T2 - Dai gilet gialli ai sanculotti, quando l’abito fa la rivoluzione

T2

Dai gilet gialli ai sanculotti, quando l’abito fa la rivoluzione

Silvia Vacirca, Lettera43, 15 dicembre 2018

Un indumento da lavoro diventa simbolo di una protesta. Come i colori delle suffragette e le corone di fiori per le Femen. Gli incroci tra moda e politica nella storia.

Ciò che indossiamo è un pensiero manifesto, riflette e costruisce la nostra identità. In altre parole, è una questione politica. La classe, il ruolo sociale, l’età, il genere, il clima, l’umore, le scuole frequentate influenzano il modo in cui scegliamo di presentarci sul palcoscenico del mondo e, nella storia, le rivoluzioni si sono giocate sempre, metaforicamente parlando, sull’orlo di una gonna. […] Lo stile può confermare o frantumare un equilibrio di potere e il movimento dei gilet jaune è solo l’ultimo esempio di una lunga serie storica in cui un indumento cambia d’uso a fini squisitamente politici. Raf Simons, direttore creativo di Calvin Klein, sembrava averlo previsto. Nella sfilata AI 2018/19 aveva mandato in passerella modelli in giacche arancioni catarifrangenti, secondo la medesima estetica “utilitaristica” del gilet giallo, indumento ad alta visibilità volto a proteggere il guidatore in panne o il lavoratore di un cantiere.

I sans-culotte contro l’aristocrazia

Durante la Rivoluzione francese, l’abbattimento della monarchia era incarnato anche nel movimento dei sans-culotte. Gli ideali di uguaglianza infatti mal si sposavano con i pantaloni maschili al ginocchio, simbolo della nobilità. Secondo lo storico Albert Soboul «i sans-culotte giudicavano il valore di una persona dall’apparenza, deducendo il personaggio dall’abito e le convinzioni politiche dal personaggio; tutto quello che infastidiva il loro senso di eguaglianza era sospettato di “aristocrazia”».

La moda delle suffragette

Ma, da sempre, sono le gambe femminili a essere oggetto di intensa contesa politica. Il pantalone “bloomer” – modello alla turca promosso dalla femminista americana del XIX secolo Amelia Bloomer – è il primo indumento pensato per le donne che desideravano comfort e mobilità nelle loro vite. A un certo punto, il movimento ottocentesco della Rational Dress Society – che tra i sostenitori contava Oscar Wilde – propose di rivoluzionare l’intimo femminile, liberando le donne dal corsetto ma non dalla “servitù politica”. Per questa emancipazione si dovrà attendere, negli Stati Uniti, il 1919 quando le donne ottennero il diritto al voto. Il movimento delle suffragette mostrava al mondo la sua unità indossando colori coordinati. Bianco, viola e verde erano i colori del primo femminismo, al punto che alcuni imprenditori s’inventarono una gioielleria suffragista di gran successo.

L’uniformità totalizzante

La moda, come modo di espressione, può essere molto potente (e totalitaria) se l’espressione è unificata. Può essere usata per enfatizzare o creare un senso di identità nazionale, o rafforzare un’ideologia. La rivoluzione bolscevica fu un esempio di idealizzazione del lavoratore in uniforme. Nelle rivoluzioni culturali del 900 l’uniformità venne declinata in denim. Negli Anni Cinquanta, Elvis Prestley e Marlon Brando li fecero diventare i pantaloni dei e delle giovani ribelli senza causa che si travestivano da lavoratori, al di là del genere sessuale. Sarà poi nello stile punk che, per la prima volta, si coagularono moda, ansia sociale e musica. Nel suo famoso libro sulla sottocultura, Dick Hebdidge, ha scritto che «distruggendo gli abiti della classe media con buchi, spille e catene, i punk si ribellavano contro il tatcherismo1». Nel frattempo i Sex Pistols urlavano: «Nessun futuro, nessun futuro per te e nessun futuro per me».

