12.3 La Guerra di Crimea

12.3 La Guerra di Crimea

In Europa, però, nessuno degli scontri avvenuti in Cina e in India ebbe gli echi della Guerra di Crimea (1853-56), un conflitto che scoppiò per le tensioni dell’ormai annosa “questione d’Oriente” [▶ cap. 9.2e che oppose su scala intercontinentale l’Impero russo a una coalizione composta da Impero ottomano, Francia e Regno Unito (poi affiancati dall’Impero asburgico e dal Regno di Sardegna).

La causa scatenante fu la gestione dei luoghi sacri nella Palestina ottomana, contesa fra cattolici e ortodossi. I primi erano appoggiati dalla Francia che vantava il ruolo guida avuto nelle crociate e che voleva inserirsi negli affari della Porta, assicurandosi anche lucrosa gestione dei pellegrinaggi. I secondi erano sostenuti dallo zar della “Santa Russia”, cui la Chiesa ortodossa attribuiva il merito di aver protetto i fedeli residenti nei territori ottomani sin dalla conquista di Costantinopoli nel 1453.

La contesa, che per alcuni anni si era mantenuta sul piano diplomatico, sfociò in guerra nel 1853: Nicola I rivendicò il diritto di intervenire in tutti i territori della Porta per proteggere gli ortodossi ma, vedendoselo rifiutare dal sultano, invase i principati ottomani di Valacchia e Moldavia, già da tempo sotto la sua influenza. Le truppe della Porta intrapresero allora una strenua guerra difensiva contro l’esercito zarista, tecnologicamente arretrato ma numeroso e appoggiato dagli ortodossi bulgari, da quelli serbi e dai nazionalisti greci, che speravano nell’indebolimento ottomano per concretizzare il loro progetto di una Grecia comprendente tutte le aree a maggioranza greco-ortodossa. Falliti i tentativi di mediazione asburgica, nel 1854 Napoleone III e il governo britannico decisero di stringere un’alleanza per combattere assieme al sultano [ 13] contro lo zar, spinti ognuno dalle proprie ragioni:

  • il sultano Abdulmecid I aveva bisogno di aiuto se voleva sconfiggere un nemico così potente, rivalersi per le precedenti perdite territoriali (la Crimea nel 1783, la Bessarabia nel 1810, la Grecia nel 1832) ed evitare una sollevazione popolare assai probabile in caso di ulteriori cessioni;
  • Napoleone III considerava la guerra un’occasione per rafforzare il consenso dei cattolici, dei conservatori e dei nostalgici della grandeur napoleonica, cui doveva la propria ascesa prima a presidente [▶ cap. 11.2] e poi a imperatore;
  • il governo britannico doveva dare un forte segnale di reazione alla minaccia portata agli interessi inglesi dal­l’espansionismo zarista e dalla concorrenza delle esportazioni russe di cereali attraverso il Mar Nero e il Danubio.

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Le operazioni delle truppe anglo-francesi furono però rallentate dall’impreparazione della macchina bellica britannica già impegnata su vari fronti coloniali, dalla lunga inimicizia tra i due alleati e dalle divergenze su strategia e scopi della guerra: Napoleone mirava infatti a coinvolgere prussiani e Asburgo in una vasta campagna che impegnasse le truppe zariste lungo tutto il confine occidentale dell’impero e nei Balcani; i britannici erano invece divisi fra il governo, intenzionato a limitarsi al ripristino della sovranità ottomana, e il cosiddetto “partito della guerra” guidato da Palmerston, desideroso di sfruttare il conflitto per annientare una volta per tutte la potenza zarista.

