20.1 Società in movimento

Per riprendere il filo…

Ancora a metà Ottocento l’industrializzazione era un fenomeno regionale, legato ai bacini minerari e fondato su settori bisognosi di capitali notevoli (meccanica e siderurgia), su nuove forme societarie e su ingenti finanziamenti pubblici e privati. In queste aree si era allora avviata una “rivoluzione dei trasporti” (treno, nave a vapore) e delle comunicazioni (telegrafo), si era rafforzata l’interdipendenza dei mercati ed erano cresciute migrazioni e urbanizzazione. Protagoniste di questa fase erano state le borghesie: composite minoranze con caratteristiche differenti da paese a paese ma accomunate da valori e stili di vita, oltre che dalla capacità di egemonizzare la cultura del tempo. Contro la modernità e la società borghese si erano schierate sia la Chiesa cattolica sia le diverse anime del socialismo. La prima aveva accentuato i richiami all’ortodossia e al potere assoluto del papa. Le seconde avevano fondato la Prima internazionale ma furono frenate dalle divisioni interne e da classi lavoratrici quasi ovunque ancora ristrette e disorganizzate.

20.1 Società in movimento

Demografia, strutture familiari e inurbamento
Causa e insieme conseguenza della modernizzazione avviata in alcune zone d’Europa e dell’America settentrionale [▶ cap. 10.2] fu l’accentuarsi dei trend demografici già registrati a inizio secolo: calo della mortalità, aumento della speranza di vita (da 30 a 50 anni), invecchiamento e più forte crescita della popolazione rispetto ad altre aree (1,5% contro 0,5%), nonostante il calo delle nascite particolarmente evidente soprattutto in regioni e fra comunità più evolute (Regno Unito, Impero tedesco, Francia, Wasp americani).

Così, nelle aree rurali più arretrate i modelli demografici e familiari restavano quelli tradizionali e ciò acuiva la fame contadina di terre. Altrove, invece, un’agricoltura meccanizzata meno bisognosa di braccia, la maggior scolarizzazione e il lavoro femminile fuori casa contribuivano a ritardare l’età del matrimonio e a diffondere la famiglia ristretta, prima prerogativa dei ceti medio-alti urbani [▶ cap. 10.3].

Ad affollare le città non era solo il generale incremento demografico, ma anche i massicci inurbamenti legati alla variegata offerta di lavoro nelle fabbriche, nei grandi porti, negli apparati burocratici e ai tanti mestieri connessi alla domanda di beni e servizi dei ceti abbienti. Il risultato era che, benché nel complesso la popolazione urbana restasse inferiore a quella rurale, gli abitanti dei centri con più di 5000 abitanti passarono dal 29% nel 1880 al 41% nel 1910, quando le città con almeno un milione di abitanti erano ormai 22 (10 in Asia, 8 in Europa e 4 nelle Americhe) e le capitali europee erano ormai quasi tutte grandi metropoli.

Città e modernità
Il modello di città occidentale, pur adeguato ai caratteri delle diverse civiltà, si impose sempre più come simbolo e culla della modernità. Essa stupiva i contemporanei non solo per le dimensioni, ma per la complessità: reti idriche, fognarie, elettriche e di trasporto ne occupavano il sottosuolo; edifici standardizzati o prefabbricati ne caratterizzavano le aree popolari; ponti in ferro, maestosi monumenti in acciaio e i primi grattacieli ne disegnavano il profilo; la pavimentazione stradale, le linee tramviarie e l’illuminazione artificiale modificavano l’arredo urbano, la circolazione e i ritmi di vita. Infine,pianificazioni urbanistichepiù razionali sostituivano i caotici e insalubri centri storici con una riorganizzata gerarchia degli spazi che identificavanuovi centri(grandi magazzini, stazioni ferroviarie) e vedeva i ceti medio-alti nelle vie più eleganti o in lussuosi quartieri residenziali lontani dal trambusto cittadino, mentre i ceti meno abbienti affollavano le periferie facendo ipendolariper recarsi a lavoro e i migranti tendevano spesso a concentrarsi inquartieri etnici:Little Italy e China Town a New York, Little Ireland a Manchester e Londra.

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Le migrazioni
Per molte persone l’inurbamento era in realtà solo una tappa all’interno di percorsi migratori multipli, spesso non lineari e in circa un terzo dei casi conclusi con il ritorno nei luoghi natii dopo aver accumulato, magari oltreoceano, il denaro per acquistare un pezzo di terra.