Le battaglie delle Femen

Con il punk, la rivoluzione, forse per la prima volta, andò in onda. Ora viaggia sui social. La velocità di diffusione delle informazioni nell’epoca digitale ha accelerato i moti. Con l’arrivo del collettivo punk russo delle Pussy Riot, tutto un merchandising di abiti brillanti e monocromatici si diffondeva a supporto del gruppo femminista. Il color-blocking2 è stato usato con successo dalle celebrity di Hollywood che in piena ondata Metoo3 hanno deciso di vestire di nero ai Golden Globes 2018. Che dire poi del movimento ucraino Femen che combatte il sessismo e il turismo sessuale a suon di topless e bucoliche coroncine di fiori. La ragione è che, nonostante le donne abbiano ottenuto molti diritti, la mercificazione del corpo femminile «non ha precedenti», ha dichiarato la cofondatrice di Uk Feminista, movimento britannico. Femen elegge il corpo femminile nudo a campo di battaglia, trasformandolo da oggetto sessuale ad arma politica da puntare alla tempia del maschio occidentale. E ora il campo di battaglia – sebbene di tutt’altro segno e con tutt’altro obiettivo – si è trasferito su un comunissimo gilet giallo.

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COMPRENSIONE DEL TESTO

Dopo un’attenta lettura del testo, rispondi alle domande.


a. Commenta questa espressione: «La moda, come modo di espressione, può essere molto potente (e totalitaria) se l’espressione è unificata». (massimo 10 righe)












b. Qual è il significato dell’espressione, riferita ai gilet jaune, “estetica utilitarista”? (massimo 10 righe)












c. Qual è il rapporto tra moda e politica secondo l’autrice? (massimo 10 righe)












c. Come cambia il rapporto tra moda e rivoluzione con il punk e poi con i social? (massimo 10 righe)











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ANALISI E RIASSUNTO

Riassumi il contenuto del testo dell’autore indicando gli snodi del suo ragionamento. Puoi aiutarti compilando la seguente scheda di sintesi.


  Dai gilet gialli ai sanculotti, quando l’abito fa la rivoluzione
Problema

 

 

Tesi

 

 

Antitesi

 

 

Argomenti a favore della tesi

 

 

COMMENTO

Qual è il tuo rapporto con la moda? Hai mai scelto di vestirti in un certo modo per sentirti parte di un gruppo o per protestare contro qualcosa o contro qualcuno? Sei d’accordo con l’autrice dell’articolo quando sostiene che ciò che indossiamo è una questione politica?

T3

Grandezza del Risorgimento

Paolo Peluffo, Limes, Quanto vale l’Italia, 2018

Gli italiani hanno dimenticato la rivoluzione nazionale o la considerano un insieme di cospirazioni. Essa ebbe invece radici e conseguenze profonde, europee e mondiali.

L’Italia ha un rapporto difficile con la propria storia. Gli italiani hanno spezzato il filo che li collega con il Risorgimento, cioè con i nonni dei nostri nonni, con il processo di unificazione nazionale, con le guerre di indipendenza, le decine di insurrezioni alla ricerca dell’autogoverno, alla conquista di uno Stato nazionale. Il revisionismo tende a prevalere nella lettura dei fatti che coinvolsero diverse generazioni di abitanti della penisola, assediati dagli interessi politici e strategici di francesi, britannici, austriaci, russi e del sommo pontefice. Il Risorgimento viene sempre più spesso dipinto come congiura di ristrette élite cittadine, soprattutto settentrionali, asservite attraverso legami settari a interessi stranieri. La fine del Regno delle Due Sicilie, culminata nella spedizione dei Mille, sarebbe stato il frutto di una cospirazione a guida britannica. Gli “eroi” risorgimentali sarebbero stati poco più che agenti sotto copertura di servizi segreti stranieri. Ma soprattutto sembrerebbe svanita l’aura che nei decenni passati circondava di eroismo e di epopea l’insieme di eventi che dal Congresso di Vienna alla guerra franco-prussiana del 1870 conducono alla nascita del Regno d’Italia, di uno Stato nazionale italiano, costituzionale, centralizzato, pur gravato per anni da una guerra civile permanente nelle province meridionali.

Ho sintetizzato in modo sommario quello che appare oggi il nostro punto di partenza del dibattito pubblico sul Risorgimento perché non credo a nessuna di queste ipotesi di partenza. Non è che problemi non ve ne siano, anche profondi, irrisolti, ma sono differenti da quelli considerati evidenti nel dibattito pubblico recente. […]