L’armata di Nicola si dovette così presto ritirare dai Balcani per evitare che gli Asburgo aderissero all’asse anglo-francese, e nell’agosto del 1854 parvero già esserci le condizioni per la pace. Tuttavia, gli alleati necessitavano di una vittoria per giustificare la notevole mobilitazione e tacitare chi – come Marx – ironizzava sugli 80-90 000 soldati francesi e ottomani in Bulgaria intenti «a non far nulla e gli inglesi ad aiutarli il più velocemente possibile». Perciò proseguirono la guerra spostando il teatro delle operazioni sul Baltico, nel Mar Bianco, sulle coste pacifiche dell’Impero russo e in Crimea [ 14]. Essi però non riuscirono a sfondare. Anzi, subirono molte perdite dovute soprattutto all’impreparazione logistica (poche informazioni, materiali inadatti all’inverno, cibo scarso), e ciò non fece che irritare ancor di più quella stessa opinione pubblica che prima era stata aizzata dalla russofobia e dal senso di superiorità rispetto al nemico.

Dall’assedio di Sebastopoli alla pace
Lo stallo fu superato solo nel 1855. A Londra Palmerston sostituì il più prudente Aberdeen alla guida del governo britannico. Lo zar Alessandro II (1855-81) successe a Nicola I e, pur volendo proseguire la politica panslavista del padre, fu costretto a fare i conti con il crescente desiderio di pace dei ceti abbienti russi, colpiti dall’aumento fiscale dovuto alla guerra, dalle perdite di servi arruolati e dai danni causati ai commerci dai blocchi navali alleati. Infine, l’alleanza antizarista si arricchì di due nuovi Stati: il Regno di Sardegna, che voleva così proporsi come potenza emergente nella penisola italiana, e l’Impero asburgico, che nel luglio del 1854 aveva inutilmente tentato di mediare tra i contendenti sulla base dei “Quattro punti” (tutela internazionale sui principati danubiani di Valacchia e Moldavia, libera navigazione sul Danubio, revisione degli accordi sul Mar Nero, rinuncia russa alla protezione dei sudditi ottomani ortodossi) e intendeva costringere lo zar a trattare minacciando un simultaneo attacco al suo confine sudoccidentale e nei Balcani. La minaccia ebbe il suo effetto. Alessandro decise di accettare i “Quattro punti”, ma Palmerston persuase l’alleato francese a proseguire il conflitto per conquistare l’intera Crimea e prendere Sebastopoli (la principale base navale zarista sul Mar Nero), in modo da ottenere condizioni di pace più vantaggiose [ 15].
Contrariamente alle attese dell’opinione pubblica anglo-francese, la caduta di Sebastopoli non pose però fine alla guerra. Alessandro anzi contrattaccò in Anatolia e cercò di aggirare l’intransigenza di Palmerston trattando con Francesco Giuseppe e soprattutto con Napoleone III, costretto a sua volta a trovare una via d’uscita che non sminuisse la vittoria né incrinasse i rapporti con l’alleato britannico, ma tenesse conto della spossatezza degli uomini in Crimea e dell’irritazione popolare per le nefaste conseguenze del conflitto sull’economia nazionale. Di lì a poco gli ultimi successi alleati, l’annuncio del prossimo ingresso di Svezia e Prussia nella coalizione e la minaccia francese di siglare una pace separata in caso di rifiuto britannico a trovare un compromesso imposero tanto allo zar quanto a Palmerston di sedersi al tavolo delle trattative.

