi, definiti nel loro insieme Patti lateranensi (dal palazzo di San Giovanni in Laterano in cui vennero sottoscritti):

  • un documento di reciproco riconoscimento di piena indipendenza e sovranità fra lo Stato italiano e lo Stato del Vaticano, il quale comprendeva la basilica di San Pietro e i palazzi vaticani;
  • una convenzione finanziaria che prevedeva un risarcimento alla Chiesa per la rinuncia ai territori del vecchio Stato pontificio;
  • un Concordato che regolava le relazioni fra Chiesa e Stato. L’Italia riconosceva il cattolicesimo religione di Stato, rendendo obbligatorio l’insegnamento religioso nella scuola statale, già previsto dalla riforma Gentile del 1923 [ 7].

L’accordo con la Chiesa fu per il regime un notevole successo, suggellato anche dalle parole di papa Pio XI, che definì Mussolini un «uomo della provvidenza», capace di risolvere il conflitto che per oltre sessant’anni aveva contrapposto lo Stato italiano e la Chiesa.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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