12.1 Il Regno Unito nell’età vittoriana

Per riprendere il filo…

Nel trentennio successivo al Congresso di Vienna, il Regno Unito aveva sperimentato tensioni sociali, riforme, un progressivo ma prudente coinvolgimento nelle vicende continentali e il consolidamento della sua egemonia politico-commerciale fuori d’Europa. Se però il dominio della regina Vittoria conosceva resistenze sia in Irlanda sia nelle più remote regioni asiatiche (Cina e Afghanistan), nazionalismi, liberalismi e spinte secessioniste avevano rappresentato un problema ben più grave per altri due grandi imperi, quello russo e quello ottomano. Lo zar aveva dovuto reprimere il moto decabrista del 1825 e l’insurrezione polacca del 1830-31, prima di poter acuire il carattere centralista e autocratico del suo regime e gettare le basi di una dottrina della nazionalità ufficiale fondata sul binomio russificazione-ortodossia. Il sultano aveva sì avviato un primo processo di modernizzazione e centralizzazione del potere, ma aveva nel frattempo subito pesanti perdite territoriali (la Serbia, la Grecia) e restava oggetto delle mire espansionistiche delle altre potenze.

12.1 Il Regno Unito nell’età vittoriana

Una fase felice, ma non facile
L’età vittoriana iniziata nel 1837 è solitamente considerata una fase felice della storia britannica.

Sul piano culturale, l’analfabetismo scese notevolmente e il paese conobbe una straordinaria fioritura artistico-letteraria, favorita dalla libertà d’espressione che era garantita dal regime costituzionale e di cui beneficiavano anche i tanti esuli stranieri riparati a Londra (Mazzini, Marx, Kossuth ecc.) [▶ altri LINGUAGGI, p. 359].

Sul piano politico-istituzionale, furono anni di consolidamento per il sistema parlamentare e di graduale ma progressivo ampliamento del suffragio (dal 15% dei maschi adulti del 1832 al 60% dopo le riforme del 1867 e del 1884). Mentre dunque la regina si limitava a un simbolico ruolo di orientamento nonostante simpatie conservatrici e il suo enorme prestigio, la scena politica fu dominata dall’alternanza al governo fra i liberali di William Gladstone e i conservatori di Benjamin Disraeli. Questi due partiti attraversarono occasionali scissioni e rimescolamenti, ma con continuità riconobbero il crescente peso dei lavoratori urbani di reddito più elevato (operai specializzati, artigiani, commercianti), ora ammessi al voto e dal 1871 autorizzati allo sciopero. Con la stessa continuità, essi perseguirono poi un riformismo disciplinante e moralista in tanti ambiti: ridussero a 10 ore l’orario di lavoro dei bambini nelle fabbriche, innalzarono l’obbligo scolastico fino a 11 anni e migliorarono l’igiene nelle città con nuovi sistemi fognari, ispettori di sanità per verificare le condizioni dei locali pubblici e controlli medici obbligatori per le prostitute sospette di malattie veneree.

Proprio il modello comportamentale improntato a un perbenismo ipocrita di matrice cristiana e a valori quali morigeratezza, conformismo e autocontrollo fu un tratto tipico della società vittoriana, massima espressione della cosiddetta “società borghese” [▶ cap. 10.3]. La rispettabilità e una netta separazione fra sfera pubblica e privata divennero un obbligo imprescindibile per i gentleman, mentre decoro e pudicizia informarono la pedagogia, le scelte professionali, la socialità, i passatempi e la moda femminili: un canone conservatore che fissava la donna nella tradizionale immagine di subordinato “angelo del focolare”, criminalizzando “donne perdute” (prostitute, madri single), omosessuali e ▶ dandy (come Oscar Wilde).

