Contesti d’arte - volume 2

Canaletto e il Vedutismo

Pittore e incisore di grande fama, Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto (Venezia 1697-1768), è l’artista che più contribuisce all’affermazione internazionale della veduta. Già praticata in forma embrionale nel Cinquecento e Seicento – si parla al tempo di "pittura di ruderi e antichità" – la veduta conosce la sua maggiore fortuna nel Settecento, in concomitanza con l’affermarsi del turismo internazionale. Considerata in precedenza un genere minore, vince le perplessità di quanti le oppongono la solennità della pittura di storia e religione, di battaglie e ritratti. Canaletto è un figlio d’arte: il padre Bernardo è pittore di scenografie. Si forma egli stesso come scenografo ma si risolve ben presto ad abbandonare la pratica della pittura teatrale per proporre immagini di grande precisione e nitidezza, sobrie e meticolose. In contatto con amatori e collezionisti inglesi in viaggio a Venezia o residenti nella città lagunare, Canaletto beneficia di grande notorietà in Inghilterra presso la più alta aristocrazia e perfino la famiglia reale. Attorno al 1730 suo agente esclusivo è un inglese, il console Smith: divenuto mercante di quadri, questi si adopera con abilità e tenacia per introdurre il suo protetto nel mercato britannico delle opere d’arte, il più florido al tempo. Titolare di una grande bottega e affiancato da innumerevoli assistenti, Canaletto è artista e abile imprenditore.
Non si limita solo a esportare i propri quadri: nel 1746 lascia la Repubblica di Venezia e si trasferisce a Londra per svolgervi la propria attività. Eccettuati brevi ritorni in laguna, soggiorna nella capitale inglese per circa un decennio. Diviene membro dell’Accademia a una data tarda, nel 1763, malgrado l’ampio riconoscimento internazionale e la notorietà che circonda la sua opera: la veduta, si sostiene, è genere troppo umile per poterne elevare un interprete, non importa se brillante, all’ambito rango di accademico.
Siamo soliti ammirare i quadri di Canaletto per la morbida luminosità delle scene e la molteplicità dei dettagli, senza soffermarci sugli aspetti narrativi: eppure le vedute dell'artista sono ricche di racconto e fissano aspetti rilevanti della società del tempo.

Il bacino di San Marco e San Giorgio Maggiore

Un esempio di questo stile narrativo è II bacino di San Marco e San Giorgio Maggiore (16), composizione databile agli anni tra 1735 e 1740. Scorgiamo edifici civili e religiosi tra i più importanti di Venezia disposti quasi in bella parata: il campanile e le cupolette di San Marco e il Palazzo Ducale. Se spostiamo lo sguardo da sinistra a destra incontriamo il campanile e la facciata di San Giorgio Maggiore. La scena è ampia: Canaletto sembra scegliere per sé il ruolo di guida che porta il turista in giro per la città, sostando presso terrazze panoramiche e punti di vista emozionanti. Mira a destare sorpresa e adotta accorgimenti precisi. L’aria è tersa, la visibilità acuita dalla luce chiara e trasparente. Canaletto, annota ammirato un contemporaneo, «fa in questo paese stordire universalmente ognuno che vede le sue opere. [...] Vi si vede lucer entro il Sole». Una sfrangiata nuvoletta primaverile o estiva sale all’orizzonte annunciando tempo sereno. Tra la riva e l’isola di San Giorgio Maggiore dissemina una miriade di episodi di vita quotidiana veneziana. La laguna all’ingresso del Canal Grande appare solcata da gondole, imbarcazioni a vela, vascelli trialberi, semplici gozzi da pescatore. Assistiamo al carico e allo scarico di merci o al trasporto di turisti. La gondola in primo piano accoglie un passeggero altolocato tra le due figure di gondolieri in calzoni rosso fuoco: forse l’uniforme di un nobile casato. Se avvicinata come mera rassegna di edifici, l’immagine non dischiude le sue dimensioni narrative: ma la folla del turismo e del commercio internazionali è protagonista del quadro non meno della luce o di architetture riprodotte impeccabilmente.