Fra le conseguenze dell’incremento demografico e della crisi della cerealicoltura europea di cui diremo sotto vi fu infatti l’aumento delle migrazioni transoceaniche. Benché quello migratorio fosse un fenomeno globale (11 milioni i cinesi, giapponesi e indiani negli Usa, nel Sudest asiatico e in Africa orientale), fra 1850 e 1914 esso riguardò soprattutto gli europei: 45 milioni di persone mossero dal Vecchio continente. In una prima fase si era trattato per lo più di tedeschi, scandinavi e britannici diretti verso gli Usa e le colonie britanniche. Nell’ultimo ventennio del secolo, però, rotte e protagonisti cambiarono e a migrare furono in maggioranza uomini e donne [▶ FONTI, p. 616] dell’Europa orientale e meridionale, gente che sfruttava la navigazione a vapore, le agevolazioni concesse dai  paesi di popolamento (cittadinanza, terre) e le catene migratorie per raggiungere le immense praterie del Sud America e del Midwest statunitense, per impiegarsi nelle industrie della costa orientale o nella costruzione delle ferrovie [▶ cap. 18.3], e per inseguire il miraggio di un facile arricchimento con l’oro trovato in California [ 1]. Il “sogno americano” si realizzava di rado. Ma i salari degli immigrati dequalificati erano spesso superiori a quelli percepiti in patria e l’emigrazione rappresentò una valvola di sfogo per diversi paesi europei, che erano sovrappopolati e le cui economie trovavano nelle  rimesse degli emigrati una cospicua integrazione alla  bilancia dei pagamenti.

Migrazioni verso paesi extraeuropei (in migliaia)
  1851-60 1861-70 1871-80 1881-90 1891-1900 1901-10
Germania 671 779 626 1342 527 274
Austria-Ungheria 31 40 46 248 440 1111
Spagna 3 7 13 572 791 1091
Francia 27 36 66 119 51 53
Italia 5 27 168 992 1580 3615
Norvegia 36 98 85 187 95 191
Portogallo 45 79 131 185 266 324
Regno Unito 1313 1572 1849 3259 2149 3150
Impero russo 58 288 481 911
Svezia 17 122 103 327 205 324
Svizzera 6 15 36 85 35 37/td>
Di entità molto minore, ma destinata a costituire un precedente importante, fu invece la migrazione nella Palestina ottomana di circa 30 000 ebrei fuggiti dai pogrom nell’Impero russo [▶ cap. 17.2] e dalla fame in Galizia e Romania fra 1881 e 1903. Per molti la Palestina era solo una tappa verso gli Usa. Eppure la “prima immigrazione” dette concretezza alle teorie sioniste [▶ cap. 15.4] e spinse molti ebrei a comprare terre nella regione con l’appoggio di influenti uomini d’affari ebrei come i Rothschild: si mettevano così le basi per un massiccio ritorno degli ebrei in Terrasanta.

20.2 Agricolture, industrializzazione e modernizzazione

L’agricoltura fra passato e futuro
Anche le campagne erano tutt’altro che statiche e uniformi. L’autoconsumo e la commercializzazione lungo i canali tradizionali caratterizzavano ancora le aree più arretrate, ma le migliori tecniche agricole, la specializzazione, nuovi macchinari e mezzi di trasporto consentivano ormai a tanti produttori di ridurre i costi, aumentare la produttività e vendere sul mercato globale

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Così, nell’ultimo quarto del secolo i grani americani, russi e australiani invasero i mercati e produssero un notevole abbassamento dei prezzi, che a sua volta ridusse la redditività delle terre e la produzione di cereali in molti paesi europei. La lunga fase di  deflazione che ne seguì fra 1873 e 1895 rovinò le aziende e i contadini meno competitivi soprattutto nell’Europa meridionale, spingendo molti paesi a introdurre misure protezionistiche [▶ capp. 14.8, 15.2, 16 e 17.2], che però non riuscirono a risollevare le agricolture nazionali e a frenare emigrazione e inurbamento.

