12.3 La Guerra di Crimea
In Europa, però, nessuno degli scontri avvenuti in Cina e in India ebbe gli echi della Guerra di Crimea (1853-56), un conflitto che scoppiò per le tensioni dell’ormai annosa “questione d’Oriente” [▶ cap. 9.2] e che oppose su scala intercontinentale l’Impero russo a una coalizione composta da Impero ottomano, Francia e Regno Unito (poi affiancati dall’Impero asburgico e dal Regno di Sardegna).
La causa scatenante fu la gestione dei luoghi sacri nella Palestina ottomana, contesa fra cattolici e ortodossi. I primi erano appoggiati dalla Francia che vantava il ruolo guida avuto nelle crociate e che voleva inserirsi negli affari della Porta, assicurandosi anche lucrosa gestione dei pellegrinaggi. I secondi erano sostenuti dallo zar della “Santa Russia”, cui la Chiesa ortodossa attribuiva il merito di aver protetto i fedeli residenti nei territori ottomani sin dalla conquista di Costantinopoli nel 1453.
La contesa, che per alcuni anni si era mantenuta sul piano diplomatico, sfociò in guerra nel 1853: Nicola I rivendicò il diritto di intervenire in tutti i territori della Porta per proteggere gli ortodossi ma, vedendoselo rifiutare dal sultano, invase i principati ottomani di Valacchia e Moldavia, già da tempo sotto la sua influenza. Le truppe della Porta intrapresero allora una strenua guerra difensiva contro l’esercito zarista, tecnologicamente arretrato ma numeroso e appoggiato dagli ortodossi bulgari, da quelli serbi e dai nazionalisti greci, che speravano nell’indebolimento ottomano per concretizzare il loro progetto di una Grecia comprendente tutte le aree a maggioranza greco-ortodossa. Falliti i tentativi di mediazione asburgica, nel 1854 Napoleone III e il governo britannico decisero di stringere un’alleanza per combattere assieme al sultano [ 13] contro lo zar, spinti ognuno dalle proprie ragioni:
- il sultano Abdulmecid I aveva bisogno di aiuto se voleva sconfiggere un nemico così potente, rivalersi per le precedenti perdite territoriali (la Crimea nel 1783, la Bessarabia nel 1810, la Grecia nel 1832) ed evitare una sollevazione popolare assai probabile in caso di ulteriori cessioni;
- Napoleone III considerava la guerra un’occasione per rafforzare il consenso dei cattolici, dei conservatori e dei nostalgici della grandeur napoleonica, cui doveva la propria ascesa prima a presidente [▶ cap. 11.2] e poi a imperatore;
- il governo britannico doveva dare un forte segnale di reazione alla minaccia portata agli interessi inglesi dall’espansionismo zarista e dalla concorrenza delle esportazioni russe di cereali attraverso il Mar Nero e il Danubio.
Le operazioni delle truppe anglo-francesi furono però rallentate dall’impreparazione della macchina bellica britannica già impegnata su vari fronti coloniali, dalla lunga inimicizia tra i due alleati e dalle divergenze su strategia e scopi della guerra: Napoleone mirava infatti a coinvolgere prussiani e Asburgo in una vasta campagna che impegnasse le truppe zariste lungo tutto il confine occidentale dell’impero e nei Balcani; i britannici erano invece divisi fra il governo, intenzionato a limitarsi al ripristino della sovranità ottomana, e il cosiddetto “partito della guerra” guidato da Palmerston, desideroso di sfruttare il conflitto per annientare una volta per tutte la potenza zarista.
L’armata di Nicola si dovette così presto ritirare dai Balcani per evitare che gli Asburgo aderissero all’asse anglo-francese, e nell’agosto del 1854 parvero già esserci le condizioni per la pace. Tuttavia, gli alleati necessitavano di una vittoria per giustificare la notevole mobilitazione e tacitare chi – come Marx – ironizzava sugli 80-90 000 soldati francesi e ottomani in Bulgaria intenti «a non far nulla e gli inglesi ad aiutarli il più velocemente possibile». Perciò proseguirono la guerra spostando il teatro delle operazioni sul Baltico, nel Mar Bianco, sulle coste pacifiche dell’Impero russo e in Crimea [ 14]. Essi però non riuscirono a sfondare. Anzi, subirono molte perdite dovute soprattutto all’impreparazione logistica (poche informazioni, materiali inadatti all’inverno, cibo scarso), e ciò non fece che irritare ancor di più quella stessa opinione pubblica che prima era stata aizzata dalla russofobia e dal senso di superiorità rispetto al nemico.