 › pagina 473 

La piazzetta dei marmorari

Canaletto è un cronista, o per meglio dire uno storico della Venezia settecentesca: formula argute osservazioni sociali e percepisce acutamente i processi economici in atto. Con La piazzetta dei marmorari (17) Canaletto ci introduce a un luogo semplice e popolare, dove non possiamo attenderci di incontrare stranieri eleganti o patrizi veneziani in giro per segreti convegni d’amore. Modeste abitazioni di artigiani e alcune botteghe di lavoratori del marmo si affacciano su uno slargo oscuro e poco frequentato. Il quadro vive tutto della sua luminosità e di alcune gustose scene di genere. Vediamo gondolieri che attendono clienti, donne uscite sul balcone per la bella giornata e in procinto di filare e madri di famiglia che si sporgono dalla finestra mentre i bambini giocano e i padri, accaldati e coperti di polvere di marmo, riempiono del rumore di scalpelli l’intera corte. Sullo sfondo alcuni oziosi riposano seduti o semidistesi sulle gradinate che scendono all’imbarcadero. Le fronti degli edifici, anche i più modesti, occupano una larga parte dell’immagine e svolgono una funzione di grande importanza, assieme ai panni stesi, quanto all’illuminazione del dipinto. Osserviamo come Canaletto usi le fronti stesse a mo’ di superfici riflettenti: esse raccolgono la luce che cade dal cielo e la specchiano tutt’attorno, impedendole di smarrirsi in golfi d’ombra. Perfino le pareti in semplici assi di legno delle botteghe, benché logore e cadenti, appaiono trasfigurate dalla luce, smaglianti come i rocchi di marmo sparsi per ogni dove. Canaletto dissemina l’immagine di dettagli grigio-perlacei o del tutto candidi: desidera accentuare l’effetto di gioiosa luminosità. Scorgiamo ampie facciate dipinte o trattate a calce, timpani di tetti pure imbiancati, arcatelle e balaustre in marmo, infine pinnacoli e cupolette. E poi: panni stesi ad asciugare sul davanzale e camicie ampie e gonfie, pronte ad assorbire la chiara luce diurna.
Le vedute canalettiane appaiono colte dal vivo, immagini quasi documentarie: sono invece costruite con accortezza e tecnica ricercata. L’artista preferisce dissimulare trucchi e sortilegi: le sue immagini sono tutt’altro che sprovviste di magia.
GUIDA ALLO STUDIO
Canaletto
  • Diffusore del Vedutismo
  • Molto apprezzato dall’aristocrazia inglese
  • Immagini precise e nitide
  • Rappresentazione di scene di genere
  • Momenti di vita quotidiana veneziana nelle vedute
  • Uso sapiente della luce
  • Prospettiva rigorosa
  • Attenzione alla resa dei molteplici particolari
 › pagina 474 

Francesco Guardi

Considerate sotto l’aspetto esecutivo, le vedute di Francesco Guardi (Venezia 1712-1793) sono assai distanti da quelle di Canaletto. Se quest’ultimo predilige composizioni luminose e panoramiche, caratterizzate da una prospettiva rigorosa, Guardi sceglie giorni brumosi e foschi, scorci inconsueti, evocati con piccoli e frequenti colpi di pennello. All’orientamento tecnico e documentario di Canaletto si contrappongono dimensioni fantastiche, inquiete e mutevoli. Formatosi come pittore di figure, Guardi è cognato di Tiepolo (Cecilia Guardi, sorella del pittore, è moglie di Tiepolo e madre di Giandomenico e Lorenzo): per più versi ne eredita il talento nell’improvvisazione e la propensione alla rapidità, congeniale peraltro all’attività di pittore-imprenditore.
Guardi non dipinge solo vedute con elementi architettonici effettivamente esistenti, ma pure vedute d’invenzione, con ruderi antichi e monumenti fantastici, i cosiddetti "capricci", caratterizzati da convenzioni iconografiche e narrative loro specifiche.

