2. Alle origini del comune italiano

percorso 2

Alle origini del comune italiano

A lungo i comuni italiani sono stati interpretati come espressione di libertà borghese antitetica al feudalesimo e precursori dello spirito repubblicano moderno. Questo precedente storico avrebbe dovuto essere d’esempio agli italiani del XIX secolo, che aspiravano a ricomporre l’unità politica della penisola. Agli inizi del Novecento questa interpretazione si saldò con quella, proposta da Henri Pirenne (1862-1935) e destinata a lunga fortuna, che saldava rinascita urbana e ripresa del commercio a partire dall’XI secolo. Intorno agli anni Settanta del Novecento la storiografia ha riconosciuto invece la forza dei legami feudali, e di soggezione in generale, interni ai comuni. Il dibattito causato da questa revisione, cui venivano appuntate varie critiche (le clientele vescovili non sarebbero state sempre allo stesso modo importanti per la selezione dei ceti dirigenti cittadini; la cultura comunale è una cultura tipicamente urbana, originale rispetto alle campagne; la preminenza dell’appartenenza alla comunità cittadina rispetto all’omaggio feudale), è stato poi ulteriormente rinnovato dall’interpretazione di Jean-Claude Maire Vigueur e dal riconoscimento di un ben preciso ceto sociale, la militia, al centro delle istituzioni comunali.

testo 1
Hagen Keller

La matrice vassallatica del comune

Il volume di Hagen Keller riconobbe una rilevanza sino ad allora ignorata ai legami feudali, al ruolo di famiglie dotate di beni cospicui e di stili di vita aristocratici, alle testimonianze relative ai rapporti di soggezione, di vario genere, che legavano ampi gruppi famigliari. Keller sottolineò, concentrando la propria attenzione sul caso milanese, come i rapporti di dipendenza e le definizioni di ceto connesse (capitanei, ossia vassalli episcopali, e valvassori, vassalli dei primi) giochino un ruolo decisivo nelle origini del comune. Nel brano proposto, l’autore rileva come lo strato nobiliare superiore dimostri continuità di strutture sociali dall’epoca carolingia a quella comunale; nelle pagine che seguono questo brano, egli pone in evidenza alcuni elementi del ceto composto dai valvassori, che attraverso il vassallaggio e il servizio feudale ottiene anch’esso una connotazione nobiliare.

La nostra ricerca ha tracciato due linee1 fondamentali dello sviluppo sociale nell’Italia padana:


1. Gli strati dirigenti nobili restano sorprendentemente costanti nella loro composizione dall’età carolingia fino all’epoca dei comuni. 1.1. La nobiltà fondiaria, come noi la incontriamo intorno al 900, conserva la sua posizione dirigente fino al XII secolo. I capitanei, che nella prima età comunale costituiscono un ordo distinto, discendono in linea diretta dai nobiles e vassi regis dell’età carolingia. Essi sono i discendenti di quello strato di funzionari franchi e di possessori longobardi tra i quali si reclutano anche le famiglie comitali e marchionali del X e XI secolo. 1.2. Il fondamento della posizione di preminenza politica e sociale, conservata da queste famiglie per oltre tre secoli, si costituisce durante la tarda età carolingia e l’epoca postcarolingia attraverso la formazione di signorie. Queste prendono origine da proprietà allodiali e da possedimenti tenuti in feudo e in livello2, ossia da una base di potere già sussistente verso il 900. Agli inizi è promossa dal regno e dalle chiese, che con questo sostegno sperano di costituire un contrappeso al dominio in via di affermazione dell’alta aristocrazia carolingia. 1.3. Nelle campagne la formazione di signorie ha trasformato i signori fondiari franco-longobardi in signori di banno detentori di castelli. La riduzione del potere dei conti avviata dal re stesso conduce a una generale dissoluzione dell’ordinamento comitale. Dotati, nella loro signoria fondiaria, di una posizione assimilabile a quella comitale, dalla metà del dell’XI secolo i signori detentori di castelli – nobili e istituzioni ecclesiastiche – ottengono il riconoscimento di diritti di banno sulla popolazione rurale nel territorio locale. La concorrenza di diversi signori fondiari in una medesima località, tuttavia, impedisce spesso un rapido imporsi delle nuove rivendicazioni di dominio sul territorio. 1.4. Sostenuti da possedimenti urbani, in alcuni casi già fortificati nel X secolo, da vassalli e gente di condizione servile in città, da incarichi d’ufficio e da posizioni di potere nella vita politica, non da ultimo da parenti nel capitolo della cattedrale3, i signori di banno possessori di castelli nella campagna costituiscono lo strato dirigente cittadino. La comune appartenenza della nobiltà fondiaria, comprensiva delle famiglie comitali, alla curia feudale del vescovo, dall’XI secolo intesa anche come istituzione “cittadina”, rafforza il legame della nobiltà con il centro urbano e accresce il suo peso nei processi decisionali riguardanti la città. Potere e influenza, rango e reputazione delle antiche famiglie nobiliari permangono come forze indomite nella vita politica della città nella prima età comunale, allorché rappresentanti di altri gruppi sociali prendono parte al governo del comune. 1.5. Questo gruppo non ha ricevuto un afflusso da altri strati sociali che ne mutasse i caratteri; esso resta costante nella sua composizione dal IX fino al XII secolo. Pertanto, il confine di ceto rispetto ai valvassori con stile di vita cavalleresco, che emerge dalla metà dell’XI secolo, sottolinea una distanza sociale riconoscibile in precedenza. Esso chiude l’accesso all’ordo capitaneorum forse proprio nel momento in cui un nuovo gruppo potrebbe gradualmente mettere in discussione – nello stile di vita, nei privilegi, nella ricchezza e nell’influenza politica – il primato dell’antica nobiltà.


