Contesti d’arte - volume 1

Mirone: verso l’età classica

Un importante artista la cui opera si colloca a cavallo tra il periodo severo e l’età classica è Mirone di Eleuthere (Beozia), attivo tra il 470 e il 440 a.C. ad Atene. La sua vasta produzione in bronzo era costituita da statue di atleti, dèi ed eroi, ma anche di animali; celebre per il suo realismo – tale da ingannare pastori e animali – era per esempio una vacca consacrata sull’acropoli di Atene. La sua attività ci è nota attraverso fonti greche e latine, grazie alle quali è stato anche possibile identificare le copie marmoree, di età romana, di due sue opere: il Discobolo ("lanciatore del disco") e Atena e Marsia.

Discobolo

Secondo i giudizi sulla sua arte raccolti dallo scrittore latino Plinio il Vecchio nella  Naturalis historia, Mirone è del tutto concentrato sullo studio del corpo e dei suoi movimenti, mentre nutre un interesse decisamente inferiore per i dettagli o per l’espressione dei sentimenti. In effetti, il volto del Discobolo (9) non reca alcun segno di sforzo, apparendo impassibile; e anche la resa della capigliatura con la cesellatura, aspetto tipico dello stile severo, passa in secondo piano rispetto alla scelta ardita di rappresentare un momento particolare del gesto atletico, quello in cui il caricamento rotatorio è finito e il corpo sta per scattare come una molla per effettuare il lancio del disco. Il corpo, curvato in avanti, le braccia aperte, il peso concentrato su una sola gamba, il movimento di rotazione, sono tutti elementi che trasmettono tensione e drammaticità. Allo stesso tempo, però, dalla figura emana un senso di armonia, derivante dalla geometria entro cui è inscrivibile la composizione.

 › pagina 121 

Atena e Marsia

Mirone dimostra grande capacità di cogliere l’istante cruciale di un’azione anche nel gruppo di Atena e Marsia, la cui copia marmorea è giunta fino a noi frammentaria (10-11). L’opera raffigura una scena mitologica: Atena ha appena gettato a terra il doppio flauto, da lei inventato, perché specchiandosi nell’acqua si è accorta che suonandolo le si deforma il volto; il sileno Marsia (un essere mitologico di forma umana ma con attributi animaleschi, come la coda equina), rimasto rapito dal suono, osserva lo strumento prima di impossessarsene. Mentre Atena è avvolta in una veste drappeggiata, Marsia è completamente nudo.
Il contrasto tra i due è però dato soprattutto dal fatto che la figura di Atena è divergente nel movimento e contrastante nell’atteggiamento rispetto a quella di Marsia. La dea, con la gamba sinistra lievemente flessa e il peso appoggiato sulla destra, è infatti colta in una composta posizione di stasi, mentre la testa voltata verso destra esprime sdegno nei confronti dell’oggetto gettato a terra e riprovazione nei confronti di chi osasse raccoglierlo. Il sileno, al contrario, dà un’idea di ritmo e movimento, essendo raffigurato in uno stato di tensione derivante dalla sorpresa suscitata dalla visione del flauto e nell’istante prima di compiere l’azione. La gamba destra è tesa in avanti a tracciare una diagonale che prosegue nel busto inclinato; il peso del corpo, rivolto all’indietro, è sorretto dalla gamba sinistra che non poggia del tutto sul terreno (il tallone sinistro, così come il destro, è sollevato); il braccio destro alzato (oggi perduto) sta per riabbassarsi per raccogliere il flauto scagliato dalla dea.
Il gruppo, posto in origine sull’acropoli di Atene, rappresenta attraverso il mito l’opposizione tra la razionalità umana e la ferinità animalesca, tra la civiltà e la barbarie, e forse, considerata l’epoca in cui è stato realizzato, tra Greci e Persiani.

LE FONTI

Mirone è considerato una personalità cardine nel passaggio dallo stile severo alla classicità vera e propria; Cicerone (oratore e politico romano del I secolo a.C.) per esempio scrive: «Le opere di Mirone non sono ancora vicinissime alla verità, nondimeno non si esiterà a dichiararle belle; quelle di Policleto sono ancora più belle e già veramente perfette secondo la mia opinione». Con Policleto siamo in piena età classica ( p. 125).