Dall’assedio di Sebastopoli alla pace
Lo stallo fu superato solo nel 1855. A Londra Palmerston sostituì il più prudente Aberdeen alla guida del governo britannico. Lo zar Alessandro II (1855-81) successe a Nicola I e, pur volendo proseguire la politica panslavista del padre, fu costretto a fare i conti con il crescente desiderio di pace dei ceti abbienti russi, colpiti dall’aumento fiscale dovuto alla guerra, dalle perdite di servi arruolati e dai danni causati ai commerci dai blocchi navali alleati. Infine, l’alleanza antizarista si arricchì di due nuovi Stati: il Regno di Sardegna, che voleva così proporsi come potenza emergente nella penisola italiana, e l’Impero asburgico, che nel luglio del 1854 aveva inutilmente tentato di mediare tra i contendenti sulla base dei “Quattro punti” (tutela internazionale sui principati danubiani di Valacchia e Moldavia, libera navigazione sul Danubio, revisione degli accordi sul Mar Nero, rinuncia russa alla protezione dei sudditi ottomani ortodossi) e intendeva costringere lo zar a trattare minacciando un simultaneo attacco al suo confine sudoccidentale e nei Balcani. La minaccia ebbe il suo effetto. Alessandro decise di accettare i “Quattro punti”, ma Palmerston persuase l’alleato francese a proseguire il conflitto per conquistare l’intera Crimea e prendere Sebastopoli (la principale base navale zarista sul Mar Nero), in modo da ottenere condizioni di pace più vantaggiose [ 15].Una guerra grande e moderna
Si avviava alla conclusione una delle più grandi e moderne guerre del XIX secolo, con circa 750 000 caduti solo fra i militari.La Pace di Parigi e il nuovo ordine euroasiatico
A mettere la parola fine al conflitto fu il Congresso di Parigi del 1856, la cui sede sottolineava il definitivo ritorno della Francia al centro della politica europea.Preceduto da diversi incontri preparatori soprattutto per moderare le pretese britanniche in chiave antizarista, l’incontro vide convergere le esigenze di Alessandro II, che cercava un appoggio per ridurre al minimo le perdite territoriali, e di Napoleone III, bisognoso dell’avallo russo al suo progetto di subentrare agli Asburgo nel controllo della penisola italiana, magari mediante accordi con il Regno di Sardegna, a sua volta riuscito a farsi riconoscere un ruolo di rilievo nello scacchiere italiano.
L’accordo fu così trovato presto. Lo zar rinunciò sia al ▶ protettorato su Moldavia e Valacchia, tornate al sultano e garantite nella loro autonomia amministrativa e libertà di culto dalla tutela delle potenze contraenti, sia alla Bessarabia meridionale. Il che significava rinunciare a un prezioso accesso al Danubio, reso peraltro libero con la creazione di una Commissione internazionale incaricata di regolamentare e amministrare la navigazione in ossequio ai principi sanciti al Congresso di Vienna [▶ cap. 7.3]. Infine, Alessandro dovette accettare la ▶ smilitarizzazione del Mar Nero e lasciare così il suo confine meridionale nel Caucaso vulnerabile sia alle lotte separatiste dei locali popoli musulmani come i tatari e i circassi, sia a possibili attacchi ottomani: un’eventualità tanto più temibile ora che la Porta aveva ottenuto lo status di membro del “concerto europeo” negatole nel 1815 e quindi vedeva formalmente garantita la sua integrità territoriale e l’autonomia dalle ingerenze occidentali.
In cambio, però, Alessandro II strappò importanti concessioni. Da una parte, il silenzio sulla questione polacca, cara a Napoleone e sottolineata dai molti esuli di quel paese arruolatisi volontari nelle truppe anglo-francesi; dall’altra, la restituzione ai soli sacerdoti ortodossi delle chiavi dei luoghi sacri e l’obbligo imposto alla Porta di equiparare i sudditi cristiani ai musulmani: due vittorie morali da ostentare all’opinione pubblica interna.
FONTI
Il reportage di guerra
Alla modernità della Guerra di Crimea contribuì il reportage di guerra, un genere giornalistico che, sfruttando l’apparente immediatezza e oggettività delle immagini, offriva al contempo una straordinaria forma di documentazione e un efficace strumento di propaganda. Il Regno Unito aggregò alle sue truppe il fotografo Roger Fenton con il preciso intento di fargli sì raccontare le ostilità, ma soprattutto di tranquillizzare l’opinione pubblica inglese preoccupata dalle notizie diffuse dalla stampa. Tra il marzo e il giugno 1855, quando fu colpito da colera e dovette rimpatriare, Fenton seguì i soldati in prima linea e fece oltre 300 scatti, poi messi in mostra in varie città. Le vendite furono in verità piuttosto fiacche, ma egli restava un pioniere del giornalismo fotografico e un fattore nel decidere il conflitto per il rassicurante messaggio con cui mantenne alto il consenso popolare alla guerra.