tratto da Signori e vassalli nell’Italia delle città (secoli IX-XII), Utet, Torino 1995

 >> pagina 216

testo 2
Jean-Claude Maire Vigueur

L’importanza della militia 

La lettura di Jean-Claude Maire Vigueur del comune consolare ha innovato il dibattito sulla storia comunale. Contrapponendosi all’interpretazione di Keller e analizzando una grande quantità di casi di studio, lo storico francese propone di leggere le società comunali attraverso l’individuazione di un ceto sociale numeroso e composito, la militia, composto da coloro che hanno possibilità economica e capacità tecnica di combattere a cavallo. Questo ceto innervava le istituzioni cittadine condizionandone l’esercizio dei vari poteri, fiscale, giudiziario, militare.

Chi intenda oggi affrontare la storia politica e sociale dei regimi comunali trova il terreno occupato da una storiografia di ottima qualità ma che […] ha finito per imporre l’immagine di città comunali dominate da una potente aristocrazia di signori e vassalli episcopali, in grado di mantenere l’egemonia per tutta l’età consolare e talora anche oltre […]. Ma, a parte il fatto che la sua presenza è lungi dall’essere attestata dappertutto con la stessa frequenza, la sua importanza, in termini strettamente quantitativi, e la sua fisionomia, da un punto di vista qualitativo, variano notevolmente da una regione all’altra, e addirittura da una città all’altra. Tali variazioni contribuiscono in maniera decisiva a plasmare il volto della militia che ingloba quella componente, là dove esiste, ma non vi si confonde del tutto […]. Inoltre occorre aggiungere che, all’interno di quel vasto complesso, che si estende alla maggior parte dell’Italia del Nord e corrisponde alla regione che i trattati intercomunali del XII e del XIII secolo chiamano Lombardia, la componente feudo-vassallatica è lungi dal presentare dovunque la stessa faccia. Di qui la necessità di procedere a un’ulteriore distinzione, questa volta tra il Nord del Piemonte e la Lombardia da una parte, dove i capitani1 segnano con la loro forte presenza la militia locale, la Marca trevigiana e la maggior parte delle città emiliane dall’altra, dove i signori venuti dal contado raggiungono tardi i ranghi di una militia fino ad allora dominata da uno strato più o meno esteso di vassalli episcopali di minor levatura […]. Divise tra parecchie diocesi, le famiglie dell’alta aristocrazia capitaneale2 conservano a lungo una mobilità di residenza che non sempre ne favorisce il radicamento nelle città da cui provengono e che può finire per tagliarle fuori dall’ambiente urbano. Allo stesso modo, le famiglie i cui beni si concentrano in una stessa diocesi sono in principio indotte a dividersi tra città e campagna ma possono finire anch’esse per scegliere la seconda a scapito della prima e non fare che brevi apparizioni in città […]. La situazione si complica se ci rivolgiamo alle città della Lombardia orientale, Cremona, Brescia e Bergamo […] ma in un certo senso si chiarisce anche, nella misura in cui la ricerca di Menant3 porta su molti punti essenziali un prezioso contributo a quanto già sappiamo sulle famiglie capitaneali. In primo luogo sulla composizione e la consistenza numerica delle clientele vassallatiche. […]. Tutto ciò che possiamo dire […] è che i capitani e i valvassori milanesi […] formano, nella migliore delle ipotesi, un gruppo di non più di una trentina o una quarantina di famiglie. Niente a che vedere quindi con quelli che sono all’epoca gli effettivi della militia cittadina […]. A Cremona, città che è allora in grado, non dimentichiamolo, di contendere a Milano la leadership regionale, una ventina o una trentina di signori castellani fanno regolarmente parte della curia vassallorum episcopale nel corso