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Forte di un impero globale che garantiva materie prime e mercati, il Regno Unito aveva un netto primato produttivo e commerciale, nonostante il profilarsi della concorrenza statunitense e tedesca (produceva metà del ferro e due terzi del carbone mondiale e controllava un quarto del commercio internazionale con la flotta e la rete ferroviaria migliori d’Europa). Poté così improntare al liberismo le sue politiche: nel 1846 abolì le Corn Laws [▶ cap. 9.4] sotto le pressioni dei cartisti, della liberista Anti-Corn-Law League di Richard Cobden e – come vedremo – della carestia irlandese; poi, nel 1860, stipulò vantaggiosi trattati liberoscambisti, fra cui quello con la Francia che introduceva la cosiddetta clausola della ▶ nazione più favorita.
I mancati introiti prima garantiti dai dazi si sommarono però ai costi del colonialismo e del riformismo, gravando un bilancio statale già in deficit e acuendo vecchi e nuovi problemi, fra cui le tensioni fra aristocrazia terriera e borghesia imprenditoriale e mercantile, le diseguaglianze socioeconomiche [ 1], il degrado degli ▶ slums nelle città industriali, l’endemica criminalità urbana (9000 prostitute solo a Londra, oltre 50 000 reati denunciati ogni anno in Inghilterra e casi clamorosi come quello di Jack lo Squartatore), il diffusissimo lavoro minorile (i bambini erano impiegati perlopiù come operai, spazzacamini e lustrascarpe) [ 2] e il pauperismo. Contro i problemi di ordine sociale si batté il cartismo, ottenendo qualche successo (la riduzione dell’orario lavorativo a 10 ore) e guadagnandone in popolarità, prima però di finire assorbito nel più moderato movimento operaio dopo la repressione che nel 1846 ne colpì l’ala estremista assieme ad alcuni nazionalisti irlandesi.

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altri linguaggi

La letteratura vittoriana

L’età vittoriana rappresentò l’età dell’oro della letteratura inglese. Fu in particolare il romanzo a esaltare il progresso della società imperiale britannica quanto a descriverne problemi e paure. Così, mentre un’ampia produzione celebrava un paese modello di liberalismo e sviluppo, critiche e ironia colpivano tanto il sistema politico-istituzionale quanto il ritualizzato conformismo borghese. Spietata era l’analisi della piccola nobiltà provinciale alla vigilia della riforma elettorale del 1832 fatta in Middlemarch (1874) di Mary Anne Evan (nota con lo pseudonimo maschile di George Eliot per non urtare una società profondamente maschilista). Irriverente era la satira insita in Alice nel paese delle meraviglie (1865) di Charles Lutwidge Dodgson (noto come Lewis Carroll), in cui la Regina di cuori alludeva addirittura a Vittoria. Infine, feroce era l’attacco al perbenismo e all’ipocrisia vittoriani de Il ritratto di Dorian Gray (1890) dell’irlandese Oscar Wilde.

La “questione sociale” fu invece denunciata soprattutto dai romanzi sociali di Charles Dickens, che offrivano uno spaccato realistico della miserrima vita quotidiana negli slums, della sofferenza dei bambini-lavoratori (Le avventure di Oliver Twist e David Copperfield) e delle ingiustizie prodotte da liberismo e utilitarismo (Tempi difficili).

Anche l’imperialismo fu letto in vari modi. Ambigui erano i racconti di James Conrad, mentre romanzi (Il libro della giungla) e poesie (Il fardello dell’uomo bianco) di Joseph Rudyard Kipling evocavano l’esotica bellezza delle colonie e incitavano gli inglesi a civilizzare anche forzatamente i barbari popoli extraeuropei.

In particolare dopo la rivolta indiana del 1857 le resistenze delle popolazioni sottomesse e i timori per la tenuta dell’impero rafforzarono anche in letteratura il nesso fra imperialismo, razzismo e Britishness. Memorialistica e travelogues (racconti di viaggio) descrissero sempre più il mondo coloniale come irriconoscente, immorale e pericoloso in quanto lontano dall’Inghilterra culla della civiltà. E lo stesso fece la narrativa destinata alle classi medie come la popolarissima saga di Sherlock Holmes scritta da Arthur Conan Doyle. Mentre Holmes incarnava il perfetto gentleman inglese (arguto, concreto, elegante, onesto), quasi due terzi dei primi 38 racconti (1888-1902) vedevano nella parte del cattivo uno straniero o un inglese traviato da un soggiorno coloniale, come il dottor Roylott nella Avventura della banda maculata ( The Adventure of the Speckled Band,1892), «tormentato dalle più selvagge passioni» dopo anni a Calcutta. E molti erano gli episodi che – come Il segno dei quattro (1890) – rievocavano le brutalità commesse dagli insorti indiani, descrivendoli come subumani dal «furore quasi animalesco» e dai «lineamenti così profondamente segnati dalla bestialità e dalla crudeltà».

Il colonialismo britannico trovava così piena legittimazione nella difesa dall’innata e criminogena crudeltà delle genti conquistate, nella sua provvidenziale missione storica di civilizzazione e nel riconoscimento della sua superiorità morale rispetto alle dominazioni ispano-francesi.