12.4 L’Impero russo: lo sconfitto si modernizza
Una sconfitta pesante
La sconfitta patita in Crimea fu un duro colpo per l’Impero zarista: non tanto per le rinunce imposte allo zar dalla Pace di Parigi o per la necessità di tutelare il confine meridionale mediante lo spostamento forzato di popolazioni nel Caucaso, quanto per la diffidenza internazionale che circondava ora l’impero e soprattutto per il danno d’immagine arrecato al regime zarista, sul cui status di suprema potenza terrestre europea nessuno prima di allora avrebbe dubitato.Rinnovare l’assolutismo
Alessandro II dovette cedere alle pressioni dell’ala riformatrice e avviare un rinnovamento, il cui scopo restava però rafforzare l’assolutismo e ripristinare il prestigio internazionale dell’impero. Così, a partire dal 1861 alcuni funzionari con a capo i fratelli Nikolaj e Dmitrij Miljutin provarono finalmente a vincere le resistenze dell’aristocrazia più retriva e a porre le basi di una società e di uno Stato più vicini al vincente modello occidentale.Vennero presi anche altri provvedimenti: fu addolcita la censura, l’esercito fu adeguato agli standard occidentali e fu attuata una riforma della giustizia. In seguito a una nuova rivolta nazionale polacca (1863-64) fu inoltre concessa qualche apertura liberale nel governo locale, pur accompagnata da una dura repressione e da una ancor più capillare russificazione della popolazione: il russo divenne la lingua della scuola e la denominazione ufficiale del paese passò da Regno di Polonia a Terra della Vistola, dal nome del più importante fiume che lo attraversava.
Le tante anime del rinnovamento
L’afflato riformista favorì cultura e scienza, contribuendo alla maggiore pluralità di sensibilità e opinioni che caratterizzava ora l’▶ intelligencija.
Diversi intellettuali e scienziati collaborarono con il governo per promuovere lo sviluppo dell’impero, come il chimico Dmitrij Mendeleev (autore della tavola periodica degli elementi), mentre altri beneficiarono di finanziamenti statali o del mecenatismo di aristocratici illuminati, grazie ai quali compositori come Anton Rubinštejn e Pëtr Ilič Čajkovskij poterono fare di San Pietroburgo un grande centro culturale e la capitale mondiale del balletto. Non mancò chi ebbe problemi con il regime: il liberale Ivan Turgenev, autore di Padri e figli e primo romanziere russo a conquistare vasta fama in Occidente; il conte Lev Tolstoj, già famoso per I racconti di Sebastopoli scritti da volontario nella città assediata e poi malvisto dal potere e dalla Chiesa ortodossa per le sue idee pacifiste; infine Fëdor Dostoevskij, che passò quattro anni in un carcere siberiano per la sua iniziale adesione al socialismo utopistico, ma poi assunse posizioni reazionarie, cupamente religiose e antioccidentali.
Nel quadro di questa modernizzazione e di questa fioritura culturale [ 18] si inserivano poi i vari gruppi che animavano il dibattito sulla situazione dell’impero all’indomani della Guerra di Crimea, spesso confondendosi fra loro e ibridando le rispettive posizioni, ma grossomodo divisi tra:
- i neoliberali filoccidentali, imbevuti di positivismo darwinista e favorevoli a un riformismo gradualista perché convinti che l’autocrazia fosse anacronistica ma che il popolo non fosse ancora pronto a un regime costituzionale;
- i nichilisti, così chiamati per il loro rifiuto di credere a qualsiasi idea o valore radicato nel passato, e soprattutto di riconoscere qualsiasi autorità;
- i conservatori, ancora divisi al loro interno ma sempre più su posizioni slavofile e nazionaliste, che accettavano le riforme ma ne rifiutavano sia i modelli occidentali sia la volontà d’intaccare le basi delle comunità contadine (mir), considerate il cardine dell’armonia sociopolitica dell’impero;
- i piccoli gruppi di studenti universitari di idee più o meno radicali ispirati dalle riflessioni dello scrittore e filosofo Aleksandr Ivanovič Herzen e di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, antizarista, antindustrialista e fautore dell’emancipazione femminile, del rifiuto delle convenzioni sociali, nonché promotore di un socialismo agrario incentrato sulla comunità di villaggio quale soggetto collettivo di produzione e distribuzione della ricchezza, perciò antidoto alle storture insite nei sistemi capitalistico-borghesi occidentali.
Il divieto di costituire associazioni politiche impedì però a questi gruppi di agire pubblicamente e di partecipare al processo riformatore, riducendoli a società clandestine. E ciò tanto più dopo un tentativo di attentato compiuto da un giovane radicale contro lo zar (4 aprile 1866), che lo spinse a una svolta autoritaria e repressiva.