dell’XI secolo [;] come a Milano, è pur sempre dall’ambiente dell’aristocrazia signorile del contado che sembrano provenire la maggior parte dei capitani che diventano i capostipiti di famiglie nella Cremona dell’XI e XII secolo […]. A Brescia troviamo dei capitani non solo nella clientela vassallatica del vescovo ma anche in quella dei due grandi monasteri di S. Giulia e di S. Benedetto di Leno. Anch’essi provengono in maggioranza dalle famiglie signorili del contado, il che conferisce loro un profilo del tutto simile a quello dei capitani milanesi e cremonesi [;] possiamo ritenere che nel complesso formano un gruppo di 20 o 30 famiglie […] dunque molto meno che a Milano, il che non ha niente di sorprendente vista la differenza di popolazione tra le due città, ma molto più che a Bergamo, dove il grosso dei vassalli reclutati dal vescovo a partire dalla fine dell’XI secolo proviene dalla classe dei cives […]. Bergamo si distingue inoltre dalle altre città lombarde per la scarsa presenza di capitani tra la clientela episcopale o, per essere più esatti, per l’esiguo numero di grandi vassalli in grado, dopo la nascita del comune, d’intervenire nella vita cittadina […]. L’ordo militum delle città lombarde, composto di capitani e valvassori, poteva in tali condizioni fornire alla cavalleria comunale del XII secolo molto più di una ridottissima parte dei suoi effettivi? La risposta è evidente: naturalmente no […]. Ma allora, ci chiederemo, da dove veniva il grosso della cavalleria? Quali erano, nella popolazione delle città lombarde, le persone in grado di mantenere un cavallo da guerra, di essere istruiti nelle manovre del combattimento a cavallo, di dedicare una parte del loro tempo alle cavalcate e ad altre operazioni militari? Anzitutto gli esponenti della vassallità minore che è così difficile individuare a Milano, ma che è un po’ meglio reperibile a Cremona e a Brescia e su cui Menant ha puntato i riflettori a Bergamo. Il fatto che questi vassalli siano di origine più modesta rispetto alle grandi famiglie feudali non ne fa comunque degli indigenti […]. Chiarito ciò, quanto vale per la vassallità minore vale in realtà per tutti quanti i cives, se riconosciamo […] che l’ordo civium riunisce a Milano […] la sua frangia più ricca e meglio organizzata, insomma l’élite della popolazione. Una élite che dal punto di vista delle attività economiche, dello stile di vita, del sistema di valori, dei privilegi politici ecc., non differisce da quella del resto dell’Italia comunale, se non per il fatto di dover coabitare qui con una “superélite” di capitani e valvassori che non esiste altrove o comunque non con lo stesso rilievo. Una élite che è dunque, a Milano come in qualsiasi altra città, chiamata a fornire alla cavalleria comunale il grosso dei suoi effettivi […]. Troviamo dunque un po’ di tutto nella militia del XII e XIII secolo: dal proprietario che vive di rendita all’uomo d’affari iperattivo, dal grande capitano titolare di vaste signorie al semplice cavaliere di origine puramente cittadina. Da un lato, la fisionomia della militia è fortemente condizionata […] dalla diffusione delle relazioni feudo-vassallatiche e dalla presenza di un nucleo più o meno attivo di famiglie signorili. Dall’altro, all’interno di ogni singolo comune, la condizione materiale delle decine e centinaia di famiglie che costituiscono la militia si rivela estremamente diversificata, in funzione dei livelli di ricchezza, delle attività professionali e dei comportamenti economici. Fattori che non rimettono in discussione la coesione politica e ideologica della militia, che deriva non solo dalla pratica del combattimento a cavallo e […] dai conseguenti privilegi, ma anche da uno stile di vita e da un sistema di valori.