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Una guerra grande e moderna
Si avviava alla conclusione una delle più grandi e moderne guerre del XIX secolo, con circa 750 000 caduti solo fra i militari.
Un simile numero di morti fu certamente dovuto alle malattie (colera, dissenteria, febbri) e ai limiti di una medicina militare pur in evoluzione [ 16], ma anche a una potenza di fuoco impressionante (150 milioni i colpi di fucile sparati, 5 milioni le bombe usate), ad armi più devastanti (il fucile a canna rigata Minié, di recente invenzione, i proiettili a penetrazione e scoppio ritardato), a tecniche destinate a grande fortuna (la trincea, le piccole unità) e alle innovazioni nei trasporti, che consentirono un’enorme mobilitazione (treno, navi a vapore).
La modernità della Guerra di Crimea risiedeva inoltre nel ruolo giocato dai mezzi di comunicazione. Il telegrafo accorciò i tempi di trasmissione delle informazioni da 5 giorni a poche ore. I giornali orientarono sempre più le opinioni pubbliche, a loro volta capaci di condizionare i rispettivi governi. Infine, la propaganda si fece più efficace con l’uso strumentale del reportage di guerra, una pratica adottata tanto dagli eserciti belligeranti quanto dalle forze contrarie al conflitto [▶ FONTI, p. 376]. Ciò fece della guerra non solo un vero evento mediatico raccontato da decine di reporter, ma pure l’attrazione di un turismo affamato dei suoi resti, divenuti presto ricercati souvenir (pezzi di mura di Sebastopoli, armi, brandelli di divise ecc.).
La Pace di Parigi e il nuovo ordine euroasiatico
A mettere la parola fine al conflitto fu il Congresso di Parigi del 1856, la cui sede sottolineava il definitivo ritorno della Francia al centro della politica europea.

Preceduto da diversi incontri preparatori soprattutto per moderare le pretese britanniche in chiave antizarista, l’incontro vide convergere le esigenze di Alessandro II, che cercava un appoggio per ridurre al minimo le perdite territoriali, e di Napoleone III, bisognoso dell’avallo russo al suo progetto di subentrare agli Asburgo nel controllo della penisola italiana, magari mediante accordi con il Regno di Sardegna, a sua volta riuscito a farsi riconoscere un ruolo di rilievo nello scacchiere italiano.

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L’accordo fu così trovato presto. Lo zar rinunciò sia al ▶ protettorato su Moldavia e Valacchia, tornate al sultano e garantite nella loro autonomia amministrativa e libertà di culto dalla tutela delle potenze contraenti, sia alla Bessarabia meridionale. Il che significava rinunciare a un prezioso accesso al Danubio, reso peraltro libero con la creazione di una Commissione internazionale incaricata di regolamentare e amministrare la navigazione in ossequio ai principi sanciti al Congresso di Vienna [▶ cap. 7.3]. Infine, Alessandro dovette accettare la ▶ smilitarizzazione del Mar Nero e lasciare così il suo confine meridionale nel Caucaso vulnerabile sia alle lotte separatiste dei locali popoli musulmani come i tatari e i circassi, sia a possibili attacchi ottomani: un’eventualità tanto più temibile ora che la Porta aveva ottenuto lo status di membro del “concerto europeo” negatole nel 1815 e quindi vedeva formalmente garantita la sua integrità territoriale e l’autonomia dalle ingerenze occidentali.

In cambio, però, Alessandro II strappò importanti concessioni. Da una parte, il silenzio sulla questione polacca, cara a Napoleone e sottolineata dai molti esuli di quel paese arruolatisi volontari nelle truppe anglo-francesi; dall’altra, la restituzione ai soli sacerdoti ortodossi delle chiavi dei luoghi sacri e l’obbligo imposto alla Porta di equiparare i sudditi cristiani ai musulmani: due vittorie morali da ostentare all’opinione pubblica interna.

La volontà alleata di non spezzare il delicato equilibrio sancito a Parigi consentì però allo zar soprattutto di realizzare massicce operazioni di ▶ chirurgia demografica. Già durante la guerra sia i russi sia gli ottomani avevano fomentato rivolte sfruttando le rispettive affinità religiose con popoli soggetti al nemico, e colpito civili accusati di parteggiare per la controparte. Così, nel riappropriarsi dei principati danubiani l’esercito ottomano aveva per esempio mutilato oltre 1400 prigionieri civili bulgari a Giurgiu ed espulso oltre 7000 famiglie ortodosse. Ma fu dopo la pace che da una serie di singoli episodi questa strategia divenne una politica sistematica quanto violenta. Prima l’armata zarista avviò una massiccia cristianizzazione della Crimea costringendo alla fuga circa 192 000 tatari con discriminazioni e intimidazioni (conversioni obbligate, aumento delle tasse, privazione dell’acqua e minaccia di esilio in Siberia). Poi, per il timore che appoggiassero un’incursione ottomana attraverso il Mar Nero ormai smilitarizzato, le autorità obbligarono subito circa 400 000 circassi a trasferirsi nelle pianure interne o nei territori della Porta, rimpiazzandoli con coloni di etnie politicamente più affidabili e dando vita a uno dei primi esempi di migrazione forzata in Eurasia: un fenomeno protrattosi sino agli anni Sessanta con altre migliaia di espulsi, e destinato poi a ripetersi in quest’area multietnica e multireligiosa anche nei decenni successivi [ 17].