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La radicalizzazione del malcontento irlandese

Per il Regno Unito, però, i problemi più seri venivano dai popoli assoggettati, a cominciare dagli irlandesi.

Più che placarlo, l’emancipazione del 1829 [▶ cap. 9.4] aveva alimentato il malcontento nazionalista, che trovò nella cosiddetta “Grande fame” (in gaelico an Gorta Mór) del 1845-50 un ulteriore motivo per definirsi, radicalizzarsi e diffondersi. Nel 1845 la peronospora della patata, il fungo che aveva già danneggiato i raccolti americani del 1843-44, giunse in Europa settentrionale provocando una devastante carestia: in Irlanda, la superficie coltivata a patate (principale sostentamento della popolazione) si ridusse dell’85%, i ceti inferiori rurali furono ridotti alla fame e molti piccoli proprietari terrieri dovettero ipotecare i loro poderi o cercare lavoro come braccianti salariati [ 3].
Alla catastrofe cercarono di far fronte le diverse Chiese, facendone propizia occasione di proselitismo, ma aumentando così le già forti tensioni interreligiose. Dal canto suo, il governo britannico avviò lavori pubblici per impiegare circa 750 000 disoccupati, aprì mense per i poveri (3 milioni di pasti al giorno nell’agosto 1847) e abrogò le Corn Laws, permettendo l’importazione del grano statunitense e abbassandone così il prezzo. Questi sforzi si scontravano però con il deficit di bilancio e con le teorie liberiste e utilitariste circa l’assistenza pubblica. Perciò, furono limitati nel tempo e vennero compensati con un aumento della pressione fiscale in base alla logica della New Poor Law, estesa all’Irlanda nel 1847 nell’erronea convinzione che il peggio fosse passato. Pur generando un’ondata di gratitudine filobritannica nelle aree che ne furono più beneficiate, così gli aiuti risultarono inefficaci. E ciò consentì ai nazionalisti di descrivere la Grande fame come un genocidio effetto della dominazione inglese, facendone un episodio centrale nella costruzione identitaria irlandese, sempre più definita in chiave antibritannica.

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In realtà i principali corresponsabili di oltre un milione di morti per stenti o malattie furono le classi dirigenti e i ceti agiati anglo-irlandesi: le prime erano preoccupate che l’elettorato, composto soprattutto dalle classi medie urbane inglesi contrarie ad aumenti fiscali per loro insostenibili, abbracciasse le posizioni democratiche e filoperaie del cartismo [▶ cap. 9.4]; i secondi erano interessati a esportare grano in mercati dai prezzi maggiori (l’Inghilterra in primis) e ad acquistare a buon mercato i terreni ipotecati dai piccoli contadini indebitati.
L’Irlanda fra diaspora e nazionalismo
La carestia determinò profondi e duraturi mutamenti nella società irlandese. Innanzitutto causò la ▶ diaspora della popolazione: un fenomeno enorme (4 500 000 persone fra il 1815 e il 1870), interconfessionale (prima più protestanti, poi sempre più cattolici), interclassista (oltre ai contadini affamati, classi medie e proprietari terrieri) e dalla cospicua componente femminile (molte donne nubili partivano per emanciparsi dalla patriarcale e bigotta società contadina). Folte comunità nacquero tanto nelle città industriali inglesi e scozzesi, quanto in ▶ colonie di popolamento britanniche come l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sud Africa: segno che il grosso dell’emigrazione aveva ragioni economiche (disponibilità di terre e di posti in eserciti o amministrazioni coloniali) e non era una forma di protesta contro la dominazione inglese, come denunciato invece dai nazionalisti. Più ancora gli irlandesi si diressero negli Stati Uniti [ 4] e in Canada (nel 1871 il 24% dei canadesi era nato in Irlanda), dove scontavano discriminazioni e stereotipi ma potevano sfruttare le ▶ catene migratorie, l’anglofonia (che in patria si affermò anche per questo ai danni del gaelico), l’alto tasso di alfabetizzazione, il sostegno delle rispettive chiese (che volevano fare degli emigrati veicolo di proselitismo), la familiarità con un meccanismo di voto non troppo diverso da quello vigente nel Regno Unito, nonché la capacità di mobilitare le comunità di connazionali in loco per avere successo e diventare con il tempo uno dei gruppi nazionali più influenti (ben 12 presidenti statunitensi prima del 1914 avevano origini irlandesi).
Anche chi rimase sull’isola si trovò però in un contesto totalmente diverso. Grande fame, minore natalità ed emigrazione ridussero la popolazione di un quarto e ne alterarono la struttura sociale e linguistica, con la nascita di una nuova piccola borghesia e il dimezzamento dei parlanti gaelico, già in diminuzione per l’uso del latino e dell’inglese nella Chiesa cattolica e nel sistema educativo (dal 1833).