tratto da Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Il Mulino, Bologna 2004

 >> pagina 218

Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) La condizione materiale delle decine e centinaia di famiglie che costituiscono la militia si rivela estremamente diversificata.

b) Potere e influenza, rango e reputazione delle antiche famiglie nobiliari permangono come forze indomite nella vita politica della città nella prima età comunale.

c) Gli strati dirigenti nobili restano sorprendentemente costanti nella loro composizione dall’età carolingia fino all’epoca dei comuni.

d) L’ordo civium riunisce a Milano […] la sua frangia più ricca e meglio organizzata, insomma l’élite della popolazione.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

La matrice vassallatica del comune

L’importanza della militia

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
Cooperative Learning

competenza DIGITALE In gruppi di massimo 5 persone cercate di ricostruire la storia della fondazione del vostro comune di residenza. Potete visitare l’archivio storico del Comune e chiedere di avere accesso, con l’aiuto dell’archivista, ai documenti conservati che ne attestino la nascita. Raccogliete le informazioni e preparate una presentazione digitale per la classe, accompagnata da immagini, dati e, qualora fosse possibile, fotografie dei documenti originali.

 >> pagina 219 

percorso 3

Federico II, l’immagine di un imperatore

Nel corso del XIX secolo la cultura tedesca andò sempre più interessandosi alla figura di Federico II. Primo uomo moderno per Jakob Burckhardt (1818-97), eroe antimoderno e anticristiano per Friedrich Nietzsche (1844-1900), l’imperatore svevo fu oggetto sia di grandi imprese filologiche, volte alla ricostruzione della produzione documentaria della sua cancelleria, sia della costruzione intellettuale di un sovrano come precursore del futuro. A questa lettura “astorica” di Federico II si aggiunse, nel pieno della crisi della Germania del primo dopoguerra, un’interpretazione politica: il Mediterraneo sembrava essere lo scenario e il simbolo del rinnovamento spirituale del Reich tedesco e la figura dell’imperatore incarnava perfettamente questo progetto politico-culturale, cui guardarono con interesse fascismo e nazismo. Di larghissima fortuna, queste interpretazioni sono state recentemente riviste e i problemi impostati in modo più equilibrato, riconoscendo a Federico II la sua piena condivisione di un orizzonte politico e intellettuale pienamente “medievale”.

testo 1
Ernst H. Kantorowicz

Lex animata in terris

Il volume dello storico Ernst Kantorowicz, tedesco di origini ebraiche (per questo rifugiato negli Usa nel 1939), apparve nel 1927 all’interno di una collana editoriale ispirata da un poeta, Stefan George, nel cui circolo si riunivano intellettuali che, aspirando a rappresentare un’élite spirituale, aristocratica e conservatrice, mal sopportavano le angustie culturali della Germania uscita sconfitta dalla Grande guerra. La poderosa biografia, sorretta da un’amplissima documentazione e tuttavia scritta in modo trascinante e quasi panegirico, ruota intorno all’idea che Federico II, riassorbendo l’eredità dell’Oriente e dell’antichità, fosse espressione di una rinnovata dignità del diritto e dell’impero, concreta presenza dell’armonia di Dio.

