L’età vittoriana rappresentò l’età dell’oro della letteratura inglese. Fu in particolare il romanzo a esaltare il progresso della società imperiale britannica quanto a descriverne problemi e paure. Così, mentre un’ampia produzione celebrava un paese modello di liberalismo e sviluppo, critiche e ironia colpivano tanto il sistema politico-istituzionale quanto il ritualizzato conformismo borghese. Spietata era l’analisi della piccola nobiltà provinciale alla vigilia della riforma elettorale del 1832 fatta in Middlemarch (1874) di Mary Anne Evan (nota con lo pseudonimo maschile di George Eliot per non urtare una società profondamente maschilista). Irriverente era la satira insita in Alice nel paese delle meraviglie (1865) di Charles Lutwidge Dodgson (noto come Lewis Carroll), in cui la Regina di cuori alludeva addirittura a Vittoria. Infine, feroce era l’attacco al perbenismo e all’ipocrisia vittoriani de Il ritratto di Dorian Gray (1890) dell’irlandese Oscar Wilde.
La “questione sociale” fu invece denunciata soprattutto dai romanzi sociali di Charles Dickens, che offrivano uno spaccato realistico della miserrima vita quotidiana negli slums, della sofferenza dei bambini-lavoratori (Le avventure di Oliver Twist e David Copperfield) e delle ingiustizie prodotte da liberismo e utilitarismo (Tempi difficili).
Anche l’imperialismo fu letto in vari modi. Ambigui erano i racconti di James Conrad, mentre romanzi (Il libro della giungla) e poesie (Il fardello dell’uomo bianco) di Joseph Rudyard Kipling evocavano l’esotica bellezza delle colonie e incitavano gli inglesi a civilizzare anche forzatamente i barbari popoli extraeuropei.
In particolare dopo la rivolta indiana del 1857 le resistenze delle popolazioni sottomesse e i timori per la tenuta dell’impero rafforzarono anche in letteratura il nesso fra imperialismo, razzismo e Britishness. Memorialistica e travelogues (racconti di viaggio) descrissero sempre più il mondo coloniale come irriconoscente, immorale e pericoloso in quanto lontano dall’Inghilterra culla della civiltà. E lo stesso fece la narrativa destinata alle classi medie come la popolarissima saga di Sherlock Holmes scritta da Arthur Conan Doyle. Mentre Holmes incarnava il perfetto gentleman inglese (arguto, concreto, elegante, onesto), quasi due terzi dei primi 38 racconti (1888-1902) vedevano nella parte del cattivo uno straniero o un inglese traviato da un soggiorno coloniale, come il dottor Roylott nella Avventura della banda maculata ( The Adventure of the Speckled Band,1892), «tormentato dalle più selvagge passioni» dopo anni a Calcutta. E molti erano gli episodi che – come Il segno dei quattro (1890) – rievocavano le brutalità commesse dagli insorti indiani, descrivendoli come subumani dal «furore quasi animalesco» e dai «lineamenti così profondamente segnati dalla bestialità e dalla crudeltà».
Il colonialismo britannico trovava così piena legittimazione nella difesa dall’innata e criminogena crudeltà delle genti conquistate, nella sua provvidenziale missione storica di civilizzazione e nel riconoscimento della sua superiorità morale rispetto alle dominazioni ispano-francesi.