La crescita economica globale e la nuova geografia dell’industrializzazione
Alla crisi di sovrapproduzione agraria fece da contraltare la crescita del commercio e dell’industria: aumentarono la produzione di ferro e acciaio, il prodotto interno lordo europeo (+ 40% fra 1894 e 1913), il volume degli scambi commerciali (+300% fra 1880 e 1914) e gli investimenti esteri (+ 700% fra 1870 e 1913). Insomma, più che un fisiologico periodo di calo dei prezzi dopo la crescita del 1817-50, la cosiddetta “Grande depressione” fu un fenomeno circoscritto alle agricolture europee meno avanzate, percepito come traumatico soprattutto per il peso dell’agricoltura in molte economie, per il suo interrompere un progresso ritenuto prima inarrestabile e perché il leader dell’economia mondiale cresceva non solo meno che in passato ma meno dei suoi nuovi concorrenti [ 2].

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Il Regno Unito restava infatti il principale centro finanziario e commerciale del mondo. Ma Stati Uniti, Impero tedesco e giapponese [▶ capp. 16, 18 e 19] incalzavano, e altri paesi stavano conoscendo un primo pur circoscritto “decollo” industriale: Svezia, Impero russo, Italia, Repubblica argentina e messicana [▶ capp. 14, 17 e 18]. Si entrava in una fase segnata dalla compresenza di più centri di sviluppo in competizione fra loro, ma che al contempo vedeva accrescersi ancora più che in passato lo scarto fra l’Occidente e il resto del mondo, la cui modernizzazione infrastrutturale e produttiva dipendeva in realtà da investimenti e da interessi europei e statunitensi.
I fattori di crescita
Allo sviluppo contribuirono diversi fattori. Il principale fu la crescita della domanda legata all’ulteriore integrazione del mercato mondiale, ai nuovi mercati coloniali e soprattutto alla domanda interna prodotta da ceti medi urbani più numerosi e benestanti.

Il possesso di carbone restava decisivo, anche se il petrolio e la corrente elettrica alternata iniziavano a coprire circa il 10% del fabbisogno energetico. Il primo fungeva da combustibile per riscaldamento, illuminazione e nuovi mezzi di trasporto (stufe, navi e automobili), oltre a dare impulso all’industria estrattiva e della raffinazione. La seconda, frutto degli studi sulle trasformazioni dell’energia di Michael Faraday e Nikola Tesla, alimentava motori elettrici, consentiva nuove invenzioni, stimolava l’industria elettrica, trovava ampio utilizzo nell’illuminazione grazie alla lampadina di Thomas Edison e favoriva la nascita di poli industriali in luoghi privi di materie prime, grazie alla sua trasportabilità mediante cavi [ 3].

I costi di imprese grandi e bisognose di mantenersi all’avanguardia resero necessario un sistema di capitalizzazione più vasto ed efficace. Il potenziamento delle Borse, il telegrafo e nuovi strumenti finanziari come i  futures ampliarono la platea degli investitori, sempre più composta da comuni risparmiatori, uomini d’affari e banche miste, il cui peso nella capitalizzazione delle grandi aziende produsse una strettissima compenetrazione fra finanza e industria. Altro denaro veniva dagli Stati, che sostenevano le industrie nazionali in parte gestendo direttamente imprese in settori strategici (ferroviario, siderurgico), in parte con le commesse per forniture militari e alla pubblica amministrazione, in parte con misure protezionistiche e in parte con un diritto commerciale che agevolava la costituzione di società per azioni e tollerava  cartelli trust quasi-monopoli creati per ridurre la concorrenza e controllare il mercato [▶ cap. 18.3].

A favorire gli scambi erano soprattutto due fattori. Da un lato la diffusione della “rivoluzione dei trasporti”, che a fine secolo portò la rete ferroviaria globale a essere otto volte più estesa che nel 1860, traforando montagne e interconnettendosi alle principali rotte marittime e fluviali, rese a loro volta più brevi da canali e da navi a vapore (poi a nafta) sempre più veloci, capienti e importanti anche nell’alimentare la domanda di petrolio come combustibile. Dall’altro lato, la nuova misurazione standardizzata del tempo ( fusi orari), regole comuni su brevetti e diritti d’autore, la pressoché universale validità delle leggi di commercio e navigazione, l’adesione di tutti i principali paesi alla parità aurea in modo da creare di fatto una moneta unica internazionale [▶ cap. 10.2]. L’accettazione di queste convenzioni non fu né immediata né pacifica, ma si entrava sempre più nell’epoca della standardizzazione e della simultaneità [ 4].

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900