Giorgio de Chirico e Carlo Carrà

8.1 Giorgio de Chirico e Carlo Carrà

Giorgio de Chirico

Giorgio de Chirico (Volos, Tessaglia 1888-Roma 1978) lascia la Grecia nel 1905. Alla morte del padre, la madre decide di trasferirsi a Monaco con i figli Giorgio e Andrea, il quale assumerà il nome d’arte Alberto Savinio per distinguersi dal fratello. Il soggiorno nella città bavarese riveste una particolare importanza nella formazione dei due fratelli: in questo vivace contesto culturale, infatti, essi possono ammirare la pittura tardoromantica-simbolista di Arnold Böcklin e Max Klinger; studiano gli scritti di Schopenhauer e Nietzsche, nel cui pensiero De Chirico scopre il senso dell’enigma e della rivelazione. La sua ricerca, in effetti, sarà sempre caratterizzata da una dimensione particolare, in cui l’immagine pittorica è costantemente nutrita dal pensiero, come rivelerà egli stesso. «Da lungo tempo oramai mi sono reso perfettamente conto che io penso per immagini e raffigurazioni. Dopo lungo riflettere ho constatato che, in fondo, è l’immagine la principale espressione del pensiero umano».

L’enigma di un pomeriggio d’autunno

Nel 1910 De Chirico è a Firenze, dove in un pomeriggio d’autunno, in piazza Santa Croce, ha la sua prima rivelazione metafisica, rappresentata nel dipinto L’enigma di un pomeriggio d’autunno (1). L’artista racconta così questo momento della sua ricerca: «In un limpido pomeriggio autunnale ero seduto su una panca al centro di piazza Santa Croce a Firenze. Naturalmente non era la prima volta che vedevo questa piazza: ero appena uscito da una lunga e dolorosa malattia ed ero quasi in uno stato di morbosa sensibilità. Tutto il mondo che mi circondava, finanche il marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava convalescente. Al centro della piazza si erge una statua di Dante […]. Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare le cose per la prima volta e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio e alla mia mente».
Questa rivelazione sarà ulteriormente alimentata a Torino, città che lo seduce per la sua pianta regolare, per i suoi edifici ritmati da lunghe prospettive di portici e le sue piazze silenziose al cui centro si stagliano i monumenti equestri.
Subito dopo De Chirico approda a Parigi, dove soggiorna sino al 1915, anno in cui deve far ritorno in patria, richiamato alle armi a causa dell’ingresso in guerra dell’Italia. Durante il soggiorno parigino nascono opere come il ritratto di Guillaume Apollinaire (1914) e Le chant d’amour (1914).

CONFRONTI E INFLUENZE

In L’enigma dell’oracolo (opera realizzata nello stesso anno di L’enigma di un pomeriggio d’autunno) risulta particolarmente evidente il riferimento alla pittura di Böcklin e l’importanza che il soggiorno monacense ha rivestito nella formazione di De Chirico e nella formulazione della nuova poetica metafisica. La figura di spalle che, avvolta in una lunga veste, si staglia contro il cielo è ripresa da Ulisse e Calipso del pittore svizzero, così come l’atmosfera sospesa e misteriosa che caratterizza l’intera opera.

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Guillaume Apollinaire

Con il poeta francese Guillaume Apollinaire, figura di riferimento dell’avanguardia letteraria parigina, De Chirico stringe una particolare amicizia. Attraverso di lui conosce quello che diventerà il suo mercante di riferimento, Paul Guillaume, e inizia a esporre nelle mostre che animano la vita artistica della città e che ospitano le ricerche più radicali e d’avanguardia, come il Salon des Indépendants e il Salon d’Automne. Nel ritratto di Guillaume Apollinaire (2) De Chirico costruisce lo spazio come una scatola prospettica: in primo piano colloca il calco di una statua greca, con un paio di occhiali da sole: si tratta probabilmente di Orfeo, a cui Apollinaire aveva dedicato parte della sua opera poetica. Accanto posiziona una stele, su cui sono scolpiti un pesce, simbolo cristologico, e una conchiglia-lira, che ancora una volta rimanda a Orfeo. L’artista potrebbe infatti voler mettere qui in scena la metafora del poeta come veggente. Il ritratto di Apollinaire colto di profilo si staglia come una sagoma nera su uno sfondo verde intenso. Sulla tempia è disegnato un cerchio bianco, come un bersaglio del tiro a segno. Per i surrealisti questo motivo diventa una sorta di testimonianza delle facoltà di preveggenza di De Chirico, in quanto Apollinaire, in guerra, sarà colpito proprio alla testa da una scheggia di granata.

