Storie. Il passato nel presente - volume 2

Tensioni sociali e riforme
Il peso dell’opinione pubblica e i meccanismi di un sistema parlamentare saldamente ancorato al costituzionalismo liberale condizionarono la politica estera britannica ma fecero del Regno Unito un idealizzato modello per molti liberali europei.

In realtà, il paese era percorso da un profondo disagio, generato da più fattori:

  • i persistenti limiti di rappresentanza di un sistema politico-istituzionale in cui la corona giocava ancora un ruolo decisivo;
  • le forti diseguaglianze socioeconomiche prodotte dall’industrialismo;
  • la difficoltà di occupare la manodopera disponibile, più numerosa dopo la fine delle guerre napoleoniche;
  • il rincaro dei generi di prima necessità prodotto dalle Corn Laws, leggi mirate a tutelare i grandi proprietari terrieri dalla concorrenza straniera mediante alti dazi doganali sulle importazioni di grano.

Nel clima repressivo dei primi anni postrivoluzionari il governo non rinunciò a provvedimenti eccezionali contro le manifestazioni più violente di questo malcontento, sospendendo l’Habeas Corpus, estendendo la pena di morte ad alcuni reati contro la proprietà e limitando la libertà di stampa. Né mancarono episodi di repressione armata, come avvenne negli scontri scoppiati a St. Peter’s Field nel 1819 [ 17] e durante la settimana di scioperi in Scozia nota come Radical War (1820).

L’avvento di Robert Peel agli Interni (1822) inaugurò però una lunga fase riformista, condotta in sostanziale continuità dal partito conservatore dei Tories e dal partito liberale progressista dei Whigs. Furono così varati provvedimenti per far fronte alle drammatiche conseguenze sociali dell’industrialismo. Fu rimosso il divieto di associazione operaia, restituendo legittimità giuridica alle unioni sindacali di categoria nate a fine Settecento (Trade Unions). Altre leggi – dette Factory Acts – ridussero l’orario di lavoro in fabbrica, prescrissero un’istruzione minima ai bambini lavoratori e istituirono un ispettorato di fabbrica centralizzato per effettuare i controlli.

Queste misure resero il Regno Unito un paese all’avanguardia dal punto di vista normativo, ma non eliminarono gli abusi. La manodopera minorile, per esempio, rimaneva sottopagata. Anzi, in risposta alle nuove norme molti imprenditori ridussero le paghe anche del 25%, costringendo bambini di ambo i sessi a integrare il salario con attività pericolose o degradanti come lo spazzacamino o la prostituzione.

Nel 1834, quasi in contemporanea con la liberazione degli schiavi nelle colonie (1833), il Poor Law Amendment Act (poi noto semplicemente come New Poor Law) ridisegnò il sistema assistenzialistico alla luce delle teorie utilitariste, antinataliste e liberiste ormai predominanti [▶ capp. 1.3, 2.1 e 2.3]. I sussidi per i poveri furono standardizzati a livello nazionale, dopo secoli in cui erano stati elargiti da comuni e parrocchie con i soldi della “tassa sui poveri”. Allo stesso tempo, gli interventi furono però ridotti e l’unica forma di assistenza rimase il ricovero coatto in case di lavoro (workhouses). Infine, per limitare la natalità e scoraggiare pratiche sociali ritenute immorali, venne imposto alle sole madri l’obbligo di mantenere i figli illegittimi.

Anche l’impatto di queste misure non va esagerato. Il pauperismo non diminuì, i salari rimasero fermi e, ancora nel 1846, le workhouses ospitavano meno del 15% dei poveri. Ciò soprattutto per le resistenze di tanti indigenti che le consideravano una forma di segregazione carceraria, segnata da pessime condizioni di vita e da riprovazione sociale. E a ragione: anche nella patria del costituzionalismo liberale il confine fra poveri e criminali era labile agli occhi di classi agiate che se ne sentivano minacciate [ 18].

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La riforma elettorale e il Cartismo
Connessa alla rivisitazione della legislazione sociale fu la tanto attesa riforma elettorale (1832), che prevedeva un forte aumento del corpo elettorale (da 500 000 a 750 000 aventi diritto), una maggior rappresentanza dei sudditi scozzesi (come chiesto dagli scioperanti nel 1820) e una ripartizione delle  circoscrizioni elettorali che riduceva la sovrarappresentazione in parlamento dei grandi proprietari terrieri aristocratici, spesso eletti in piccolissimi collegi rurali più o meno coincidenti con i loro possedimenti.

