15.1 I domini di Filippo II fra Vecchio e Nuovo Mondo

Per riprendere il filo…

La frattura religiosa creata dallo scisma luterano era stata seguita da una decisa reazione della Chiesa di Roma, che nel Concilio di Trento formulò una risposta organica alla Riforma protestante sia sul piano dottrinale (ribadendo i capisaldi teologici della fede cattolica) sia su quello disciplinare (promuovendo un più efficace controllo della moralità del clero e dei comportamenti dei fedeli). Nel mondo protestante come in quello cattolico, comunque, l’obiettivo centrale dei poteri laici e religiosi rimaneva il controllo del corpo sociale. Nei paesi protestanti i sovrani si posero a capo di Chiese nazionali e si fecero carico della repressione di comportamenti considerati devianti ed eterodossi; in quelli cattolici, il compito preservare l’unità politico-religiosa fu in alcuni casi delegato a inquisitori e confessori. Questi sforzi, tuttavia, non bastarono a conferire agli Stati europei la stabilità auspicata. La morte di Carlo V e la divisione del suo Impero, inoltre, posero il continente in una condizione di debolezza strutturale e lo resero permeabile ad attacchi esterni, soprattutto sul versante mediterraneo.

15.1 I domini di Filippo II fra Vecchio e Nuovo Mondo

Il nuovo sovrano

Nel 1556 Filippo II ereditò ufficialmente dal padre Carlo V d’Asburgo la corona di Spagna, i Paesi Bassi, i domini italiani (Milano, Napoli, Sardegna e Sicilia) e le colonie americane, mentre lo zio Ferdinando andò a sedere sul trono del Sacro Romano Impero [▶ cap. 12.6]. Il nuovo sovrano iberico aveva 29 anni al momento del­l’insediamento – un’età matura per i parametri del tempo – e una personalità già formata, che gli consentì di perseguire con determinazione i propri orientamenti politici  [▶ protagonisti, p. 450]. Le sue priorità furono fin da subito la fedeltà al cattolicesimo, la salvaguardia dell’integrità territoriale e l’alleanza con il ramo imperiale della casa asburgica.

Il rapporto con gli altri sovrani fu uno dei punti più delicati dell’azione politica di Filippo II. Con la divisione dell’eredità paterna, la corona spagnola fu costretta a subire il declassamento dei suoi rappresentanti nei cerimoniali di corte, posposti per dignità a quelli imperiali e a quelli francesi (considerati i rappresentanti del più antico regno europeo). Diversi giuristi legati a Filippo cercarono di convincerlo del fatto che le terre del suo regno – estese dall’Europa al Nuovo Mondo – avevano una vastità tale da fargli meritare il titolo di imperatore, ma Filippo scelse di adottare una linea morbida e non reclamare il titolo. Convinto comunque della sua preminenza fra i sovrani cattolici, scelse piuttosto di ergersi a difensore della fede, arrogandosi una responsabilità che riteneva dovesse essergli riconosciuta, al di là di qualsiasi protocollo.

La repressione delle minoranze religiose

I primi provvedimenti messi in atto sul territorio spagnolo furono dunque finalizzati alla salvaguardia dell’ortodossia religiosa. Fra il 1558 e il 1560 fu rafforzata l’Inquisizione e vennero introdotte pesanti restrizioni alla diffusione di libri stranieri. Alcuni focolai di protestantesimo scoperti a Siviglia e Valladolid furono colpiti attraverso la dispersione dei loro membri e la condanna a morte dei loro animatori. Va però detto che, se il controllo della libertà di pensiero e di espressione ebbe effetti negativi sulla vita intellettuale del paese, non si registrarono tuttavia derive conformistiche paragonabili a quelle riscontrabili nella penisola italiana, dove la produzione letteraria si appiattì sulla celebrazione della dottrina ufficiale. Al contrario, la Spagna della seconda metà del Cinquecento visse un periodo di straordinaria fioritura artistica e culturale [▶ fenomeni].

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Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo l’azione repressiva si rivolse poi ai moriscos, sudditi musulmani che, anche se convertiti ufficialmente al cattolicesimo, avevano conservato la loro lingua e i loro costumi. Le proteste dei moriscos furono schiacciate con interventi militari che provocarono molte vittime e con la deportazione dei superstiti nel nord della Castiglia. Nel giro di pochi anni la monarchia inasprì ulteriormente le sue posizioni verso le minoranze, ricorrendo sempre più spesso alle espulsioni. L’unità religiosa, condizione ritenuta essenziale per la salvaguardia della stabilità politica, fu insomma perseguita anche sul piano dell’identità etnica dei sudditi, nella difesa di una “fede pura” che doveva essere accompagnata da “sangue puro”: la limpieza de sangre dei cristiani non discendenti da ebrei o musulmani convertiti.