Sul piano economico, il calo demografico, la crescente domanda di cibo dei grandi centri urbani inglesi e la fragilità dei piccoli poderi evidenziata dalla carestia spinsero a una maggiore concentrazione delle terre nelle mani di proprietari, che si rivolsero sempre più alla produzione di latticini e carne per l’esportazione. A ciò si accompagnò una rapida industrializzazione, che fece di Belfast un grande polo cantieristico, ma produsse una netta polarizzazione fra un Nord industriale e un Sud agricolo, le cui sole fabbriche erano legate alla trasformazione di prodotti agroalimentari come la birreria Guinness. La Chiesa cattolica, ancora largamente maggioritaria, conobbe un profondo rinnovamento organizzativo e liturgico: rinunciò all’autonomia da Roma tenacemente difesa in passato e intensificò il controllo sui fedeli aumentando la presenza del clero nella società e la lotta alle tradizionali forme di sincretismo popolare fra culti cristiani e precristiani. Ciò spinse a sua volta la Chiesa protestante a fortificarsi nella sua ortodossia e a rimarcare le distanze.

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Infine, la decimazione dei fittavoli e dei piccoli contadini segnò la crisi del movimento nazionalista liberale di O’Connell [▶ cap. 9.4], che fra questi era popolare. Si aprì dunque una stagione nuova per il nazionalismo irlandese. Nel 1847 nacque infatti la Confederazione irlandese, che voleva una radicale riforma agraria per ricostituire la piccola proprietà contadina in un’Irlanda indipendente, repubblicana e interconfessionale. Lo scarso seguito e la fallita insurrezione nella contea di Tipperary, scoppiata sull’onda del Quarantotto [▶ cap. 11], ne segnarono però il rapido declino. Così nel 1858 nacque la Fratellanza Repubblicana Irlandese, un’organizzazione segreta finanziata dagli emigrati negli Usa i cui membri erano detti “feniani” perché epigoni dei leggendari cavalieri che la tradizione indicava come difensori dagli stranieri sotto la guida di Fionn Mac Cumhail [▶ oggetti].

Nonostante le riforme introdotte dal primo ministro britannico Gladstone fra il 1869 e il 1873 (separazione fra Stato e Chiesa protestante irlandese, nazionalizzazione dei suoi beni, prestiti ai contadini per comprare terra) e i suoi successivi tentativi di concordare con i nazionalisti moderati i termini di una maggiore autonomia, la “questione irlandese” s’incancrenì: le proposte di ▶ Home rule furono bocciate dal parlamento britannico due volte (1886 e 1893) e le ingenti cifre stanziate fra il 1885 e il 1896 per favorire la formazione di un più ampio ceto di piccoli proprietari non compensarono gli effetti del calo dei prezzi agrari negli anni Settanta, dovuto all’accresciuta concorrenza internazionale. Anzi, gli interventi finirono per suggerire l’idea che, per ottenere qualcosa, gli irlandesi dovessero tenere il governo sotto pressione. Così, pur divisi su punti cruciali, i movimenti nazionalisti intensificarono via via la loro azione parlamentare e di propaganda, mentre innumerevoli scontri costellarono le campagne sino alla Grande guerra.

  oggetti

Un simbolo di unità nazionale

L’indipendentismo irlandese ha avuto due vessilli per eccellenza: il tricolore e la bandiera dei “feniani”. Il primo fu ideato dai leader del movimento nazionalista recatisi a Parigi allo scoppio della rivoluzione del 1848. Esso era il simbolo di un’unità nazionale capace di pacificare (il bianco centrale) le fazioni politico-religiose tradizionalmente avverse: da una parte la maggioranza cattolica simboleggiata dal verde delle bandiere repubblicane e indipendentiste al tempo dell’opposizione agli Atti di unione del 1800; dall’altra i protestanti, associati all’arancione perché sostenitori di Guglielmo d’Orange nella battaglia contro il cattolico re d’Inghilterra Giacomo II a fine Seicento.

