T2 - L’amara verità di Utanapishtim

T2

L’amara verità di Utanapishtim

  • Tratto da tavola X, vv. 212-278, 304-317
  • Lingua originale accadica

Rimasto solo dopo la morte di Enkidu, Gilgamesh si mette alla ricerca di Utanapishtim, mitico antenato sopravvissuto al diluvio universale e divenuto immortale, al quale vuole chiedere in che consista il segreto della vita eterna. Giunto al suo cospetto dopo aver affrontato mille pericoli, stanco e indebolito, l’eroe spiega perché sia ridotto in tali condizioni e ascolta la verità sconsolante sulla vita umana pronunciata dall’antenato divino.

Utanapishtim così parla a lui, a Gilgamesh:

«Perché le tue guance sono così emaciate1 e la tua faccia stanca?


Perché il tuo cuore è così confuso e il tuo sguardo assente?

215 Perché regna angoscia nel profondo del tuo essere?


Perché la tua faccia è simile a quella di uno che ha viaggiato per lunghe distanze?

Perché la tua faccia porta i segni del caldo e del freddo,

e indossando soltanto una pelle di leone, tu vaghi nella steppa?»


Gilgamesh così parlò a lui, a Utanapishtim:

220 «Non dovrebbero le mie guance essere così emaciate e la mia faccia stanca?


Non dovrebbe il mio cuore essere così confuso e il mio sguardo assente?

Non dovrebbe regnare angoscia nel profondo del mio essere?


Non dovrebbe la mia faccia essere simile a quella di uno

che ha viaggiato per lunghe distanze?

225 Non dovrebbe la mia faccia portare i segni del caldo e del freddo,

e indossando soltanto una pelle di leone, non dovrei io vagare nella steppa?


L’amico mio, il mulo imbizzarrito, l’asino selvatico delle montagne, il leopardo della steppa,

Enkidu, l’amico mio, il mulo imbizzarrito, l’asino selvatico delle montagne, il leopardo della steppa,


noi, dopo esserci incontrati, abbiamo scalato assieme la montagna

230 abbiamo catturato il Toro celeste e lo abbiamo ucciso,2


abbiamo abbattuto Khubaba, che viveva nella Foresta dei Cedri,3

noi abbiamo ucciso i leoni nei passi di montagna;


l’amico mio che io amo sopra ogni cosa, che ha condiviso con me ogni sorta di avventure,

Enkidu che io amo sopra ogni cosa, che ha condiviso con me ogni sorta di avventure,


235 ha seguito il destino dell’umanità.4

Per sei giorni e sette notti io ho pianto su di lui,


né ho permesso che fosse seppellito,

fino a che un verme non è uscito fuori dalle sue narici.

Io ho avuto paura della morte,

240 ho cominciato a tremare e ho vagato nella steppa.


La sorte del mio amico pesa su di me:

per sentieri lontani ho vagato nella steppa.


La sorte di Enkidu, il mio amico, pesa su di me:

per sentieri lontani ho vagato nella steppa.


245 Come posso io essere tranquillo, come posso io essere calmo?

L’amico mio che amo è diventato argilla,


Enkidu, l’amico mio che amo, è diventato argilla;

ed io non sono come lui? Non dovrò giacere pure io

e non alzarmi mai più per sempre?»


250 Gilgamesh parlò a lui, a Utanapishtim:

«Per poter raggiungere te, Utanapishtim il lontano,5 del quale parlano gli uomini,

io girovagai, andando in ogni dove,


attraversai paesi pieni di insidie,

e navigai per tutti i mari;


255 il mio viso non assaporò sufficientemente il dolce sonno;

mi ammalai quasi per mancanza di sonno;


il mio cuore era pieno di angoscia.

Che cosa ho guadagnato con le mie fatiche?

Non sono stato accolto bene dalla taverniera,6 perché i miei vestiti erano strappati;


260 ho ucciso orsi, iene, leoni, leopardi, tigri, cervi,

stambecchi, bovini ed altre bestie selvagge della steppa;

ho mangiato la loro carne, ho buttato via le loro pelli.


Possa la sua porta7 essere sbarrata dall’angoscia,

con pece e bitume8 essa sia resa impermeabile!

265 Per me non c’è (stata) protezione alcuna,

le mie disavventure mi hanno ridotto in miseria!»


Utanapishtim parlò a lui, a Gilgamesh:

«Perché, o Gilgamesh, vuoi prolungare il tuo dolore?9


Tu, che gli dèi hanno creato con la carne degli dèi e di uomini;10

270 tu, che gli dèi hanno fatto simile a tuo padre e a tua madre,


proprio tu, Gilgamesh, ti sei ridotto come un “vagabondo”!