Nonostante tutto ciò, i rapporti fra la Spagna e la Santa Sede non furono idilliaci come si potrebbe supporre. I decreti del Concilio di Trento furono applicati solo con ritardo e con molte riserve, cercando sempre di salvaguardare le prerogative del potere secolare.

  protagonisti

Filippo II, il “re prudente”

Come osservarono i trattatisti politici del tempo, Filippo II aveva la capacità di prendere decisioni ponderate nelle situazioni più delicate, sia in ambito militare sia nella gestione degli affari interni; non a caso egli veniva chiamato il “re prudente”. Essi apprezzavano, o addirittura celebravano, il fatto che nelle sue scelte di governo il sovrano facesse spesso prevalere le ragioni morali su quelle politiche. Le guerre combattute da Filippo, in particolare, furono sempre dettate da forti motivazioni religiose, a partire dall’esigenza di eliminare eretici e infedeli, e i risultati conseguiti furono considerati dal sovrano come un segno d’approvazione proveniente dalla provvidenza divina.

Carattere difficile o tutela della segretezza?

Il temperamento di Filippo, ostinato, riservato e prudente fino all’ossessione, favorì il diffondersi di una “leggenda nera” sul suo conto, che dipingeva a tinte fosche i suoi comportamenti in ambito familiare, i suoi rapporti con i collaboratori più stretti, la sua intransigenza verso i sudditi non obbedienti alla religione cattolica. Furono probabilmente alcune scelte a guadagnargli questa cupa reputazione: per impedire la diffusione di notizie sulla sua vita privata, la corrispondenza che non riguardava gli affari dello Stato veniva bruciata, mentre la pubblicazione di testi biografici sul suo conto fu del tutto vietata.

In realtà, tutta questa circospezione non era motivata dalla volontà di nascondere aspetti poco edificanti della sua personalità, quanto dall’esigenza di tenere sotto controllo agenti stranieri e spie: in un contesto internazionale segnato da forti tensioni, ogni informazione rubata poteva diventare una minaccia per la stabilità del potere monarchico.

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  fenomeni

Il “secolo d’oro”

Il regno di Filippo II (1556-98) e il periodo immediatamente successivo sono considerati ancora oggi come il siglo de oro (“secolo d’oro”), l’epoca aurea della letteratura, dell’arte e della cultura spagnole. In questi anni, infatti, vennero alla luce capolavori destinati a segnare la cultura europea, come il celebre romanzo Don Chisciotte di Miguel de Cervantes (1547-1616), i drammi di Lope de Vega (1562-1635), i dipinti di El Greco (1541-1614) e Diego Velázquez (1599-1660).

Cervantes

Miguel de Cervantes y Saavedra ebbe una vita avventurosa: ricercato, si arruolò e combatté contro i turchi, fu ferito e perse l’uso di una mano; rapito dai corsari ne restò schiavo per cinque anni; tornato in patria fu coinvolto in una bancarotta, venne scomunicato e finì in carcere. Nel suo capolavoro, opera fondamentale della letteratura occidentale, narra con distaccata ironia le disavventure di due personaggi, il nobile don Chisciotte e il suo servitore, il popolano Sancio. Il tema è l’impossibile convivenza fra gli ideali dei poemi epico-cavallereschi e il mondo moderno, utilitaristico e concreto. Molti vi hanno visto una critica alla Spagna, la cui classe nobiliare, ancorata a schemi e valori ormai sorpassati, era destinata a cedere il passo a società più attive e dinamiche.

El Greco

Dominikos Theotokópoulos nacque a Candia (Creta), allora dominio di Venezia, dove poi si recò per studiare la pittura italiana. Si trasferì quindi in Spagna, dove la sua origine gli valse il nome di “El Greco”. I suoi quadri si distinguono per le figure allungate, quasi ascetiche, a volte appena abbozzate da cui emana un forte richiamo alla spiritualità perfettamente in linea con le indicazioni del Concilio tridentino.

Ne La sepoltura del conte di Orgaz, le esequie di un nobiluomo sono rappresentate come un evento soprannaturale: alla cerimonia terrena (nella fascia in basso), scura, statica, resa con estrema cura, corrisponde (in alto) un livello celeste in cui l’anima del morto viene portata al cospetto di Cristo, della Vergine e dei santi, in un vorticare di luci e forme. Le due scene, collegate solo dallo sguardo di qualche astante, si completano: come nella visione del potere di Filippo II, il piano terreno si rispecchia in quello divino quando ne realizza la volontà.

Velázquez

Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, nobile sivigliano, fu pittore di corte sotto Filippo IV. Il suo abilissimo uso della luce esaltava corpi, volti ed espressioni; i personaggi ritratti, popolani o nobili, appaiono sempre acuti e vivi. Anche lui volle studiare la pittura in Italia, allora punto di riferimento per l’arte, e vi si recò al seguito del marchese Ambrogio Spinola, comandante dell’esercito spagnolo. Proprio lo Spinola viene celebrato in questo grande quadro, che lo ritrae mentre riceve la resa della città olandese di Breda, durante la guerra per l’indipendenza dei Paesi Bassi. Al di là degli intenti commemorativi, il quadro si distingue per la composizione: alla quieta scena centrale si oppongono la scura massa del cavallo, raffigurato di scorcio, e la selva delle picche, mentre sullo sfondo il paesaggio si sfuma sui colori azzurri.