La bandiera dei feniani riprendeva invece il modello statunitense, con 32 stelle gialle (come le contee irlandesi) su sfondo verde. Entrambe, dunque, riflettevano la circolazione globale e le mutuazioni di simboli che caratterizzarono le costruzioni identitarie nazionali nell’Ottocento.

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12.2 Il potere globale di una nazione imperiale

La prosecuzione del progetto imperiale
Sostenuto da una netta superiorità tecnologico-militare e decisivo nel conservare al Regno Unito il primato politico ed economico a livello globale, lo slancio imperialista proseguì anche in questa fase, indipendentemente dal partito al governo, e si intrecciò sia con il prudente interventismo nelle questioni europee sia con le sapienti strategie matrimoniali orchestrate dalla regina Vittoria (una figlia sposerà Federico Guglielmo, re di Prussia e futuro imperatore tedesco con il nome di Federico III). 
Inoltre, lungi dall’essere considerato in patria come una necessità cui piegarsi con riluttanza, esso divenne parte integrante del discorso pubblico, della produzione artistica, dell’identità e dell’autorappresentazione britannica in età vittoriana [ 5]. Anche se, almeno sino alla rivolta indiana del 1857, non mancarono né una forte retorica antimperialista né alcune posizioni fermamente contrarie all’espansione oltremare.
Il progetto coloniale assunse una gran varietà di strategie e forme istituzionali al fine di assicurarsi sempre ai costi più bassi i territori funzionali agli interessi del Regno Unito. Ed esso ebbe notevoli risultati, considerato che portò sotto il controllo di Londra circa 25 milioni di chilometri quadrati e oltre 400 milioni di sudditi in più, oltre a estenderne l’influenza su diverse aree formalmente fuori dai confini dell’impero.

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Fra Americhe e Pacifico
Rispondeva alla necessità di evitare i costi della dominazione diretta la scelta di sostenere l’indipendenza degli Stati sudamericani senza ambire a conquiste territoriali (salvo le isole Falkland, occupate nel 1833 e rivendicate invano dall’Argentina), ma ottenendo vantaggiosi trattati di libero scambio che fecero del Regno Unito il principale partner commerciale europeo. Per la stessa ragione fu precocemente concessa una forma di autogoverno responsabile alle colonie dotate di un’affidabile élite locale bianca: il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda. Questi pae­si si impegnarono a pagarsi esercito e amministrazione, ma poterono istituire parlamenti a due Camere (una Bassa elettiva e una Alta scelta dal governatore, a sua volta nominato da Londra), che legiferavano su tutto tranne politica estera e commercio internazionale, controllati direttamente dal governo britannico. 
Ciò non eliminò del tutto le istanze indipendentiste, ma consentì di sfruttare al meglio le risorse e il potenziale demografico di questi paesi, come in Australia. Qui i galeotti deportati (150 000 fra il 1788 e il 1867), i tanti migranti attratti dalla disponibilità di terre e dagli incentivi governativi (circa 80 000 fra il 1830 e il 1840), nonché l’alta natalità di una popolazione per lo più in età fertile compensarono abbondantemente la drammatica riduzione degli aborigeni (da 300 000 nel 1788 a 80 000 un secolo dopo), vittime delle malattie europee ma soprattutto di leggi che ne stravolsero vita e usanze, di espropri giustificati con la presunta improduttività delle pratiche nomadiche e di spostamenti forzati nei territori loro destinati o in riserve [ 6].
L’espansione in Africa
Il motore dell’espansione in Africa, invece, era ancora l’iniziativa privata. A esploratori come David Livingstone e John H. Speke, per esempio, si dovettero rispettivamente l’attraversamento dell’Africa meridionale da ovest a est (1855) e delle regioni intorno al Lago Vittoria (1860-63). Mentre l’interesse di alcune compagnie britanniche per l’avorio e l’olio di palma (lubrificante per macchinari industriali e ingrediente del sapone) portò a ulteriori occupazioni, spesso con il pretesto di impedire ai francesi di alimentare lo schiavismo ormai bandito in tutto l’impero. 
I diamanti e l’oro scoperti in territori vicini alla Colonia del Capo spinsero i britannici a espandersi anche in quella regione, lasciando sino al 1872 l’intera area in una condizione di più stretta soggezione a Londra rispetto ad altre colonie ad autogoverno responsabile. Infine, la concessione fatta nel 1855 dal viceré egiziano per l’apertura di un canale a Suez e la necessità di ricorrere al cotone locale al posto di quello statunitense, crollato a causa della guerra civile (che studieremo più avanti), resero l’Egitto un obiettivo concreto e cruciale, pur perseguito con cautela per non indebolire ulteriormente l’Impero ottomano [ 7].
L’espansione in Asia
Nonostante i tentativi di dialogo fra lo zar Nicola I e la regina Vittoria dopo la Convenzione di Londra del 1840 [▶ cap. 9.2], l’espansionismo zarista restava una delle principali preoccupazioni britanniche. Nel Caucaso il Regno Unito difese l’integrità territoriale e le riforme dell’Impero ottomano in funzione appunto antizarista. In Asia centrorientale, dove i progetti egemonici risalenti a Pietro il Grande rappresentavano una minaccia agli interessi britannici sia nel subcontinente indiano sia in Cina, il Regno Unito creò una barriera difensiva: si alleò con lo scià di Persia (1841); stanziò di nuovo delle truppe nell’indipendente Afghanistan, da dove erano state cacciate nel 1842 [▶ cap. 9.4] infine, usò le alte catene montuose himalayane come scudo naturale rispetto a possibili attacchi da nord. 

