Il Seicento come secolo di crisi?
La crisi del Seicento è stato uno dei temi più dibattuti dalla storiografia dell’età moderna. Gli storici, infatti, hanno di volta in volta ricondotto le tensioni che attraversarono l’Europa del XVII secolo a molteplici cause: il peso del prelievo fiscale, imposto tanto dalle tradizionali autorità feudali ed ecclesiastiche quanto da poteri statali sempre più organizzati e temuti; le difficoltà del settore agricolo; la lotta per le egemonie fra le grandi potenze monarchiche, che portava guerre e devastazioni; l’afflusso di metalli preziosi dalle Americhe, che aveva alterato le dinamiche della domanda e dell’offerta sui mercati europei.
Ma quale significato dare all’insieme di questi fenomeni? Si trattò di difficoltà diffuse ma indipendenti l’una dall’altra oppure di diverse manifestazioni di una stessa crisi generale che coinvolse tutti gli ambiti della società del tempo? Fu un fenomeno eccezionale o una fase di un movimento economico di tipo ciclico?
Crisi ciclica o specifica?
Osservando il problema in una prospettiva di lungo periodo e scoprendo che fra il XV e il XVIII secolo le fasi di contrazione o stagnazione furono seguite – talvolta anche sistematicamente, a intervalli regolari di 25 anni – da fasi di espansione, alcuni studiosi hanno rintracciato un carattere ciclico delle crisi dell’età moderna.
Altri, considerando la molteplicità dei fattori in gioco, hanno invece interpretato queste crisi come “specifiche”, vale a dire motivate da ragioni contingenti e indipendenti da qualsiasi regolarità. Nel Seicento, per esempio, le guerre non colpirono tutto il continente, o lo fecero in modo diverso (provocando distruzioni in area tedesca e italiana e svuotando di forza lavoro la Francia e la Spagna).
Gestazione del capitalismo?
Gli storici più attenti alle dinamiche economiche hanno letto la crisi del Seicento come conseguenza del contrasto fra le prime manifestazioni di una nuova intraprendenza mercantile e la persistenza di elementi di natura feudale. Per lo storico britannico Eric J. Hobsbawm (1917-2012) questa fu proprio l’epoca in cui si fecero strada una nuova concezione e una nuova pratica dei rapporti economici, incentrate sulla ricerca del profitto (cardine del sistema capitalistico).
L’italiano Ruggiero Romano (1923-2002) ha però messo in luce le contraddizioni di questo processo, osservando come molti mercanti dell’epoca preferissero ancora rifugiarsi nell’acquisto di terre e titoli nobiliari, che consentivano una vita di lussi e privilegi fondata sulle rendite, invece che reinvestire i profitti in nuove attività produttive capaci di moltiplicare la ricchezza, come appunto avverrà con la piena affermazione del capitalismo.
Una crisi generale?
Altri studiosi hanno considerato i fattori economici come parte di un cambiamento più generale. Secondo lo storico inglese John Elliott (n. 1930), per esempio, le tensioni seicentesche derivarono dal tentativo attuato dagli Stati centrali di esercitare un maggiore controllo sulla vita economica, soprattutto allo scopo di finanziare gli eserciti, senza tuttavia possedere i corpi amministrativi (burocrati e funzionari) necessari per attuare questo programma. Altrettanto articolata è la posizione di Roland Mousnier (1907-93), che ha guardato al Seicento come a un secolo di crisi praticamente sotto tutti gli aspetti del vivere in società: crisi economica, sociale, della forma-Stato, delle relazioni internazionali, della morale e della cultura.
Crisi o ristrutturazione?
Le opinioni degli storici sono dunque molto articolate e in alcuni casi divergenti. C’è tuttavia qualcosa che accomuna i diversi approcci storiografici, distinguendoli soprattutto dallo sguardo degli uomini del tempo. Mentre questi ultimi vedevano nelle crisi la rottura di equilibri ritenuti immodificabili, lo sguardo distaccato dello storico interpreta le difficoltà economiche e politiche come manifestazioni di un travaglio che porta a un nuovo equilibrio, fondato su basi inedite.
In particolare, nel Seicento ciò avvenne attraverso una reazione alla crisi che stimolò l’introduzione di nuove tecniche agricole, la sperimentazione di nuove modalità produttive in ambito manifatturiero, la formazione di reti commerciali più capillari. E determinò anche nuovi equilibri geopolitici, con la progressiva marginalizzazione dell’area spagnola e italiana e l’ascesa di altre potenze economiche, come Olanda e Inghilterra.