Eppure, per te un trono è stato deciso nell’assemblea degli dèi,


mentre per il vagabondo feccia è stata destinata invece di ambrosia;11

i rifiuti e la spazzatura sono per lui come nettare,12


275 egli è vestito di stracci,

come una cintura viene buttato via;


poiché egli non ha senno né saggezza,

egli non possiede intendimento.13

[…]


L’umanità è recisa14 come canne in un canneto.

305 Sia il giovane nobile, come la giovane nobile sono preda della morte.


Eppure nessuno vede la morte,

nessuno vede la faccia della morte,


nessuno sente la voce della morte.

La morte malefica recide l’umanità.


310 Noi possiamo costruire una casa,

possiamo costruire un nido,


i fratelli possono dividersi l’eredità,

vi può essere guerra nel Paese,


possono i fiumi ingrossarsi e portare inondazione:

315 il tutto assomiglia alle libellule che sorvolano il fiume


– il loro sguardo si rivolge al sole,

e subito non c’è più nulla –.


Epopea classica, tavola X, vv. 212-278, 304-317, trad. di G. Pettinato, Rusconi, Milano 1992

 >> pagina 50 

a TU per TU con il testo

Hai mai fantasticato di parlare con un extraterrestre per ottenere da lui notizie su eventuali forme di vita presenti in altri pianeti oppure per avere rivelazioni sul senso stesso della vita umana? A muovere Gilgamesh nel suo viaggio è una simile ansia di sapere, unita al desiderio di sconfiggere il potere misterioso e inesorabile della morte. In ogni epoca l’essere umano ha cercato di dare una risposta a questi grandi interrogativi, immaginando diverse possibilità: per esempio, alcune civiltà hanno creato il mito dell’elisir di lunga vita o di eterna giovinezza.

Anche ammettendo che possa esistere una simile bevanda prodigiosa, probabilmente le domande non si esaurirebbero tanto facilmente. Come potrebbe essere una vita terrena protratta all’infinito? La consapevolezza di disporre di un tempo non più misurabile secondo i nostri criteri non creerebbe forse un’insopportabile noia?

Analisi

Il colloquio tra Gilgamesh e il suo antenato immortale presenta un avvio pieno di interrogativi: Utanapishtim gli chiede motivo del suo stato di abbattimento fisico e morale, che traspare dalle guance emaciate e dalla faccia stanca, dallo sguardo assente e dall’abbigliamento trasandato (vv. 213-218). L’eroe replica con una serie di domande retoriche (vv. 220-226), affermando che è stata la morte dell’amico Enkidu, descritto con il consueto linguaggio metaforico, a gettarlo in tale condizione miserevole, cui non sa vedere alternativa: Enkidu che io amo sopra ogni cosa, che ha condiviso con me ogni sorta di avventure, / ha seguito il destino dell’umanità (vv. 234-235). Gilgamesh non riesce a capacitarsi della sua perdita, al punto che si rifiuta di seppellire l’amico fino a che il corpo non mostra segni evidenti di putrefazione (vv. 236-238). L’eroe esprime tutto il suo smarrimento di fronte alla necessaria finitezza della vita umana, facendosi carico della sorte dell’amico, per lui incomprensibile: Enkidu, l’amico mio che amo, è diventato argilla; / ed io non sono come lui? Non dovrò giacere pure io / e non alzarmi mai più per sempre (vv. 247-249).

 >> pagina 51 

Proseguendo il suo discorso, Gilgamesh passa a presentare le tappe del lungo viaggio che ha compiuto alla ricerca di Utanapishtim, il lontano (v. 251), attraverso mari e paesi pericolosi, spesso a costo di privarsi del sonno e di essere maltrattato a causa del suo aspetto penoso (vv. 251-266). La fatica del viaggio, tuttavia, non è stata ricompensata né sul piano materiale né su quello conoscitivo: da un lato l’eroe non ha ricevuto sollievo – anzi, ha visto aumentare la sua sofferenza – dall’altro la sua domanda sul senso da dare alla vita e alla morte non ha trovato risposta. Le parole con cui Utanapishtim risponde a Gilgamesh trasmettono una certa severità: al discendente più giovane, infatti, rimprovera di aver dimenticato la dignità regale, trasformandosi in un vagabondo (vv. 268-278).

Preparata dalla lunga serie di interrogativi di Gilgamesh e dal duro richiamo dell’antenato alla sua condizione di figlio di immortale, giunge infine la verità di Utanapishtim: L’umanità è recisa come canne in un canneto (v. 304). Alla fine del diluvio gli dèi hanno decretato per tutti gli uomini un destino mortale, senza differenza di sesso o ceto, sebbene nessuno si ponga il problema, veda o senta la faccia della morte. Con una similitudine di rara bellezza ed efficacia, che dimostra l’alto valore poetico dell’epopea mesopotamica, la vita umana è paragonata al volo delle libellule, che sorvolano il fiume / – il loro sguardo si rivolge al sole, / e subito non c’è più nulla (vv. 315-317). Emerge così con nitidezza il tema centrale dell’opera, cioè la drammatica presa di coscienza di Gilgamesh e dell’umanità stessa dell’ineluttabilità della morte. Con queste parole che non lasciano adito a dubbi, peraltro, sembra rinnegata la condizione di eccezionalità dell’eroe messa in rilievo poco prima. In realtà, la ricerca della vita eterna per il protagonista dell’opera non finirà con questo episodio, ma richiederà ulteriori prove che ne incrementeranno la saggezza di eroe e di sovrano della Mesopotamia.

