Chi intenda oggi affrontare la storia politica e sociale dei regimi comunali trova il terreno occupato da una storiografia di ottima qualità ma che […] ha finito per imporre l’immagine di città comunali dominate da una potente aristocrazia di signori e vassalli episcopali, in grado di mantenere l’egemonia per tutta l’età consolare e talora anche oltre […]. Ma, a parte il fatto che la sua presenza è lungi dall’essere attestata dappertutto con la stessa frequenza, la sua importanza, in termini strettamente quantitativi, e la sua fisionomia, da un punto di vista qualitativo, variano notevolmente da una regione all’altra, e addirittura da una città all’altra. Tali variazioni contribuiscono in maniera decisiva a plasmare il volto della militia che ingloba quella componente, là dove esiste, ma non vi si confonde del tutto […]. Inoltre occorre aggiungere che, all’interno di quel vasto complesso, che si estende alla maggior parte dell’Italia del Nord e corrisponde alla regione che i trattati intercomunali del XII e del XIII secolo chiamano Lombardia, la componente feudo-vassallatica è lungi dal presentare dovunque la stessa faccia. Di qui la necessità di procedere a un’ulteriore distinzione, questa volta tra il Nord del Piemonte e la Lombardia da una parte, dove i capitani1 segnano con la loro forte presenza la militia locale, la Marca trevigiana e la maggior parte delle città emiliane dall’altra, dove i signori venuti dal contado raggiungono tardi i ranghi di una militia fino ad allora dominata da uno strato più o meno esteso di vassalli episcopali di minor levatura […]. Divise tra parecchie diocesi, le famiglie dell’alta aristocrazia capitaneale2 conservano a lungo una mobilità di residenza che non sempre ne favorisce il radicamento nelle città da cui provengono e che può finire per tagliarle fuori dall’ambiente urbano. Allo stesso modo, le famiglie i cui beni si concentrano in una stessa diocesi sono in principio indotte a dividersi tra città e campagna ma possono finire anch’esse per scegliere la seconda a scapito della prima e non fare che brevi apparizioni in città […]. La situazione si complica se ci rivolgiamo alle città della Lombardia orientale, Cremona, Brescia e Bergamo […] ma in un certo senso si chiarisce anche, nella misura in cui la ricerca di Menant3 porta su molti punti essenziali un prezioso contributo a quanto già sappiamo sulle famiglie capitaneali. In primo luogo sulla composizione e la consistenza numerica delle clientele vassallatiche. […]. Tutto ciò che possiamo dire […] è che i capitani e i valvassori milanesi […] formano, nella migliore delle ipotesi, un gruppo di non più di una trentina o una quarantina di famiglie. Niente a che vedere quindi con quelli che sono all’epoca gli effettivi della militia cittadina […]. A Cremona, città che è allora in grado, non dimentichiamolo, di contendere a Milano la leadership regionale, una ventina o una trentina di signori castellani fanno regolarmente parte della curia vassallorum episcopale nel corso dell’XI secolo [;] come a Milano, è pur sempre dall’ambiente dell’aristocrazia signorile del contado che sembrano provenire la maggior parte dei capitani che diventano i capostipiti di famiglie nella Cremona dell’XI e XII secolo […]. A Brescia troviamo dei capitani non solo nella clientela vassallatica del vescovo ma anche in quella dei due grandi monasteri di S. Giulia e di S. Benedetto di Leno. Anch’essi provengono in maggioranza dalle famiglie signorili del contado, il che conferisce loro un profilo del tutto simile a quello dei capitani milanesi e cremonesi [;] possiamo ritenere che nel complesso formano un gruppo di 20 o 30 famiglie […] dunque molto meno che a Milano, il che non ha niente di sorprendente vista la differenza di popolazione tra le due città, ma molto più che a Bergamo, dove il grosso dei vassalli reclutati dal vescovo a partire dalla fine dell’XI secolo proviene dalla classe dei cives […]. Bergamo si distingue inoltre dalle altre città lombarde per la scarsa presenza di capitani tra la clientela episcopale o, per essere più esatti, per l’esiguo numero di grandi vassalli in grado, dopo la nascita del comune, d’intervenire nella vita cittadina […]. L’ordo militum delle città lombarde, composto di capitani e valvassori, poteva in tali condizioni fornire alla cavalleria comunale del XII secolo molto più di una ridottissima parte dei suoi effettivi? La risposta è evidente: naturalmente no […]. Ma allora, ci chiederemo, da dove veniva il grosso della cavalleria? Quali erano, nella popolazione delle città lombarde, le persone in grado di mantenere un cavallo da guerra, di essere istruiti nelle manovre del combattimento a cavallo, di dedicare una parte del loro tempo alle cavalcate e ad altre operazioni militari? Anzitutto gli esponenti della vassallità minore che è così difficile individuare a Milano, ma che è un po’ meglio reperibile a Cremona e a Brescia e su cui Menant ha puntato i riflettori a Bergamo. Il fatto che questi vassalli siano di origine più modesta rispetto alle grandi famiglie feudali non ne fa comunque degli indigenti […]. Chiarito ciò, quanto vale per la vassallità minore vale in realtà per tutti quanti i cives, se riconosciamo […] che l’ordo civium riunisce a Milano […] la sua frangia più ricca e meglio organizzata, insomma l’élite della popolazione. Una élite che dal punto di vista delle attività economiche, dello stile di vita, del sistema di valori, dei privilegi politici ecc., non differisce da quella del resto dell’Italia comunale, se non per il fatto di dover coabitare qui con una “superélite” di capitani e valvassori che non esiste altrove o comunque non con lo stesso rilievo. Una élite che è dunque, a Milano come in qualsiasi altra città, chiamata a fornire alla cavalleria comunale il grosso dei suoi effettivi […]. Troviamo dunque un po’ di tutto nella militia del XII e XIII secolo: dal proprietario che vive di rendita all’uomo d’affari iperattivo, dal grande capitano titolare di vaste signorie al semplice cavaliere di origine puramente cittadina. Da un lato, la fisionomia della militia è fortemente condizionata […] dalla diffusione delle relazioni feudo-vassallatiche e dalla presenza di un nucleo più o meno attivo di famiglie signorili. Dall’altro, all’interno di ogni singolo comune, la condizione materiale delle decine e centinaia di famiglie che costituiscono la militia si rivela estremamente diversificata, in funzione dei livelli di ricchezza, delle attività professionali e dei comportamenti economici. Fattori che non rimettono in discussione la coesione politica e ideologica della militia, che deriva non solo dalla pratica del combattimento a cavallo e […] dai conseguenti privilegi, ma anche da uno stile di vita e da un sistema di valori.
tratto da Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Il Mulino, Bologna 2004