Imitatori e caravaggeschi

6.3 Imitatori e caravaggeschi

Caravaggio, come si è detto, non ha avuto allievi nel senso tradizionale della parola. Il suo "insegnamento" non si traduce mai in una pratica di bottega, con un rapporto maestro-allievi, ma piuttosto in una serie di imitatori, che contribuirono alla diffusione del suo stile e delle sue invenzioni pittoriche. Molti pittori della sua generazione, e in alcuni casi persino artisti più anziani rimangono talmente colpiti dal suo genio che scelgono di seguirne lo stile e il modo di dipingere "dal naturale". Questi artisti rappresentano le persone e le cose nella loro evidenza immediata, creano scene sacre o profane con pochi personaggi, usano la massima concentrazione nella descrizione degli eventi, mostrano scarso interesse per gli sfondi, e pongono tutte le figure in primo piano, adottando contrasti forti di luci e ombre e audace caratterizzazione delle fisionomie.
A differenza dei veri e propri imitatori, che copiavano spesso le invenzioni del Merisi banalizzandole e adattandole alle richieste del pubblico, per "caravaggeschi" si intendono in particolare quei pittori che hanno creato il proprio stile basandosi su quello di Caravaggio, dunque non gli imitatori ma i seguaci ideali, dotati di personalità propria, talvolta anche lontana da quella di Caravaggio. Il termine "caravaggesco" non è pertanto criticamente negativo, ma permette di inquadrare un fenomeno storico molto complesso e variegato.

Bartolomeo Manfredi

Il mantovano Bartolomeo Manfredi (Ostiano 1582-Roma 1622) ha svolto un ruolo che lo distingue da ogni altro. Nel fondamentale e già citato testo di storia dell’arte pubblicato da Baglione nel 1642 si legge che Manfredi «si diede a imitare la maniera di Michelangelo da Caravaggio, e arrivò a tal segno che molte opere sue furono tenute di Michelangelo». Ben presto però Manfredi rielabora in modo personale e inventivo alcuni "soggetti" prediletti da Caravaggio, contribuendo alla diffusione, più che dello stile del maestro, delle sue iconografie. Nella sua serie di "variazioni" egli rappresenta soprattutto episodi divertenti e particolari tratti dalla vita delle strade di Roma. Già Caravaggio aveva ideato composizioni a tema musicale con suonatori, cantanti e zingare che predicono la fortuna leggendo la mano, bevitori all’osteria, giocatori di carte o bari ( p. 370). Seguendo l’esempio del maestro, ma in qualche modo abbassandone il tono per raggiungere un pubblico più vasto, Manfredi dipinge una serie di quadri che combinano insieme questi soggetti e ottengono uno strepitoso successo. Ne II concerto musicale (15), distrutto nel 1993 da un attentato terroristico che ha danneggiato parte della Galleria degli Uffizi, ma noto attraverso copie e fotografie, un gruppo di personaggi è intento a suonare gli strumenti attorno a un tavolo. Il fondo scuro e la luce radente concentrano l'illuminazione sui due musicisti in primo piano che, con i gomiti piegati e le ricche vesti, paiono sporgere oltre il piano visivo del quadro.

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Orazio e Artemisia Gentileschi

Il pisano Orazio Lomi noto come Orazio Gentileschi (Pisa 1563-Londra 1639), più anziano di Caravaggio, trasferitosi presto a Roma, per anni è un tipico manierista, ma viene quasi folgorato dall’arrivo di Caravaggio. Muta radicalmente stile e diventa un caravaggesco, pur fedele alle origini pisane. Purissimo disegnatore, elegante nella presentazione dei personaggi, portato a vedere l’aspetto lirico e introspettivo delle cose, produce una serie di capolavori da cui emana un’aura poetica, come nella grande tela con I martiri Cecilia, Valeriano e Tiburzio visitati da un angelo (16), un’interpretazione personale del caravaggismo, con una luce di matrice toscana più limpida e chiara rispetto al maestro. Dallo sfondo d’ombra emergono personaggi lontani dall’arte del maestro lombardo, leggiadri, estatici ed eleganti.
Gentileschi è stato tra i primi artisti a essere noto all’estero, in Francia e in Inghilterra e ha avuto una figlia pittrice, Artemisia (Roma 1593-Napoli 1653), destinata anche lei a una grande carriera tra Roma, Firenze e Napoli, nonostante le difficoltà ad affermarsi legate al suo sesso. Fra le sue opere, il dipinto Giuditta decapita Oloferne (17) fu terminato a Roma attorno al 1620. Prima la donna aveva soggiornato sette anni a Firenze per sfuggire allo scandalo del processo da lei stessa intentato al paesaggista Agostino Tassi, reo di averla violentata, e che si era concluso con l’umiliazione della giovane. Nel dipinto Artemisia pare trasferire l’odio per l’oppressore: Giuditta, che secondo la tradizione sarebbe un autoritratto, è colta nel punto di decapitare il nemico assiro che ha ingannato con la seduzione, tutelando però la propria purezza. Nei panni di Oloferne, invece, la pittrice avrebbe adombrato il ritratto del suo violentatore. Le vesti e i panneggi sono preziosi ed eleganti, secondo l’insegnamento del padre, ma profondamente caravaggesco è il gioco di luci e ombre, che aumenta la drammaticità serrata e violenta della composizione.

CONFRONTI E INFLUENZE

Realizzato per un committente privato, il Giuditta e Oloferne di Caravaggio segna l’uscita dai temi tipici della sua prima attività e mostra per la prima volta il suo deciso realismo nella rappresentazione di un’azione intensamente drammatica. L’espressione della protagonista, contrariamente a quanto accade per quella di Artemisia Gentileschi, svela l’orrore provato nel dover compiere un atto di efferata violenza, anche se per il bene del proprio popolo. A sottolineare questo sentimento di repulsione è anche la posa di Giuditta, che arretra il busto quasi a prendere le distanze da quanto sta accadendo per sua stessa mano. Nel quadro di Caravaggio il punto di vista è più ravvicinato di quello di Artemisia, ciò comporta una maggiore focalizzazione sui volti dei personaggi, soprattutto sulla terrorizzata e dolorosa smorfia di Oloferne.

Contesti d’arte - volume 2
Contesti d’arte - volume 2
Dal Gotico internazionale al Rococò