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FONTI

Il reportage di guerra

Alla modernità della Guerra di Crimea contribuì il reportage di guerra, un genere giornalistico che, sfruttando l’apparente immediatezza e oggettività delle immagini, offriva al contempo una straordinaria forma di documentazione e un efficace strumento di propaganda. Il Regno Unito aggregò alle sue truppe il fotografo Roger Fenton con il preciso intento di fargli sì raccontare le ostilità, ma soprattutto di tranquillizzare l’opinione pubblica inglese preoccupata dalle notizie diffuse dalla stampa. Tra il marzo e il giugno 1855, quando fu colpito da colera e dovette rimpatriare, Fenton seguì i soldati in prima linea e fece oltre 300 scatti, poi messi in mostra in varie città. Le vendite furono in verità piuttosto fiacche, ma egli restava un pioniere del giornalismo fotografico e un fattore nel decidere il conflitto per il rassicurante messaggio con cui mantenne alto il consenso popolare alla guerra.

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12.4 L’Impero russo: lo sconfitto si modernizza

Una sconfitta pesante
La sconfitta patita in Crimea fu un duro colpo per l’Impero zarista: non tanto per le rinunce imposte allo zar dalla Pace di Parigi o per la necessità di tutelare il confine meridionale mediante lo spostamento forzato di popolazioni nel Caucaso, quanto per la diffidenza internazionale che circondava ora l’impero e soprattutto per il danno d’immagine arrecato al regime zarista, sul cui status di suprema potenza terrestre europea nessuno prima di allora avrebbe dubitato.
D’altro canto, tanto i soldati quanto la popolazione civile si erano battuti strenuamente. E questo rafforzava l’idea che le ragioni della sconfitta fossero da ricercare nei limiti insiti nell’autocrazia zarista e nell’arretratezza economico-sociale del paese rispetto al suo principale nemico, il Regno Unito. In realtà, l’area di Mosca vantava una fiorente e relativamente moderna industria tessile condotta con macchinari d’importazione ma da imprenditori russi, spesso ex commercianti o agricoltori che avevano fatto fortuna negli anni Quaranta. Mentre una cosmopolita comunità degli affari (russi, britannici, tedeschi, ebrei e svedesi, come la famiglia Nobel) animava la produzione metallurgica e l’attività finanziario-mercantile concentrata a San Pietroburgo. Tuttavia, si trattava di poche eccezioni in un quadro complessivamente segnato da un ritardo abissale rispetto all’industrializzato e liberale regno della regina Vittoria.