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Nel frattempo, la penetrazione britannica in Asia proseguì sia nel Golfo Persico e nel Sudest, dove trattati commerciali resero Stati satelliti paesi come il Bahrein e il Siam (l’attuale Thailandia), sia in Cina. L’Impero cinese stava vivendo una grave crisi: l’ormai debole dinastia Qing a stento controllava il suo immenso territorio, mentre l’economia risentiva di ritardi, disfunzioni, marginalità rispetto ai processi di mondializzazione, oltre che delle conseguenze finanziarie (▶ drenaggio valutario) e sociali (tanti oppiomani) delle massicce importazioni di oppio, promosse dalla Compagnia britannica delle Indie orientali a dispetto del divieto cinese di vendita e di uso della sostanza.
Proprio i tentativi di contrastare il traffico clandestino dell’oppio prodotto in India scatenarono due conflitti fra l’Impero britannico e quello Qing. Nel 1839 scoppiò la Prima guerra dell’oppio, nata dalla distruzione di alcuni carichi scoperti a Canton da funzionari cinesi. Il conflitto fu vinto nel 1842 dai britannici che, con il Trattato di Nanchino, ottennero basse tariffe doganali per le proprie merci, l’apertura di cinque ▶ porti franchi e la cessione al Regno Unito dell’isola di Hong Kong. Sull’onda del successo britannico, due anni dopo anche Francia e Stati Uniti riuscirono a imporre alla Cina trattati commerciali a loro favorevoli. Poi, nel 1856, il persistere dei traffici provocò una Seconda guerra dell’oppio, chiusa nel 1860 con la loro legalizzazione, l’apertura anche delle vie fluviali ai commerci esteri, l’ammissione di missionari cristiani e regolari rapporti diplomatici con Londra, Parigi e Washington [ 8].

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L’Impero cinese, ancora formalmente indipendente, vide così ridurre la propria autonomia, impoverito da scambi svantaggiosi; fu anche colpito da catastrofi naturali mentre all’interno veniva indebolito dalla diffusa corruzione e percorso da tensioni dilanianti come la rivolta dei Taiping (1851-64), una lunga e costosa guerra civile con circa 20 milioni di morti [ 9]. A generare il conflitto fu la ribellione di parte della popolazione di etnia Han, maggioritaria nel Sud del paese. Fautori di un sincretico monoteismo egualitario a sfondo cristiano promosso dal movimento religioso noto come “Società degli adoratori di Dio”, gli insorti proclamarono la secessione e la nascita di un proprio Stato con capitale Nanchino (denominato Taiping tianguo, “Regno celeste della grande pace”). Essi si battevano per realizzare una riforma agraria, difendere gli interessi dei battellieri e dei mercanti di Canton danneggiati dallo spostamento dei traffici internazionali a Shanghai, nonché scacciare la dinastia Qing. Quest’ultima era considerata straniera (perché di etnia manciù e di religione confuciana), autoritaria, incapace di resistere alle pressioni occidentali e responsabile dell’emigrazione dei tantissimi cinesi costretti a trovar lavoro a pessime condizioni in Australia e nelle Americhe. Forte di un largo seguito, la rivolta impegnò le truppe imperiali per oltre un decennio.
Alla fine fu solo l’interessato aiuto franco-britannico, assieme a quello delle milizie irregolari della nobiltà locale preoccupata della piega egualitarista presa dal movimento, a consentire al potere centrale di riportare l’ordine, dimostrando però al contempo la sua sempre più evidente dipendenza dalle potenze straniere.