Giustiniano (con Scipione, Catone e Traiano, l’immagine stessa della giustizia per il medioevo), “ministro del Signore” in quanto raccoglitore del diritto romano, e come tale santo anche per Dante, fu logicamente il modello di Federico legislatore. Subito dopo la pace con il papa1, Federico si rivolse a unificare le leggi siciliane, e le Costituzioni pubblicate a Melfi nell’agosto 1231 costituirono il risultato d’un lungo e attivissimo lavoro della gran corte imperiale. La raccolta, una specie di corpus di diritto pubblico e amministrativo, constava in parte di leggi normanne […] in parte di decreti rilasciati dall’imperatore nei primi anni di regno, e infine un gran numero di leggi nuove che, coll’aggiunta di altre promulgate in seguito, furono riunite in un tutto dall’imperatore e dai suoi collaboratori. Questa grande codificazione, la prima dopo Giustiniano e l’unica in tutto il Medioevo, riscosse l’ammirazione del mondo intero e fu glossata dai dotti; ed essendo durata in vigore per tutto un secolo, la sua influenza sulla formazione del diritto degli Stati assoluti d’Europa è tutt’altro che trascurabile […]. Accanto a Giustiniano, imperatore del diritto, servì di modello a Federico II l’imperatore della pace, Augusto […]. Rinnovare la pax augustea e l’ordine divino del mondo, fu da Federico II riguardata come missione propria; poiché se quell’ordine divino fosse stato ripristinato, anche il suo tempo sarebbe stato “compiuto”, e la pax e la iustitia – unico senso dello Stato terreno – sarebbero tornate sulla terra come già con Augusto […]. Vista l’importanza della raccolta di leggi di Melfi – «l’atto di nascita della burocrazia moderna», come fu definita –, deve per forza interessarci anche l’ora in cui questa raccolta nacque […]. Nel Medioevo cristiano, dunque, l’imperatore appariva simile a Dio padre, reggitore e custode della terra. Quando però in quest’altissima pace entrò improvvisamente una giovane forza irruente, e sull’imperatore troneggiante tra le nubi scoccò dall’alto dei cieli la scintilla; allora egli, sin qui simile a Dio padre, divenne anche simile al figlio suo, mediatore e giudice, anzi redentore. D’ora innanzi l’imperatore non doveva apparire più soltanto custode e tutore, né mediatore e portatore2, bensì fonte del diritto divino-naturale: l’imperatore portava il diritto divino nel suo Stato, con statuti celesti ed eterni traeva il cielo in terra, colle sue leggi sacre, con la iustitia […]. La giustizia non era più qualcosa di spirituale e santificante che toccasse alla Chiesa di dispensare come grazia […] che la giustizia stesse a mediatrice tra Dio e imperatore come fra imperatore e popolo («il diritto terreno sta sotto il sovrano come sopra di questi sta quello divino»3): questo corrispondeva pienamente alle frasi brevi e minuziose delle Costituzioni, con le quali l’imperatore Federico così introduceva le circa settanta leggi del nuovo ordinamento giuridico […]. In tal modo, la fonte della giustizia nello Stato diviene l’imperatore stesso: per mezzo di Dio e come Dio egli è creatore del diritto; non solo custode di esso, ma anzi «fondatore di un nuovo diritto» […]. Pur se l’imperatore, posto in vetta all’edificio del mondo, riceveva direttamente i raggi «della giustizia che emana direttamente dal cielo», e li serbava dentro di sé per distribuirli a sua volta in numerose ramificazioni a giudici e giuristi (perciò emanava come imperatore, e non come re, le leggi di Sicilia); pur se, grazie alla sua scienza delle leggi di natura, era in grado di leggere anche quelle della giustizia divina e naturale; col rapporto fra l’imperatore e Dio, tuttavia, il ciclo non era ancor chiuso […]. Ecco allora che, accanto a Dio e alla propria scienza della natura, Federico II pose come terza fonte quella che sprizza dalla terra: quella che viene dal popolo, cioè; che egli raccolse in sé per il tramite della lex regia dei romani […]. Dio, popolo e imperatore erano la fonte del diritto per Federico II, che aveva assommato in sé tutt’e tre le cose: Dio, l’imperatore come sua irradiazione, come figlio suo, e la iustitia: ecco la nuova trinità laica, che, nello Stato di Federico II, lasciava impregiudicata la validità della Chiesa, e che s’impersonava nell’imperatore, nella lex animata in terris. Sul culto di codesta trinità poggiò tutto lo stato giuridico-burocratico di Federico II […].


tratto da Federico II imperatore, Garzanti, Milano 1976

 >> pagina 221 

testo 2
David Abulafia

L’eredità normanna nelle Costituzioni di Melfi

In contrapposizione esplicita con la biografia di Kantorowicz, il volume di David Abulafia contesta punto per punto gli assunti fondamentali dello storico tedesco e dell’immagine corrente di Federico II come despota illuminato e anticipatore dello Stato moderno, spregiudicato sul piano ideologico e religioso, tollerante organizzatore di cultura, innovatore del diritto. Su questo aspetto si concentra l’autore nel passo qui proposto, che mette in rilievo la continuità, molto pragmatica e ben poco ideologica, delle Costituzioni di Melfi rispetto alla tradizione normanna, con attenzione ai diritti consuetudinari acquisiti.