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Rinnovare l’assolutismo
Alessandro II dovette cedere alle pressioni dell’ala riformatrice e avviare un rinnovamento, il cui scopo restava però rafforzare l’assolutismo e ripristinare il prestigio internazionale dell’impero. Così, a partire dal 1861 alcuni funzionari con a capo i fratelli Nikolaj e Dmitrij Miljutin provarono finalmente a vincere le resistenze dell’aristocrazia più retriva e a porre le basi di una società e di uno Stato più vicini al vincente modello occidentale.
Nel 1861 furono emancipati i servi e furono loro dati in ▶ usufrutto pezzi di terra prima gestiti dalle comunità di villaggio (obščina) o di proprietà di nobili latifondisti, allo scopo di consentirne la sopravvivenza e non farne una pericolosa massa di nullatenenti facile a creare disordini. Sul piano giuridico, l’emancipazione costituì una rivoluzione di cui, pur con grandi differenze fra una regione e l’altra, nel complesso gli ex servi beneficiarono sia in termini economici sia di status: essi, infatti, migliorarono un po’ i propri introiti e soprattutto si videro riconosciuti i diritti garantiti dalle leggi zariste agli uomini liberi. Tuttavia, in pratica l’emancipazione ebbe effetti contraddittori per vari motivi. In primo luogo, restava intatta la struttura sociale del villaggio con la sua rigida gerarchia e la facoltà di limitare la libertà di movimento e d’azione dei suoi membri, il che pregiudicava l’iniziativa anche degli uomini giuridicamente liberi. In secondo luogo, ampie aree demaniali furono concesse ai grandi proprietari come indennizzo per gli espropri, divenendo così accessibili ai contadini solo dietro pagamento. Infine, la somma dovuta per l’usufrutto risultava eccessivamente gravosa per molti contadini liberati, che così non erano in grado di modernizzare le proprie fattorie né di migliorare condizioni di vita miserrime: case sovraffollate e condivise con gli animali, malattie endemiche, analfabetismo, violenza sistematica sulle donne e una mortalità infantile attorno al 40%.

Vennero presi anche altri provvedimenti: fu addolcita la censura, l’esercito fu adeguato agli standard occidentali e fu attuata una riforma della giustizia. In seguito a una nuova rivolta nazionale polacca (1863-64) fu inoltre concessa qualche apertura liberale nel governo locale, pur accompagnata da una dura repressione e da una ancor più capillare russificazione della popolazione: il russo divenne la lingua della scuola e la denominazione ufficiale del pae­se passò da Regno di Polonia a Terra della Vistola, dal nome del più importante fiume che lo attraversava.

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Le tante anime del rinnovamento

L’afflato riformista favorì cultura e scienza, contribuendo alla maggiore pluralità di sensibilità e opinioni che caratterizzava ora l’▶ intelligencija.

Diversi intellettuali e scienziati collaborarono con il governo per promuovere lo sviluppo dell’impero, come il chimico Dmitrij Mendeleev (autore della tavola periodica degli elementi), mentre altri beneficiarono di finanziamenti statali o del mecenatismo di aristocratici illuminati, grazie ai quali compositori come Anton Rubinštejn e Pëtr Ilič Čajkovskij poterono fare di San Pietroburgo un grande centro culturale e la capitale mondiale del balletto. Non mancò chi ebbe problemi con il regime: il liberale Ivan Turgenev, autore di Padri e figli e primo romanziere russo a conquistare vasta fama in Occidente; il conte Lev Tolstoj, già famoso per I racconti di Sebastopoli scritti da volontario nella città assediata e poi malvisto dal potere e dalla Chiesa ortodossa per le sue idee pacifiste; infine Fëdor Dostoevskij, che passò quattro anni in un carcere siberiano per la sua iniziale adesione al socialismo utopistico, ma poi assunse posizioni reazionarie, cupamente religiose e antioccidentali.

Nel quadro di questa modernizzazione e di questa fioritura culturale [ 18] si inserivano poi i vari gruppi che animavano il dibattito sulla situazione dell’impero all’indomani della Guerra di Crimea, spesso confondendosi fra loro e ibridando le rispettive posizioni, ma grossomodo divisi tra:

  • i neoliberali filoccidentali, imbevuti di positivismo darwinista e favorevoli a un riformismo gradualista perché convinti che l’autocrazia fosse anacronistica ma che il popolo non fosse ancora pronto a un regime costituzionale;
  • i nichilisti, così chiamati per il loro rifiuto di credere a qualsiasi idea o valore radicato nel passato, e soprattutto di riconoscere qualsiasi autorità;
  • conservatori, ancora divisi al loro interno ma sempre più su posizioni slavofile e nazionaliste, che accettavano le riforme ma ne rifiutavano sia i modelli occidentali sia la volontà d’intaccare le basi delle comunità contadine (mir), considerate il cardine dell’armonia sociopolitica dell’impero;
  • i piccoli gruppi di studenti universitari di idee più o meno radicali ispirati dalle riflessioni dello scrittore e filosofo Aleksandr Ivanovič Herzen e di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, antizarista, antindustrialista e fautore dell’emancipazione femminile, del rifiuto delle convenzioni sociali, nonché promotore di un socialismo agrario incentrato sulla comunità di villaggio quale soggetto collettivo di produzione e distribuzione della ricchezza, perciò antidoto alle storture insite nei sistemi capitalistico-borghesi occidentali.