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Il governo e il controllo del territorio

Al fine di rafforzare la monarchia, Filippo II volle accentrare il potere nelle proprie mani, scegliendo tra l’altro una residenza stabile per la corte (nella prima età moderna molte monarchie europee non avevano ancora una sede fissa). La scelta cadde su Madrid, allora solo poco più di un villaggio al centro di un vasto altopiano semideserto, ma per questo lontano dall’influenza delle altre corti; nei pressi della nuova capitale fece poi costruire il Palazzo dell’Escorial [ 1] , da cui avrebbe governato il suo enorme impero.

Sul piano amministrativo, tuttavia, il sovrano rimase fedele alla concezione imperiale del padre Carlo V, cercando di rispettare gli ordinamenti territoriali (come le Cortes in Castiglia e Aragona o le generalitat catalane).

Perfezionò il sistema dei consigli, gli organi di governo che assistevano il sovrano sul piano politico e amministrativo e su quello della gestione dei territori, includendovi tra l’altro giuristi ed ecclesiastici di provenienza non nobiliare. Dalle Fiandre all’Italia e al Nuovo Mondo, i rappresentanti della corona – governatori e viceré – erano chiamati a interagire con i poteri locali in un rapporto di carattere “pattizio”, cercando cioè compromessi volti a preservare le consuetudini del luogo e a consolidare l’immagine del re come padre benevolo e attento alle sorti dei sudditi.

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Il progetto di uno Stato forte e accentrato rimase dunque tale: già a partire dal territorio spagnolo, ancora formalmente diviso nei territori di Aragona e Castiglia, l’intera struttura orchestrata dal sovrano si rivelò un’ambizione non realizzata, al pari di quelle imperiali.

Le difficoltà finanziarie e il problema del fisco

Le enormi spese necessarie per mantenere il presidio militare nei suoi possedimenti e le risorse impiegate nei molteplici fronti di guerra in cui si trovò impegnato imposero a Filippo II la necessità di ricorrere a prestiti di ricchi banchieri, principalmente italiani, tedeschi e portoghesi. Trovandosi però nelle condizioni di non poter ripagare i debiti contratti, egli dichiarò per ben tre volte bancarotta (nel 1557, nel 1575 e nel 1596), compromettendo la sua reputazione presso i creditori e portandone molti alla rovina. Alcuni di essi, come i genovesi, trovarono il modo di recuperare comunque le somme perdute convertendole in juros, ▶ titoli di debito pubblico di lungo periodo, o aggiudicandosi in cambio i lucrosi appalti sulla riscossione delle imposte dirette in Castiglia.

Oltre a contrarre prestiti, il sovrano procedette a un forte inasprimento del prelievo fiscale, distribuito in modo iniquo dal punto di vista territoriale. Le tasse gravavano infatti in particolar modo su alcuni domini imperiali, comprimendone la vitalità economica (come nel caso della penisola italiana) o suscitando un forte malcontento (come nel caso dei Paesi Bassi). Ma l’iniquità del sistema fiscale fece sentire pienamente i suoi effetti anche nella stessa Spagna. La nobiltà rimase in gran parte esente dalle imposte dirette, mentre quelle indirette, colpendo i generi di prima necessità, pesarono soprattutto sui meno abbienti. Inoltre, le attività agricole e manifatturiere non furono incentivate e, a partire dagli anni Settanta del Cinquecento, la Spagna fu costretta a importare beni alimentari e manufatti, non riuscendo più a soddisfare la domanda interna.

La “rivoluzione dei prezzi”

Questi processi erano direttamente interconnessi alle trasformazioni economiche in corso nelle colonie americane. La ricchezza derivante dalle estrazioni minerarie (oro, argento, pietre preziose) consentì un certo sviluppo dei mercati sudamericani, anche nel settore dei beni di lusso, e favorì investimenti nell’agricoltura che ridussero sensibilmente la dipendenza economica delle colonie dalla Spagna. Non c’era più bisogno del vino, dell’olio e dei cereali provenienti dalla penisola iberica, mentre per i manufatti (in particolare tessili) si continuava sì a far ricorso a merci provenienti dalla Castiglia, ma solo per via dell’obbligo di commerciare con la madrepatria, perché in realtà erano prodotte in altre parti d’Europa. Per evitare i pesanti dazi, spesso poi si ricorreva al contrabbando, rifornendosi direttamente dai mercanti inglesi e olandesi.

L’arrivo di metalli preziosi dal Nuovo Mondo portò inizialmente una certa ricchezza ma contribuì anche alla svalutazione monetaria in corso nel Cinquecento, definita tradizionalmente “rivoluzione dei prezzi”. L’aumento generalizzato dei prezzi che interessò l’economia spagnola e in generale europea nel corso del XVI secolo è stato infatti tradizionalmente attribuito dagli storici all’afflusso di grandi quantità di argento dalle colonie. In tempi più recenti si è dato maggior peso ad altri fattori, primo fra tutti lo squilibrio fra i processi di inflazione da un paese all’altro [▶ fenomeni, p. 454], e si è sottolineato il ruolo giocato dalla generalizzata crescita demografica, che aumentando le bocche da sfamare avrebbe reso più scarsi e ricercati (e quindi più costosi) i beni primari.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715