Le chant d’amour

In questo dipinto del 1914 (3) De Chirico dispone, sul piano verticale, un calco in gesso della testa dell’Apollo del Belvedere e un guanto di caucciù rosa-arancione inchiodato alla parete; di fronte, sul piano di posa, colloca una palla da tennis verde, di forma sferica perfetta. Un porticato delimita lo spazio sulla destra, e all’orizzonte, a chiudere la scena, oltre un muro di mattoncini si vede una locomotiva, motivo caro all’artista, che allude al viaggio. Tutto è immobile, avvolto in un silenzio eterno. Gli oggetti proiettano ombre lunghe e definite; sfugge la catena logica che li relaziona, e per tale ragione essi dischiudono una dimensione della visione che va oltre il visibile, per sconfinare verso una sfera mentale, enigmatica, misteriosa e sfuggente. Il guanto è un elemento che ricorre più volte nelle opere di De Chirico. Apollinaire ricorda in un suo scritto: «Il signor De Chirico ha appena acquistato un guanto di caucciù rosa, uno degli oggetti più impressionanti che si possano trovare in vendita. Esso è destinato […] a rendere le sue opere future più impressionanti e terribili di quanto non siano i suoi quadri passati». Questo guanto potrebbe ricordare quelli usati dai chirurghi e dalle levatrici e, dunque, il dipinto potrebbe alludere al momento della nascita.
Nel 1923 la riproduzione di Le chant d’amour, pubblicata sulla rivista “Les feuilles libres”, venne vista dal pittore René Magritte ( p. 360) che ne rimase talmente colpito da scrivere: «Fu uno dei momenti più emozionanti della mia vita: i miei occhi avevano visto il pensiero per la prima volta».

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Il grande metafisico 

Come si è visto, nel 1915, De Chirico e il fratello, richiamati alle armi, fanno ritorno in Italia da Parigi. Dopo un passaggio a Firenze, loro distretto militare, sono inviati a Villa del Seminario, ospedale militare alle porte di Ferrara. La città estense seduce De Chirico con le sue piazze, le botteghe dell’antico ghetto, i biscotti e i dolci dalle strane forme presenti nelle vetrine dei negozi. Realizza allora alcuni interni metafisici e opere capitali come Le muse inquietanti ( p. 336) e Il grande metafisico (4), nelle quali fa la comparsa il tema del manichino.
Come osserva il critico Maurizio Fagiolo dell’Arco, per De Chirico i manichini sono «l’aspetto moderno della statua, che all’artista interessa sempre come calco (e quindi: doppio, rispecchiamento, ombra)». De Chirico stesso racconta la genesi di quest’opera, per la quale trae ispirazione dalla vista della statua dell’Ariosto a Ferrara. Di questa visione e rivelazione egli fornisce la propria rielaborazione misteriosa e solenne costruendo un manichino svettante verso l’alto, realizzato attraverso un accumulo di oggetti diversi, come se fosse una sorta di trofeo antico: la testa è la sagoma di un manichino dai tratti sintetici e riassuntivi e dalla forma ovoidale; il corpo è formato da una serie di oggetti colorati come squadre e strutture in legno. La figura si erge al centro di una piazza vuota, delimitata da alcuni edifici, in un gioco di contrasti tra le costruzioni scure, che proiettano ombre ben definite, e quelle chiare, immerse nella luce.

Contesti d’arte - volume 3
Contesti d’arte - volume 3
Dal Neoclassicismo a oggi