Il divieto di costituire associazioni politiche impedì però a questi gruppi di agire pubblicamente e di partecipare al processo riformatore, riducendoli a società clandestine. E ciò tanto più dopo un tentativo di attentato compiuto da un giovane radicale contro lo zar (4 aprile 1866), che lo spinse a una svolta autoritaria e repressiva.

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12.5 L’Impero ottomano fra riforme e tensioni

Riforme e pluralismo
Benché marginale tanto sul campo di battaglia quanto ai tavoli delle trattative, formalmente l’Impero ottomano era fra i vincitori della Guerra di Crimea. Esso vi era giunto certo fiaccato dalle crisi greca ed egiziana degli anni Trenta [▶ cap. 9.2], ma anche avviato sulla strada di riforme ambiziose, intraprese sin da inizio secolo con lo scopo di modellare l’esercito sugli esempi occidentali; ripartire fra più ministri le funzioni tradizionalmente affidate al solo gran visir, potenziare il sistema scolastico e soprattutto ridurre l’autonomia di corpi intermedi e governatori locali mediante la creazione di una rete di fedeli funzionari governativi e la soppressione del corpo dei giannizzeri [▶ cap. 0] e delle potenti confraternite dei ▶ dervisci.

Ancora a metà dell’Ottocento, il carattere dominante della società ottomana era però il pluralismo, rafforzato dalla mancata ricezione del moderno concetto di nazione [▶ cap. 5.4] e dal plurilinguismo [ 19]. A definire le identità collettive era perciò soprattutto la religione, tanto più che il diritto islamico coesisteva con le leggi dello Stato e garantiva i pieni diritti civili ai soli musulmani, lasciando che i sudditi di altre fedi si organizzassero per gruppi confessionali – detti millet – e dotati di autonomia nell’amministrazione della giustizia e dei servizi per i loro membri (scuole, assistenza).

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Con il tempo, però, la situazione mutò. Da un lato le riforme in senso centralistico iniziarono a gravare eccessivamente sul bilancio dello Stato, che fu costretto a battere moneta e a sottopagare i suoi funzionari, alimentando così l’inflazione e un’endemica corruzione nella pubblica amministrazione. Dall’altro, pian piano si iniziarono pericolosamente a squilibrare i rapporti di forza fra le comunità confessionali: le minoranze cristiane non solo triplicarono in pochi decenni grazie alla più bassa mortalità (dovuta alla maggior ricchezza e all’esenzione dalla leva), ma si affermarono in ambito mercantile e finanziario grazie all’impossibilità di perseguire carriere politico-militari, alla conoscenza delle lingue occidentali e alla correligionarità con quei partner europei che godevano di vantaggiosi trattati commerciali con la Porta.
Il Tanzimat

Ciò non frenò lo slancio riformista, che anzi si rafforzò fino a caratterizzare con il termine Tanzimat (“Riforme”) l’intero periodo compreso fra il 1839 e il 1876. Nonostante la continuità con gli sforzi dei decenni precedenti, il Tanzimat se ne differenziava in almeno due aspetti. Da una parte, il motore delle riforme non fu il sultano ma il governo, interessato a guadagnarsi così la benevolenza delle potenze occidentali ma sinceramente convinto della necessità di modernizzare il paese per garantirne la sopravvivenza. Dall’altra, i riformisti erano portatori di una più ampia concezione delle competenze statali, chiamate ora a regolare la vita socioeconomica e politico-istituzionale del paese integrando legge islamica e leggi dello Stato [ 20].