I fili interrotti tra il Risorgimento e gli italiani di oggi si sommano poi ai fili interrotti dai protagonisti del Risorgimento con i loro padri. Le tirate antifrancesi e antigiacobine di Mazzini hanno nociuto a conservare memoria del fatto che la Rivoluzione francese si era alimentata da idee che certo originavano da Rousseau, ma anche da Gaetano Filangieri e dal pensiero napoletano. Il papà di Giuseppe Mazzini, Giacomo, era un grande chirurgo genovese, fervente girondino. Il desiderio degli storici vicini alla casa reale dei Savoia-Carignano era di far dimenticare l’origine napoletana dell’illuminismo e del pensiero politico italiano, e l’asse tra Napoli e Milano che si creò nel periodo bonapartista, attestata dal ruolo centrale giocato sia a Napoli sia a Milano da Vincenzo Cuoco. […] Il Risorgimento appare dunque una fotografia ritagliata sui lati e con alcuni personaggi scontornati, altri cancellati per colpa non solo di “montatori” di oggi, ma anche di ieri. […]

Esistono quindi due problemi effettivi, risalenti indietro nel tempo. Il primo è la corretta periodizzazione del Risorgimento e la sua ridefinizione. Il secondo è l’identificazione della sua natura specifica in quanto processo rivoluzionario, che lo riporti alla motivazione di fondo che spingeva e unificava le volontà dei singoli: ottenere una costituzione, fondare il governo della legge.

Per quanto attiene al primo problema, mi pare chiaro che se noi isoliamo e restringiamo il Risorgimento a un periodo che inizia con l’insurrezione delle città del 1848 e alla guerra federale antiaustriaca del 1848-49 per concludersi con lo sgretolamento del Regno millenario delle Due Sicilie nel 1860 e la presa di Roma nel 1870, noi non assistiamo a una vera rivoluzione, ma a un insieme di fortunate cospirazioni che, dopo taluni episodi marginali del 1820 e del 1830, precipitano nelle mani diabolicamente abili del conte Camillo Benso di Cavour e nella furbizia avida e contadina del re Vittorio Emanuele. Se al contrario noi torniamo a una periodizzazione che parte dalla rivolta della Corsica, che tenta la trasformazione e la modernizzazione dello Stato napoletano prima della Rivoluzione francese e che vede episodi fondamentali nei tentativi che si sviluppano attorno alla figura ambigua di Gioacchino Murat dal 1813 al 1815, che operano a Milano negli stessi mesi per tentare la conservazione di uno Stato del Nord Italia, ecco che la prospettiva cambia completamente. Il Risorgimento appare l’autunno di una rivoluzione lungamente preparata che non riesce ad esplodere negli anni in cui era matura ed era guidata da una vera e propria direzione strategica basata sull’asse Napoli-Milano, dopo aver avuto nei decenni precedenti un’incubazione nel triangolo Napoli-Pisa-Corsica. […] Tra gli storiografi è ormai evidente come i cosiddetti “moti” (anche la scelta delle parole è significativa, sembra un diminutivo) del 1820-21 (si obliterano tra l’altro gli eventi dei cosiddetti “decabristi” russi) e del 1830-31 siano in realtà vasti movimenti rivoluzionari mondiali – sull’asse orizzontale delle rotte di navigazione Mar Nero-Grecia-Italia-Spagna-Sudamerica – guidati da una centrale operativa, con propri organi parlamentari e di controllo, basata a Parigi e guidata da vecchie glorie come il marchese Lafayette e il custode del tesoro di Bonaparte, il banchiere Jacques Lafitte. […]

Non è solo la dimensione europea e mondiale a cambiare la prospettiva della lettura di quel periodo, ma anche e soprattutto un’analisi più seria sulle motivazioni che spingevano alla lotta contro le autorità costituite. Non è tanto il Romanticismo a guidare gli animi di rivoluzionari che erano spesso poeti, scrittori, sognatori. È piuttosto il contrario: il Romanticismo viene elaborato all’interno delle strutture che tentano di disarticolare l’ordine mondiale del Congresso di Vienna […], con l’aiuto di bonapartisti e orleanisti, e prima avevano lottato contro l’autoritarismo di Bonaparte per poi aiutarlo a tornare al potere. Ma è la ricerca di un libro sacro, di un testo fondamentale per la vita degli uomini, quello che ci può chiarire il perché di un secolo intero di movimento rivoluzionario.