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Il consolidamento in India
L’area oltremare di gran lunga più importante per il governo britannico restava comunque l’India, sia dal punto di vista strategico, sia ancor più dal punto di vista economico. Molte delle acquisizioni territoriali britanniche si spiegavano infatti con la necessità di favorire gli scambi commerciali con il subcontinente indiano (i porti sul­l’Oceano Indiano, la Colonia del Capo) e, così come fatto per la Cina, di proteggerlo dalle mire di altre potenze con una barriera difensiva (dalla Persia alla Birmania del Sud). Ancora negli anni Trenta, i britannici residenti in India erano però pochi (45 000 su 150 milioni di abitanti), in larghissima parte uomini di quella Compagnia delle Indie cui il nuovo statuto del 1833 aveva ormai sottratto ogni monopolio commerciale per darle le fattezze di un vero e proprio ente governativo.
Furono questi funzionari che, volendo creare una classe dirigente indigena “anglicizzata” cui poi affidare il potere, ma ignari della complessità socioculturale indiana, imposero la forzata occidentalizzazione  [ 10] che inasprì i rapporti fra colonizzatori e colonizzati. I primi erano paladini di una modernizzazione ritenuta vantaggiosa per tutti, perché portava infrastrutture e una cultura superiore. Pur non ignorando i vantaggi della presenza europea, i secondi erano però sempre più insofferenti delle discriminazioni subite e della soggezione dei sistemi produttivi locali alle esigenze economiche dei conquistatori.
Al consolidamento dei domini già amministrati dalla Compagnia si accompagnò una progressiva espansione territoriale, avvenuta in due modi. A volte si lanciarono campagne militari, come le due guerre vinte fra il 1845 e il 1849 da truppe britanniche e del Bengala contro i ▶ sikh del Punjab. Altre volte si annessero automaticamente i regni privi di eredi maschi in base al cosiddetto “principio di decadenza”: una palese violazione della tradizione indù, che ammetteva la successione di figli adottati e altri soggetti designati dal sovrano prima di morire. I possedimenti britannici erano dunque notevolmente cresciuti [ 11], ma con loro l’instabilità della regione.

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La rivolta del 1857-58
Su una situazione già esplosiva, si innestò il malessere serpeggiante fra i soldati indigeni (sepoys). Già maggioritaria rispetto a quella europea, la componente locale dell’esercito anglo-indiano della Compagnia divenne sempre meno gestibile. L’urgenza di aumentarne le dimensioni a sostegno della spinta espansionista aveva infatti costretto non solo a derogare spesso alle indicazioni di Londra, che voleva i corpi composti da uomini di umili condizioni ed etnie diverse per prevenire rivolte, ma anche ad arruolare inesperti ufficiali tratti dalle classi medie: assenteisti, poco autorevoli e restii a usare i tradizionali ed efficaci strumenti disciplinari, preferendo il più umano e centralizzato sistema sanzionatorio definito a metà anni Quaranta. A ciò si aggiunsero le sempre più sprezzanti discriminazioni e il progressivo peggioramento delle condizioni di vita, necessari per rimarcare la superiorità della minoranza bianca e non aggravare i costi già elevatissimi. In seguito un nuovo regolamento previde possibili dislocazioni oltremare che, per i soldati indù di caste superiori, avrebbero comportato una perdita di rango. 

Fu questa frustrazione di lungo periodo, acuta soprattutto fra ufficiali e soldati indiani di ceti medio-alti, a sfociare in aperta rivolta. Nel maggio del 1857, quando si sparse la voce che le cartucce dei nuovi fucili erano lubrificate con grasso di bue o di maiale, insorsero per primi i reggimenti del Bengala, formati quasi esclusivamente da contadini omogenei dal punto di vista etnico e appartenenti a caste elevate di religione indù e musulmana, per le quali l’impiego dei due animali era un atto sacrilego.