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Che cosa chiede Utanapishtim a Gilgamesh?


2. Qual è la ragione della prostrazione dell’eroe?


3. L’eroe presenta l’amico defunto attingendo a un lessico particolare. Quale? Come sottolinea invece il rapporto di amicizia che lo lega a lui?


4. Che cosa significa la seguente affermazione di Gilgamesh: la sorte del mio amico pesa su di me (v. 241)?

  •     L’eroe è appesantito dal trasporto del corpo dell’amico.
  •     La difficoltà di seppellirlo costituisce un problema.
  •     Gilgamesh sente come propria la condizione dell’amico.
  •     A Gilgamesh non interessa il destino di Enkidu.


5. Che cosa vuol dire che Enkidu ha seguito il destino dell’umanità (v. 235)?

  •     È morto.
  •     Ha fatto quello che fanno tutti.
  •     Ha accompagnato Gilgamesh nei suoi viaggi.
  •     Ha cambiato paese.

 >> pagina 52 

ANALIZZARE E INTERPRETARE

6. Secondo te, perché Gilgamesh si è ostinato per molti giorni a non seppellire Enkidu?


7. Individua nel brano alcune parole e versi ripetuti.


8. Nel discorso di Utanapishtim, in che modo emerge lo scarto tra la condizione attuale di Gilgamesh e quella regale che gli compete per decisione divina? Completa la tabella.


Gilgamesh vagabondo Gilgamesh re di Uruk
 




 


9. Quale verità viene rivelata a Gilgamesh da Utanapishtim?

COMPETENZE LINGUISTICHE

10. Lessico. Gilgamesh è ridotto allo stato di vagabondo. Questo aggettivo deriva dalla radice del verbo vagare cui si aggiunge il suffisso -bondo di origine latina. In italiano esistono pochi altri esempi di aggettivi deverbali (cioè formati a partire da radici verbali) con questo suffisso. Ne elenchiamo alcuni di seguito: dopo averne controllato il significato sul dizionario, scrivi una frase per ciascuno.


moribondo • errabondo • nauseabondo • meditabondo • tremebondo

PRODURRE

11. Scrivere per esprimere. La precarietà della condizione umana è stata oggetto di infinite similitudini e metafore in ogni letteratura. Facendo tesoro dell’immagine di Utanapishtim, che paragona l’umanità a canne recise in un canneto, come esprimeresti con parole tue la mortalità dell’uomo? Scrivi un breve testo (massimo 10 righe) facendo ricorso ampiamente a metafore e similitudini per illustrare questo concetto.

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

L’inevitabilità della morte è motivo di angoscia, ma anche di valorizzazione della vita e dei momenti e delle gioie che essa concede. Secondo te, come si può superare la paura della morte? Con l’insegnante e i compagni rifletti sull’attualità dei grandi interrogativi di Gilgamesh.

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LA VOCE DEI MODERNI

Un’immagine insolita e fortunata

Non aveva certamente letto l’epopea di Gilgamesh, scoperta solo nell’Ottocento, il filosofo e matematico francese Blaise Pascal (1623-1662), al quale dobbiamo una meravigliosa formulazione sulla condizione dell’uomo basata sull’immagine naturalistica della canna.


L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente.


B. Pascal, Pensieri, n. 347, trad. di G. Auletta, Edizioni Paoline, Milano 1961


In genere ci piace ricercare l’origine comune di quelle frasi e immagini che gli autori amano citare in una sorta di dialogo incessante con i modelli del passato: Montale riprende Dante, che a sua volta si ispira a Virgilio, per esempio. In questo caso, è interessante piuttosto constatare la fortuna di un motivo comune attraverso culture diverse, come quella europea e quella mesopotamica, all’epoca di Pascal ancora sconosciuta. D’altra parte, il filosofo non si limita a paragonare l’umanità a una canna recisa in un canneto, come fa Utanapishtim nell’epopea di Gilgamesh, ma vi aggiunge una riflessione più articolata, che deriva dalla sua fede cristiana e da un’acuta sensibilità: a causa della sua mortalità l’uomo è debole come una canna, ma la sua è una debolezza nobile e raffinata, propria di chi può contare sulla risorsa superiore della coscienza.

L’emozione della lettura - volume C
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