La torre dell'orologio in piazza San Marco

Una veduta con elementi architettonici estremamente significativa è La torre dell’orologio in piazza San Marco (18) dove Venezia, o meglio il luogo forse centrale della città, viene colta in una mattina di primo autunno o primavera, dalle incerte condizioni atmosferiche. Nuvole sfrangiate si alzano all’orizzonte, il cielo va rasserenandosi o più verosimilmente annuncia tempesta, panni e tende sono agitati dal vento. L’esecuzione è veloce e sommaria, mutevole come il tempo scelto dall’artista. Toni chiari e toni scuri si avvicendano drammaticamente, secondo un ritmo oppositivo e binario. Stracci e mantelli, evocati con un solo colpo di pennello, disseminano la superficie di fuggevoli annotazioni di colore. Il punto di vista è frontale e ad altezza d’uomo, ma l’immagine, dal curioso formato oblungo, appare singolarmente decentrata. L’enfasi compositiva cade sull’edificio civile posto sulla sinistra, sbalzato dalla piena luce, mentre la metà destra invece, con San Marco, appare ritrarsi nell’ombra.
 › pagina 475 

Capriccio architettonico con rovine romane

I capricci sono tradizionalmente caratterizzati dal contrasto tra architettura e natura, grandiosità delle epoche passate e misera umanità presente: costituiscono variazioni figurative sui temi della fugace gloria terrena e della decadenza degli imperi. Il capriccio di Guardi non costituisce eccezione sotto il profilo delle scelte iconografiche e dei propositi moraleggianti e allegorici: potremmo bene interpretarlo come vanitas. Osservando Capriccio architettonico con rovine romane (19), oggi non sappiamo bene dove ci troviamo: certo non a Venezia, forse in un punto della costa adriatica orientale al tempo appartenente ai territori della Repubblica e recante rovine romane. La vaghezza dell’ubicazione è parte dell’effetto ricercato. Vestigia di un colonnato antico sono coperte di vegetazione. Ai piedi dell’antico arco e di colonne tuttora imponenti vediamo contadini penosamente intenti a dissodare il terreno, pescatori dalle vesti lacere che rammendano reti, riparano vele, saggiano le condizioni della barca prima di prendere il mare. Perdigiorno e "lazzaroni" (così indicavano al tempo le figure di sfaccendati che popolano convenzionalmente i quadri di paesaggio) giocano tra le rovine o sostano nei paraggi. In lontananza ancora imbarcazioni di pescatori. I propositi di dominio e l’orgogliosa affermazione della propria civiltà, sembra affermare Guardi, non sono che illusione: nessuno splendore terreno è perenne. A distanza di secoli nessuno ricorda: le occupazioni quotidiane, necessità o svaghi, assorbono interamente chi sopravviene e conduce un’esistenza faticosa. Attorno alle rovine l’aria è per di più grave e cupa, densa di umidità estiva. I tronchi in primo piano sono abbattuti e spezzati, quasi ad attestare metaforicamente la collera della divinità: è evidente che il declino di Venezia offre spunti di riflessione e si presta a pessimistici commenti da parte del pittore. Le figure sono ridotte a uno o due tocchi di colore: si chiamano "macchiette" nel gergo storico-artistico. Le architetture si dissolvono bruno-argentee nel crepuscolo lagunare, perdono saldezza e fissità: tutto quanto esiste sembra smarrire contorni e svanire, quasi per un presagio di disfacimento e sventurata fatalità. Dunque non è sbagliato considerare il capriccio anche come una vanitas, cioè come una meditazione affascinante e sottintesa sulla vanità delle opere dell’uomo, la frugalità della vita e l’usura distruttiva del tempo.
GUIDA ALLO STUDIO
Francesco Guardi
  • Influenza di Tiepolo nell’improvvisazione
  • Pittore di vedute reali o d’invenzione
  • Scene inserite in atmosfere fosche, fantastiche e inquiete
  • Composizioni con ruderi antichi o monumenti fantastici (“capricci”)
  • Pennellate brevi e rapide

Contesti d’arte - volume 2
Contesti d’arte - volume 2
Dal Gotico internazionale al Rococò