Le Costituzioni di Melfi, contenendo più di duecento disposizioni legislative e proclami, sono state salutate dagli storici come la più cristallina evidenza del desiderio di Federico di fare della Sicilia uno “Stato modello”, ben ordinato, centralizzato, efficiente, in cui tutti i diritti e gli obblighi fossero soggetti al capriccio o alla volontà del sovrano. Le esigenze pratiche della ricostruzione si fusero alle necessità teoriche di un concetto altamente sviluppato di monarchia assolutistica concretizzandosi in un corpo di legislazione logico e coerente. Ma una siffatta interpretazione delle Costituzioni di Melfi si fonda su un pio desiderio. Quali che siano le influenze esercitate su Federico dai gloriosi codici romani, dai giuristi canonici contemporanei e dalla filosofia aristotelica, da poco tornata sulla cresta dell’onda, la sua normativa giuridica non segna l’avvento di un nuovo Giustiniano. Tutto l’insieme manca dell’ampio respiro e dell’organicità onnicomprensiva dei testi romani, limitandosi ad affrontare i problemi specifici ad un regno in urgente bisogno di ricostruzione. Né si può parlare di profonda originalità, ma piuttosto di una combinazione ben dosata di fonti romane, canoniche e feudali – elementi di diritto consuetudinario germanico, se giudicati di maggior praticità, trovavano collocazione accanto a radicate usanze italiche […]. La ricerca di prove del romanismo della monarchia siciliana – un tema largamente evidenziato in altre, più antiche fonti – ha distratto gli studiosi dall’importanza di queste leggi come guida alla prassi legale contemporanea in tribunali popolati di Lombardi1, Greci ed anche noncristiani. Ciò che qui vogliamo mettere in evidenza è il legame tra questa legislazione e la struttura politica e sociale del regnum negli anni intorno al 1231. Gli antecedenti delle singole norme – romane, normanne o quali che siano – hanno un interesse secondario. Per motivi analoghi ci asterremo dall’usare il nome correntemente attribuito al codice, vale a dire il Liber Augustalis, “il libro di Augusto”: un nome coniato da commentatori di età posteriore avidi di cogliere in questi principi regolatori un’esplicita asserzione di autocrazia […]. L’introduzione al codice ci offre comunque una prospettiva singolare del pensiero di Federico. Le prime parole sono un elenco di titoli: imperatore dei Romani, Cesare Augusto, signore dei regni d’Italia, Sicilia, Gerusalemme e Borgogna. Ecco il primo paradosso: in tutta l’opera Federico parla di se stesso come dell’«augusto», accennando ai suoi «divini predecessori», gli Augusti dell’antica Roma o anche di epoca più recente (come Enrico VI e Costanza). Si presenta dunque come imperatore, eppure legifera per un regno apparentato all’impero […] da vincoli alquanto aleatori - un regno la cui separazione dall’Impero romano era stata enfatizzata da Ruggero II e all’apparenza accettata persino da Enrico VI; un regno che in ogni caso era uno Stato vassallo del papato, una realtà questa che lo classificava come corpo estraneo all’impero anche se la medesima persona reggeva entrambe le corone. L’ordinamento giuridico di Federico non si perde in queste sottigliezze […]. Questa confusione relativa allo status della monarchia siciliana avrebbe intralciato la politica italiana per tutto il tempo che Federico restò al potere […]. Il regnum richiedeva le cure di Federico: la Necessità sta alle radici della legislazione […]. L’appello di Federico alla Necessità viene interpretato come una sostituzione di una forza naturale positiva, benefica d’impronta, alla forza coercitiva negativa dello Stato immaginato dai teorici precedenti. In realtà le idee non sono così rivoluzionarie. Egli non dice che i governanti non abbiano il compito di punire l’umanità per le colpe commesse. Il suo pensiero si riallaccia alla concezione agostiniana dello Stato come correttore delle iniquità dell’uomo, anche se è arricchito da accidentali “lampi” di sapore aristotelico evidenzianti la funzione dell’universo creato e del governante