Leggiamo dunque ancora le pagine del giuramento della Giovine Italia di Mazzini del 1831, atto di nascita della nazione volontaria1. Leggiamo il testo della Costituzione della Repubblica Romana promulgato il 3 luglio 1849 sul Campidoglio, mentre le truppe francesi occupavano Roma: in esso vi sono elementi che conducono all’articolo 3, comma 2 della nostra Costituzione repubblicana, in ciò primo documento per impegno sociale in Europa. Leggiamo il testo della bozza di Costituzione della Repubblica napoletana del 1799. E leggiamo anche la bozza di costituzione dei carbonari, pubblicata a Parigi nel 1821 da Edme-Théodore Bourg de Saint’Edme. Quest’ultimo […] rappresenta un testo di eccezionale interesse perché unisce un elemento di democrazia partecipativa estrema, di origine giacobina, a elementi autocratici e sembra da ricondurre alla penna di un personaggio fondamentale della storia d’Italia, il lorenese Pierre-Joseph Briot, giacobino e poi prefetto dei re di Napoli. L’abbozzo di costituzione carbonara prefigura una repubblica federale con 21 parlamenti sovrani provinciali eletti a suffragio universale indiretto di quinto grado2. Con quel documento si chiude una lunga fase rivoluzionaria in cui lo scambio fondamentale è tra Francia e Italia, e ne inizia un’altra in cui prevale l’influenza britannica, prima con la manovre di Lord Bentinck3 e poi con maneggi oscuri che mirano alla smantellamento della fastidiosa potenza mediterranea di Napoli.


L’intrigo, la cospirazione, la corruzione, la malversazione, le azioni “false flag” sono presenti nella nostra vicenda risorgimentale? Certo che sì. È impossibile non considerare la vicenda del tesoro di 9 milioni di ducati d’oro consegnati pacificamente dai comandanti napoletani a Garibaldi e Crispi a Palermo durante l’armistizio provvisorio. Come non considerare l’acquisto in contanti da parte di Agostino Bertani di undici navi a vapore battenti bandiera statunitense (e con la presenza di ufficiali statunitensi) che per due mesi fanno la spola tra i porti di Genova e Livorno, Sardegna e Sicilia per trasportare oltre 22 mila volontari garibaldini? Ma la cospirazione è forse assente dal processo che conduce all’indipendenza dell’Irlanda, dai tentativi di liberazione nazionale della Polonia, dalle vicende dell’assedio di Montevideo, dalla guerra civile negli Stati Uniti? Il fatto storico, anche il più torbido, non ci toglie nulla di un processo di indipendenza e di conquista dell’autogoverno e in fondo dello Stato di diritto che gli italiani desideravano da secoli e cercavano attivamente dall’inizio del Settecento. Per questo ben vengano libri di controinformazione storica, anche revisionisti, perché accrescono il dibattito e ci spingono a non accettare chiavi di lettura banali che non hanno resistito al passare del tempo. L’Italia ha resistito. Il pensiero di uomini come Filangieri, Cuoco, Mazzini ha resistito, e forse vale la pena rileggerli, aprire di nuovo i loro libri. […].

 >> pagina 680 

COMPRENSIONE DEL TESTO

Dopo un’attenta lettura del testo, rispondi alle domande.


a. Quali sono i preconcetti sul Risorgimento italiano che l’autore intende confutare? (massimo 10 righe)












b. Quale periodizzazione del Risorgimento è proposta e come si differenzia dalle periodizzazioni canoniche? (massimo 10 righe)












c. Definire una nuova periodizzazione di un processo come il Risorgimento può cambiare la percezione del processo stesso? (massimo 10 righe)












d. In che senso si può parlare del Risorgimento come di un processo rivoluzionario? (massimo 10 righe)












e. Quali strategie espressive utilizza l’autore per argomentare e sostenere il proprio punto di vista e confutare la tesi contraria alla sua? (massimo 10 righe)











ANALISI E RIASSUNTO

Riassumi il contenuto del testo dell’autore indicando gli snodi del suo ragionamento. Puoi aiutarti compilando la seguente scheda di sintesi.


  Grandezza del Risorgimento
Problema

 

 

Tesi

 

 

Antitesi

 

 

Argomenti a favore della tesi

 

 

COMMENTO

L’autore denuncia il rischio che il Risorgimento appaia come «una fotografia ritagliata sui lati e con alcuni personaggi scontornati, altri cancellati per colpa non solo di “montatori” di oggi, ma anche di ieri». Come ha contribuito lo studio della storia del Risorgimento alla costruzione della tua idea di Italia? Esponi le tue riflessioni intorno alla tesi di fondo avanzata nel testo proposto, anche sulla base delle conoscenze acquisite nel tuo specifico percorso di studio.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
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Dal 1715 al 1900