In realtà, non era né la prima rivolta antibritannica in una colonia (oltre a Kabul, ve ne erano state a Ceylon nel 1848, in Cina, a Hong Kong e nell’arcipelago malese) né il primo ammutinamento di corpi indiani. Ma questo assunse caratteristiche e dimensioni che resero impossibile stroncarlo sul nascere. Infatti, benché circoscritto al Nord del paese e privo di una guida militare esperta, il movimento si saldò sin da subito con l’insofferenza per il dominio britannico della vecchia e ancora influente classe dirigente moghul e musulmana (che aveva appunto in Delhi il suo epicentro), con la protesta di contadini e proprietari terrieri per l’insostenibile pressione fiscale e con l’irritazione per l’occidentalizzazione forzata e le discriminazioni subite, finendo per costituire una sorta di guerra d’indipendenza almeno per quelle popolazioni che guardavano alle dinastie spodestate dai colonizzatori come i propri legittimi sovrani (i moghul, i maharatti).

A salvare i britannici furono più fattori. Importante fu la superiorità tecnologica, dato che le linee telegrafiche da poco installate fra Calcutta e la Delhi occupata dai rivoltosi consentirono ai comandi britannici di ben coordinare gli sforzi e gestire la campagna militare. Contò certo anche l’enorme mobilitazione: 200 000 uomini (di cui la metà europei) contro i 60 000 ribelli. Infine, decisiva fu l’abilità britannica nello sfruttare a proprio favore le rivalità etniche fra le popolazioni del subcontinente indiano. Furono truppe irregolari sikh a riprendere Delhi, non tanto per fedeltà alla corona quanto per vendetta contro l’esercito del Bengala che li aveva soggiogati un decennio prima. Così come fu l’odio di molti indù per la precedente dominazione moghul e musulmana a spingerli a parteggiare per i nuovi colonizzatori europei, garantendone la tenuta e poi la definitiva vittoria nel novembre del 1858.
Il controllo diretto e l’imperatrice Vittoria

L’ammutinamento indiano costituì non solo un momento di svolta nelle politiche coloniali britanniche, ma anche uno shock per la classe dirigente e l’opinione pubblica inglese: esso, infatti, aveva mostrato i limiti della Compagnia delle Indie nell’amministrare un territorio cruciale nel sistema imperiale e aveva smentito l’immagine di un imperialismo “soft” nelle modalità di conquista, liberale nella gestione delle colonie e quindi benaccetto dalle popolazioni sottomesse in quanto foriero di progresso.

Così stampa e letteratura cercarono di minimizzare l’accaduto. Lo presentarono come espressione di mera insoddisfazione corporativa, preferendo riferirsi a una simile insurrezione con il riduttivo nome di Indian Mutiny (ammutinamento), quindi con riferimento ai soli militari. In alternativa, lo attribuirono all’incapacità indiana di apprezzare i vantaggi della dominazione per connaturata malvagità o per l’inferiore livello evolutivo.

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Poi, cessato il pericolo, il governo attuò una serie di provvedimenti tesi a garantire un diretto controllo sulla regione. Un proclama della regina Vittoria del 1858 premiò i principi indipendenti rimasti fedeli garantendoli da rivendicazioni britanniche, ma pretese in cambio la loro soggezione alla corona [▶ FONTI, p. 370]. Nello stesso anno, la Compagnia delle Indie fu sciolta e rimpiazzata dall’Indian Civil Service, un’agenzia governativa capeggiata da un viceré e dipendente da un apposito ministero (l’India Office). La transizione richiese del tempo e molti dei funzionari della Compagnia non fecero altro che diventare dipendenti del Civil Service. Ma molte cose cambiarono. Furono migliorate le condizioni dei sepoys, riducendone però la percentuale rispetto alle truppe inglesi; fu posta più attenzione nella composizione dei reggimenti, preferendo membri dei ceti inferiori e sikh; fu riformata la giustizia penale; fu accelerata la costruzione di linee ferroviarie; furono indetti periodici censimenti e si intensificò notevolmente la collaborazione con le élite locali, nella convinzione che formarne i rampolli e incorporarne una piccola parte nella burocrazia ne avrebbe soddisfatto le aspettative di prestigio e garantito la lealtà.

Così Londra riuscì a ripristinare e consolidare il suo dominio sul subcontinente indiano, simboleggiato dalla nomina di Vittoria a imperatrice d’India nel 1876 [ 12]. Eppure, proprio la familiarizzazione dell’élite locale con la cultura occidentale, indotta dai britannici sin dagli anni Trenta, andava gettando le basi del nazionalismo indiano, che iniziò lentamente a maturare una più organica e radicale critica del colonialismo facendo riferimento alle dottrine politiche così assimilate.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900