 › pagina 122 

Il Tempio di Zeus a Olimpia 

Nel periodo severo ebbe inizio la costruzione di quello che fu poi considerato il più classico dei templi d’ordine dorico puro, il Tempio di Zeus a Olimpia. Il santuario panellenico di Olimpia, già da secoli sede dei Giochi che si tenevano ogni quattro anni, ospitava all’interno del témenos vari edifici di culto e altari, tra cui quello dove era venerato Zeus. La costruzione di un vero e proprio tempio dedicato alla divinità maggiore dell’Olimpo greco, però, fu decisa solo nel 471 a.C., dopo il saccheggio della vicina città di Pisa (nell’Elide), che fruttò un ricco bottino. Il tempio fu terminato in una quindicina di anni.
L’edificio aveva una grande cella preceduta da un pronao, con due colonne tra le ante, al quale corrispondeva sull’altro lato breve un opistodomo con uguale fronte. Intorno correva una peristasi con le canoniche sei colonne sulla fronte e il doppio più uno, cioè tredici colonne, sui lati lunghi (12). La copertura della cella era sostenuta da due file di colonne, disposte su due piani. La decorazione architettonica, secondo lo scrittore greco Pausania, fu realizzata da due artisti, Paionios e Alkamenes. Oggi, tuttavia, si riconosce un’unità di concezione e di esecuzione sia nei frontoni sia nelle metope: essi sarebbero opera di un unico artista, con più collaboratori, che ha saputo conferire all’ideale estetico severo una grandiosa monumentalità, scegliendo soggetti mitologici in grado di soddisfare nello stesso tempo il patriottismo locale e i sentimenti panellenici dei Greci che visitavano il santuario.

Statua crisoelefantina di Zeus 

L’imponenza della struttura esterna del tempio trovava riscontro nella statua di Zeus, alta forse più di dodici metri, custodita all’interno della cella. Si trattava di una scultura crisoelefantina (da chrysós, “oro”, ed eléphas, “avorio”), sulla cui intelaiatura lignea, cioè, era applicato l’oro per le vesti e l’avorio per il corpo. Dell’opera colossale, commissionata allo scultore Fidia e considerata una delle  sette meraviglie del mondo, si hanno oggi solo descrizioni antiche: il dio, seduto in trono, con il mantello lasciato cadere sui fianchi e sulle ginocchia, teneva nella destra una Nike (dea alata della Vittoria) e stringeva con la sinistra il lungo scettro (13).

Frontone orientale 

Tra i soggetti mitologici scelti per la decorazione architettonica c’è la saga di Pelope (l’eroe da cui deriva il toponimo “Peloponneso” a cui si attribuiva l’istituzione dei Giochi olimpici) e di Enomao, re di Pisa. Il mito racconta che quest’ultimo, ossessionato da una profezia che ne decretava la morte per mano del genero, sfidava ogni pretendente della figlia Ippodamia in una corsa con il carro da Olimpia a Corinto: in caso di vittoria il pretendente avrebbe ottenuto in sposa Ippodamia, in caso di sconfitta sarebbe stato ucciso. La raffigurazione della sfida tra Pelope ed Enomao occupa il frontone principale del tempio, quello orientale (14-15). Zeus è rappresentato al centro della composizione, con ai lati i due protagonisti del mito e poi, specularmente, due donne (da una parte Sterope, madre di Ippodamia, dall’altra la figlia) seguite da servitori e ancelle, dai cavalli con i carri e, nella parte terminale, dalla personificazione dei due fiumi di Olimpia (Alfeo e Cladeo). L’allineamento frontale dei personaggi, colti nell’attimo tra preparazione e svolgimento della gara, conferisce solennità all’intera composizione.

 › pagina 123 

Frontone occidentale 

La forza del movimento e la violenza caratterizzano invece il frontone occidentale (18-19). Qui è raffigurato lo scontro tra i Centauri (esseri mitici per metà uomo e per metà cavallo) e i Lapiti. Invitati alle nozze di Piritoo, re dei Lapiti, i Centauri si ubriacano e tentano di rapire le donne dei Lapiti. Nel frontone viene rappresentata la violenta aggressione, con singoli gruppi composti ciascuno da un Centauro, una Lapitessa o un Lapita che interviene per liberarla. Al centro si trova la possente figura di Apollo, che con la testa voltata di lato e il braccio destro alzato garantisce la vittoria dei Lapiti sui Centauri e il ripristino dell’ordine. Il dio crea una connessione tra i gruppi alla sua destra e quelli alla sua sinistra, che a loro volta sono uniti l’uno all’altro tramite gesti o semplici sguardi. Anche in questo caso, come in altre opere del periodo, è possibile vedere la trasposizione nel mito di un tema tipicamente panellenico: lo scontro tra Occidente e Oriente, tra Greci e Persiani, e il trionfo della civiltà (rappresentata dai Lapiti) sulla barbarie (i Centauri).

Le metope del fregio 

Anche le dodici metope del fregio sono connesse ai Giochi olimpici. Ciascuna di esse è infatti dedicata a una delle fatiche di Eracle, che secondo il mito avrebbe istituito la gara di corsa coi carri presso la tomba di Pelope ospitata nel santuario di Zeus. Su quattro delle metope Eracle è accompagnato da Atena, che lo segue partecipe delle sue fatiche. In una di queste la dea attende seduta su una roccia mentre Eracle porta gli uccelli dal lago Stinfalo (16); in un’altra è rappresentata dietro di lui mentre lo aiuta, con un gesto naturale che non fa trasparire alcuno sforzo, a sostenere il peso della volta celeste che si è caricato sulle spalle per ottenere da Atlante i pomi d’oro sottratti dal giardino delle Esperidi. L’eroe, con il capo chino sotto l’enorme peso, è rivolto proprio verso quest’ultimo, che gli tende i frutti d’oro (17).

Contesti d’arte - volume 1
Contesti d’arte - volume 1
Dalla Preistoria al Gotico