come fonte di potenziale perfezione o miglioramento nell’ambito della società […]. La sua spiegazione della natura dell’autorità politica si richiamava a fonti cristiane e a assunti cristiani sul rapporto tra Dio e l’uomo; ma l’edificio che ne risultava poteva benissimo reggersi in piedi senza l’aiuto o l’intervento di un pontefice romano. Non si trattava di un’idea secolare della monarchia; l’introduzione al codice non lascia adito a dubbi sull’origine divina del potere concesso a Federico. Tra Dio e il principe non v’era alcun intermediario sacerdotale. Qui sta il nocciolo politico del proemio delle Costituzioni di Melfi: dimostrare come fosse possibile esporre una teoria di governo che poteva fare benissimo a meno dell’azione salvifica del papa. Era il principe che aveva il potere di guidare l’umanità verso lidi migliori, tramite l’emanazione di buone leggi fondate sull’esercizio della probità (iustitia) […]. Ispira questo corpus iuris il principio non tanto che la legge sia valida perché rinsaldata nel tempo2, quanto che debba essere sorvegliata e disciplinata affinché sia sempre idonea e giusta. Il principe, designato da Dio a fare e disfare le leggi, decreta quali debbano essere le norme con un atto di imperio. Questa concezione, d’impronta romana, non si rifà soltanto alle scuole giuridiche di Bologna e agli scampoli della tradizione legale bizantina nell’Italia meridionale; anche la monarchia normanna di Ruggero II aveva presentato il sovrano come «imperatore nel suo proprio regno» (per usare un’espressione in uso tra i commentatori napoletani delle legislazioni di entrambe le monarchie intorno al 1300), seppur non imperatore nel senso universale, romano […]. Dall’ordinamento giuridico della società in base a principi generali si passa alla riorganizzazione del regno siciliano alla luce dei problemi della gioventù di Federico. Molti dei provvedimenti interessano i diritti e gli obblighi dei vassalli dell’Italia meridionale, e la conferma del loro assoggettamento al potere centrale; il codice giustinianeo lascia rapidamente il posto ai costumi locali di longobardi, normanni e altri baroni. Non può esistere rispetto per la pace senza giustizia, né d’altronde vera giustizia senza pace […]. Sarebbe ozioso addentrarsi nei particolari, poiché alla fin fine il messaggio trasmesso è di una logica semplice e stringente: l’assolutismo del monarca, che rispetta la legge esistente ma ha il potere di abrogarla o darle nuova forma. Egli è l’incarnazione della legge, la legge animata (lex animata), l’unico in grado di garantire il mantenimento dell’ordine sociale creato da Dio. Non vi è perciò contraddizione tra la ratifica o rielaborazione di un vasto assortimento di diritti feudali e la posizione sostanzialmente dispotica adottata nei confronti della facoltà di legiferare.


tratto da Federico II, un imperatore medievale, Einaudi, Torino 1992

 >> pagina 223 

Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Rinnovare la pax augustea e l’ordine divino del mondo, fu da Federico II riguardata come missione propria.

b) L’assolutismo del monarca, che rispetta la legge esistente ma ha il potere di abrogarla o darle nuova forma.

d) Dio, popolo e imperatore erano la fonte del diritto per Federico II.

e) Costituzioni di Melfi: combinazione ben dosata di fonti romane, canoniche e feudali.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

Lex animata in terris

L’eredità normanna nelle Costituzioni di Melfi

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
RIASSUMERE un testo argomentativo

Dopo aver schematizzato i testi con l’aiuto della tabella dell’esercizio precedente, suddividi i due testi in paragrafi e assegna a ciascun paragrafo un titolo. A partire da questi paragrafi sviluppa un testo di mezza pagina di quaderno che riassuma le argomentazioni dei due brani proposti.


 

Lex animata in terris

L’eredità normanna nelle Costituzioni di Melfi

PARAGRAFO 1

   

PARAGRAFO 2

   

PARAGRAFO 3

   

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715