Il primo atto del Tanzimat, già nel 1839, era stato infatti quello di tutelare l’onore e i beni di tutti i sudditi ottomani senza distinzioni etno-religiose. Ma fu dopo la Guerra di Crimea che le riforme si moltiplicarono. Proprio durante la Conferenza di Parigi del 1856 un editto esplicitamente ispirato allo Stato di diritto occidentale abrogò la giurisdizione separata dei millet e ammise i non musulmani nella burocrazia e nell’esercito. Seguirono poi altri provvedimenti: fu abolita la pena di morte per ▶ apostasia; furono istituiti tribunali laici per giudicare i non musulmani; furono aperte almeno nelle grandi città scuole statali alternative alle ▶ màdrase e agli istituti dei missionari cristiani; fu riorganizzata l’amministrazione periferica seguendo il modello napoleonico e infine una nuova legge sulla cittadinanza emanata nel 1869 annullò ogni residua distinzione fra musulmani e “infedeli” in nome della comune appartenenza alla multietnica e multireligiosa patria ottomana.

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L’ottomanismo e il suoi limiti

Questa nuova concezione di nazionalità imperiale, chiamata “ottomanismo”, e la connessa occidentalizzazione dei costumi, incontrarono però resistenza da più parti:

  • le gerarchie religiose non islamiche, timorose di veder eroso il proprio potere nei loro millet;
  • le masse musulmane, infastidite dalla parificazione concessa agli infedeli a dispetto del diritto islamico e dall’atteggiamento sprezzante dell’élite ottomanista verso la cultura tradizionale;
  • le potenze straniere, favorevoli all’occidentalizzazione della società e alla tutela delle minoranze cristiane, ma preoccupate di perdere i privilegi commerciali e giurisdizionali garantiti ai loro mercanti dal tradizionale sistema dei millet;
  • i funzionari pubblici e gli intellettuali detti “Giovani ottomani”, critici verso lo strapotere della burocrazia filottomanista, antioccidentali e convinti sostenitori di un riformismo ispirato all’ortodossia dell’islam, nonostante la presenza fra loro di atei positivisti e i tanti spunti in realtà attinti ai modelli europei.
Più ancora delle tante ostilità, a limitare l’effetto omogeneizzante delle riforme ottomaniste furono però due fattori: da un lato il crescente peso delle identità nazionali nell’autodefinizione dei popoli sottomessi al sultano; dall’altro, la sempre più spiccata avversione dei musulmani per le minoranze cristiane, che le nuove norme non più discriminanti e improntate a un pur moderato laicismo acuivano piuttosto che placare.
Altre tensioni

Ciò che le cancellerie occidentali liquidavano come semplice arretratezza o come l’ormai nota “questione orientale” era dunque un groviglio inestricabile di tensioni politico-religiose, diplomatiche ed economiche in cui convergevano almeno tre elementi:

  • le resistenze opposte da corpi intermedi e da alcuni popoli alla centralizzazione del potere attuata con il Tanzimat, soprattutto nelle province più remote (in quelle bulgare, in Valacchia e in Moldavia);
  • la progressiva deislamizzazione e il diffondersi di una vera e propria turcofobia fra i cristiani del Sudest europeo, con le prime espulsioni di musulmani e la cancellazione degli elementi culturali islamici (tratti linguistici, moschee);
  • l’intrecciarsi fra le mire espansionistiche degli zar sui Balcani e sugli stretti (Dardanelli e Bosforo) e la penetrazione economica franco-britannica nell’Impero ottomano, che nel 1854 aveva fruttato a una società francese la concessione per la costruzione del canale di Suez.

Minata dalle irrisolte questioni connesse al quadro geopolitico euroasiatico e dalle conseguenze del suo stesso riformismo, la Sublime Porta si avviava così a vivere gli ultimi decenni della sua secolare storia.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900