12.5 L’Impero ottomano fra riforme e tensioni
Riforme e pluralismo
Benché marginale tanto sul campo di battaglia quanto ai tavoli delle trattative, formalmente l’Impero ottomano era fra i vincitori della Guerra di Crimea. Esso vi era giunto certo fiaccato dalle crisi greca ed egiziana degli anni Trenta [▶ cap. 9.2], ma anche avviato sulla strada di riforme ambiziose, intraprese sin da inizio secolo con lo scopo di modellare l’esercito sugli esempi occidentali; ripartire fra più ministri le funzioni tradizionalmente affidate al solo gran visir, potenziare il sistema scolastico e soprattutto ridurre l’autonomia di corpi intermedi e governatori locali mediante la creazione di una rete di fedeli funzionari governativi e la soppressione del corpo dei giannizzeri [▶ cap. 0] e delle potenti confraternite dei ▶ dervisci.Ancora a metà dell’Ottocento, il carattere dominante della società ottomana era però il pluralismo, rafforzato dalla mancata ricezione del moderno concetto di nazione [▶ cap. 5.4] e dal plurilinguismo [ 19]. A definire le identità collettive era perciò soprattutto la religione, tanto più che il diritto islamico coesisteva con le leggi dello Stato e garantiva i pieni diritti civili ai soli musulmani, lasciando che i sudditi di altre fedi si organizzassero per gruppi confessionali – detti millet – e dotati di autonomia nell’amministrazione della giustizia e dei servizi per i loro membri (scuole, assistenza).
Il Tanzimat
Ciò non frenò lo slancio riformista, che anzi si rafforzò fino a caratterizzare con il termine Tanzimat (“Riforme”) l’intero periodo compreso fra il 1839 e il 1876. Nonostante la continuità con gli sforzi dei decenni precedenti, il Tanzimat se ne differenziava in almeno due aspetti. Da una parte, il motore delle riforme non fu il sultano ma il governo, interessato a guadagnarsi così la benevolenza delle potenze occidentali ma sinceramente convinto della necessità di modernizzare il paese per garantirne la sopravvivenza. Dall’altra, i riformisti erano portatori di una più ampia concezione delle competenze statali, chiamate ora a regolare la vita socioeconomica e politico-istituzionale del paese integrando legge islamica e leggi dello Stato [ 20].
L’ottomanismo e il suoi limiti
Questa nuova concezione di nazionalità imperiale, chiamata “ottomanismo”, e la connessa occidentalizzazione dei costumi, incontrarono però resistenza da più parti:
- le gerarchie religiose non islamiche, timorose di veder eroso il proprio potere nei loro millet;
- le masse musulmane, infastidite dalla parificazione concessa agli infedeli a dispetto del diritto islamico e dall’atteggiamento sprezzante dell’élite ottomanista verso la cultura tradizionale;
- le potenze straniere, favorevoli all’occidentalizzazione della società e alla tutela delle minoranze cristiane, ma preoccupate di perdere i privilegi commerciali e giurisdizionali garantiti ai loro mercanti dal tradizionale sistema dei millet;
- i funzionari pubblici e gli intellettuali detti “Giovani ottomani”, critici verso lo strapotere della burocrazia filottomanista, antioccidentali e convinti sostenitori di un riformismo ispirato all’ortodossia dell’islam, nonostante la presenza fra loro di atei positivisti e i tanti spunti in realtà attinti ai modelli europei.
Altre tensioni
Ciò che le cancellerie occidentali liquidavano come semplice arretratezza o come l’ormai nota “questione orientale” era dunque un groviglio inestricabile di tensioni politico-religiose, diplomatiche ed economiche in cui convergevano almeno tre elementi:
- le resistenze opposte da corpi intermedi e da alcuni popoli alla centralizzazione del potere attuata con il Tanzimat, soprattutto nelle province più remote (in quelle bulgare, in Valacchia e in Moldavia);
- la progressiva deislamizzazione e il diffondersi di una vera e propria turcofobia fra i cristiani del Sudest europeo, con le prime espulsioni di musulmani e la cancellazione degli elementi culturali islamici (tratti linguistici, moschee);
- l’intrecciarsi fra le mire espansionistiche degli zar sui Balcani e sugli stretti (Dardanelli e Bosforo) e la penetrazione economica franco-britannica nell’Impero ottomano, che nel 1854 aveva fruttato a una società francese la concessione per la costruzione del canale di Suez.
Minata dalle irrisolte questioni connesse al quadro geopolitico euroasiatico e dalle conseguenze del suo stesso riformismo, la Sublime Porta si avviava così a vivere gli ultimi decenni della sua secolare storia.
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900