La riforma fu però giudicata insoddisfacente dall’opposizione democratica e dalle frange più radicali delle Trade Unions, che la ritenevano un’apertura limitata alla sola borghesia imprenditorialcommerciale e ne contestavano le continuità con il passato: il voto censitario e le tante circoscrizioni ancora sotto i 500 abitanti. Sin dalla metà degli anni Trenta, si avviò così una campagna dura ma per lo più legalitaria, fatta di petizioni con milioni di firme, affollati meeting pubblici e scioperi. Nel 1838 fu poi redatta la Carta del popolo, il documento che sintetizzava le rivendicazioni del gruppo che da essa prese il nome di cartismo: suffragio universale maschile, garanzie sulla segretezza del voto, nessun obbligo di proprietà per potersi candidare, indennità per i deputati, durata annuale del mandato parlamentare (per scoraggiare l’acquisto dei voti da parte delle classi agiate), nonché un’ulteriore revisione delle circoscrizioni elettorali per assicurare una più equa proporzionalità fra elettori ed eletti [ 19].

I cartisti erano divisi sulle priorità da perseguire, fra chi poneva al centro la questione del voto e chi definiva invece il cartismo “una questione di pane e formaggio” per sottolinearne le istanze socioeconomiche. Eppure il gruppo rimase attivo oltre un decennio, per poi confluire progressivamente nel movimento operaio britannico. I suoi risultati furono alla fine piuttosto limitati, ma esso ebbe il merito di esercitare pressione su temi importanti.

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Governare un impero, da Kabul alla questione irlandese
Intanto, al trono era salita la regina Vittoria, che avrebbe regnato fino all’inizio del secolo successivo dando il suo nome a questa lunga fase, la cosiddetta “età vittoriana” (1837-1901).

Oltre a fronteggiare il malcontento interno, la nuova sovrana dovette gestire gli enormi problemi connessi alla dimensione imperiale dei suoi domini: da un lato quelli relativi all’amministrazione e alla difesa dei vastissimi territori sottoposti più o meno direttamente al suo potere; dall’altro, le resistenze delle popolazioni locali e il montare – almeno in qualche area – di veri e propri sentimenti nazionali e indipendentisti.

Il “secolo imperiale” del Regno Unito – che avrebbe avuto importanti sviluppi nella seconda metà dell’Ottocento – era d’altronde già iniziato: dell’impero facevano già parte, fra gli altri, Giava (1811), Singapore (1819), Malacca (1824), la Birmania (1826), il continente australiano (1829), le isole Falkland (1832) e le altre colonie gestite dalle Compagnie delle Indie. Nei decenni successivi sarebbero poi entrati nell’orbita britannica pure l’Impero cinese (1839-42), la Nuova Zelanda (1840), la neocostituita provincia del Canada (1841), Hong Kong (1843) e gli afrikaner (detti anche boeri) del Natal, in Sudafrica (1843).

Un insieme di esplorazioni, trattati internazionali e vere e proprie campagne militari in territori extraeuropei portò dunque i britannici a espandere continuamente i confini dell’impero, sottomettendo e amministrando popoli diversi [ 20]. A volte ciò avvenne pacificamente, come nell’acquisizione della Nuova Zelanda, che solo in seguito si ribellò (le guerre maori del 1845-47). Altre volte si giunse invece presto allo scontro armato, come nella Prima guerra dell’oppio contro i cinesi (1839-42) e nel conflitto contro l’Emirato dell’Afghanistan (1839-42), conclusosi con la rivolta di Kabul del 1842 e con il ritiro dei 16 000 britannici residenti nel paese, massacrati mentre fuggivano o morti per le condizioni climatiche estreme.

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Il Regno Unito doveva fare però i conti anche con battagliere minoranze religiose e nazionali molto più vicine, fra cui i cattolici irlandesi. Già ribellatisi al dominio britannico sull’onda della Rivoluzione francese (1798), l’Irlanda fu unita al regno nel 1800 con la falsa promessa del re di concedere pari diritti ai cattolici.

In realtà, solo nel 1829 il grande seguito popolare della Catholic Association guidata dal liberale Daniel O’Connell convinse il governo britannico a concedere ai cattolici il diritto di ricoprire cariche pubbliche senza giurare fedeltà all’anglicanesimo, come invece previsto dai Test Acts del XVII secolo. Una concessione analoga era stata fatta ai protestanti l’anno precedente, perciò si trattava di un provvedimento considerato da molti comunque imminente. Ma la sua approvazione sotto la minaccia di una rivolta separatista ne fece una straordinaria conquista agli occhi dell’opinione pubblica irlandese, che rafforzò la centralità del cattolicesimo nella costruzione identitaria nazionale. Restavano però vigenti altre forme di discriminazione, come l’obbligo di pagare la decima alla Chiesa anglicana d’Irlanda e, in generale, un rapporto di sudditanza sempre meno tollerato. Per tutti gli anni Trenta e Quaranta proseguirono quindi le proteste, con dimostrazioni contro la decima (la “Guerra della decima”, 1831-36) e la nascita della Repeal Association per la revoca degli Atti di unione del 1800 [▶ cap. 3.2]. Parallelamente, si costruiva un nazionalismo culturale fatto di oggetti, luoghi e simboli di un presunto passato preanglosassone: l’arpa, i canti e le danze tradizionali, la lingua e la letteratura  gaelica, i siti di storiche battaglie e così via [ 21]. La “questione irlandese” era tutt’altro che risolta.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900